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IL MALE ATTRAVERSO I SECOLI
Considerando le diverse spiegazioni che del male hanno dato i filosofi, è possibile ricollegarsi a tre differenti interpretazioni: male come principio divino, male come non essere, male come oggetto del volere. Le differenze tra una concezione e l'altra sono notevoli, ma presentano tutte un comun denominatore, cioè l'influenza del contesto storico in cui hanno avuto origine.
Secondo una prima concezione del male all'interno di dio avrebbe luogo una lotta tra principi opposti: una divinità malvagia invidiosa della divinità buona. Questo dualismo si può individuare in tutte le religioni primitive e soprattutto in quelle orientali. Nella religione persiana di Zarathustra, sviluppatasi attorno ai secoli VII-VI a.C., il contrasto tra dio del bene e dio del male è particolarmente evidente. Secondo questa religione il mondo è teatro di una continua lotta tra un dio buono, Ahura Mazda, "il signore sapiente", e uno malvagio, chiamato Ahriman. Entrambi hanno al loro fianco divinità, le une buone, che tentano di condurre gli uomini sulla via del bene, le altre malvagie, che cercano di traviarli. Un dualismo simile si rinviene anche nel culto di Mitra, che in epoca romana appare come divinità astrale talora identificata con il Sole (Sol Invictus), con chiari tratti demiurgici, ma anche morali: è il dio della lotta contro il male, che, secondo il mito, deve contrastare il serpente e lo scorpione, i quali si oppongono alla sua forza vivificatrice.
Questo dualismo è presente anche nella setta gnostica di Basilide e in quella dei manichei.
Il male come antidivinità all'inizio non è un altro dio, ma un principio che limita la divinità buona, all'interno dell'unico dio. Solo una successiva riflessione ha portato ad eliminare il dualismo all'interno del principio e a contrapporre l'entità buona all'entità malvagia in una separazione netta. Ciò avviene, ad esempio, in Empedocle, per il quale bene e male derivano da principi opposti, cioè amore e discordia (philìa e neìkos). Una dottrina simile fu successivamente riproposta
nell'ambito dell'idealismo tedesco dalla riflessione di Friedrich Schelling (1775-1854), caratterizzata dall'impegno a non arrestare la ricerca razionale di fronte alle problematiche legate ai temi della libertà e del male. Con la pubblicazione nel 1809 delle Ricerche filosofiche sull'essenza umana e gli oggetti che vi sono connessi, Schelling sviluppa una linea di pensiero che, partendo dalla tradizione mistica, intende inserire in Dio stesso il divenire e la storicità, per sviluppare una spiegazione delle vicende umane in grado di lasciar spazio sia all'iniziativa divina sia alla scelta umana. Dio è inteso non come l'Eternamente presente, l'Atto puro, ma come il Vivente, che non solo è, ma pure diviene. Il divenire divino è possibile perché è presente in Lui un fondo oscuro, una natura che Schelling definisce con il termine "fondamento": in tale fondamento si radica la possibilità del male, che dio, affermandosi liberamente come persona, assume nella sua natura luminosa, senza lasciarlo sussistere in modo autonomo. Diversamente da dio l'uomo, che ne è immagine, può rompere tale unione, introducendo una molteplicità che si stacca dall'unità originaria. Attraverso una libera scelta dell'uomo, intesa come atto di ribellione, il male, che in dio è solo una possibilità, diventa una realtà: il male è il negativo presente in dio come possibilità sempre vinta, e nell'uomo come possibilità realizzata attraverso la libertà. Ad ogni modo la scissione non rappresenta un punto di non ritorno, poiché a partire da essa si può intraprendere un cammino di riconciliazione tramite la redenzione offerta da dio all'uomo.
Una diversa concezione di male identifica il bene con l'essere e il male con il non essere. Si può parlare in questo caso di male "metafisico" , che, esistendo solo in virtù dell'essere, è un accidente della realtà. Questa concezione del male può essere fatta risalire a Platone e a Aristotele, per il quale la sua causa è la materia prima. Secondo il primo la causa efficiente dei mali risederebbe nella materia, e in particolare in una proprietà congenita della sua antica natura legata al disordine primordiale. Poiché solo l'anima è in grado di ordinare la materia, l'anima cattiva sarà quella che asseconderà la sua naturale tendenza al disordine. Ad ogni modo per Platone nessun uomo è malvagio di sua volontà, ma lo diventa "per qualche prava disposizione del corpo e per un allevamento senza educazione". Questo pensiero si riallaccia inoltre al celebre mito di Er, nel quale il filosofo spiega come il carattere morale di ciascun individuo dipenda da una libera scelta che si gioca a livello ontologico, per cui siamo noi stessi a decidere in origine quello che vogliamo essere. Il male compiuto allora diventa involontario e necessario, in quanto deriva da una libera scelta originaria. Anche per lo Stagirita il male risiede nella materia e consiste nella mancanza della tendenza della cosa verso la causa finale che è il bene. Secondo Aristotele il bene e il male riguardano in particolare gli essere dotati di facoltà; il sommo bene è la felicità, che consiste essenzialmente nell'essere virtuosi; alla luce della virtù, che per il filosofo significa rendere in buono stato ciò di cui si è virtù, nessun malvagio può essere felice. Il malvagio infine, sebbene ignori ciò che è vero bene, è sempre responsabile dell'atto di volontà con cui si porta verso un falso bene, da cui derivano tutti i mali concreti. Gli stoici, al contrario sostennero che il male non è mai del tutto tale. In particolare Crisippo riteneva che esso fosse necessario all'interno dell'ordine cosmico: solo il bene esiste e l'uomo deve accettare razionalmente ogni evento, che, dal punto di vista del tutto, è bene. Per Plotino il concetto di male si ricollega a quello di materia, concepita tuttavia in maniera ambigua: da un lato è percepita come elemento che deriva dall'Uno ed è legata al male, che a sua volta deriverebbe da un'assenza di bene, dall'altro materia e male sono comunque legati, ma intesi come principi. In quest'ultimo caso il male sarebbe un principio che si oppone al bene, e quindi non potrebbe derivare dall'Uno. Plotino giunge a questo dualismo perchè non sembra sufficiente considerare il male come semplice assenza di bene, dato che esso appare come forza che si oppone al bene stesso.
Che il male sia non essere è stato comunque sostenuto da tutta la tradizione cristiana, che esclude che la natura sia male, poichè ogni essere deriva da dio. Su questa base si sviluppa il pensiero di Agostino, il quale giunse alla conclusione che da un punto di vista ontologico il male è non essere. Da un punto di vista etico invece il male è ricondotto al peccato originale: il libero arbitrio implica la scelta tra due possibilità opposte, ma esso è inferiore alla libertà, che costituisce l'unica possibilità di scegliere solo il bene. Per Agostino la nature dell'uomo è incline al male; l'umanità intera è macchiata dal peccato di Adamo e tutti gli altri mali derivano da esso. Ma allora che cosa sceglie l'uomo quando sceglie il male, che è non essere? Secondo Agostino quando l'uomo antepone un bene inferiore ad uno superiore compie il male. Nel libro secondo delle Confessioni Agostino analizza con lucidità la questione del rapporto tra uomo e male:'La tua legge, Signore, condanna chiaramente il furtoCiò nonostante io volli commettere un furto e lo commisi senza esservi spinto da indigenza alcunaMi appropriai infatti di cose che già possedevo in maggior misura e molto miglior qualità; nè mi spingeva il desiderio di godere ciò che col furto mi sarei procurato, bensì quello del furto e del peccato in se stessiNon l'oggetto per cui mi annientavo, ma il mio annientamento in se stesso io amai, anima turpe, che si scardinava dal tuo sostegno per sterminarsi non già nella ricerca disonesta di qualcosa, ma della sola disonestà'. Agostino dunque sottolinea l'assurdità e la gratuità dell'atto immorale: il male è un nulla che affascina.
Una lunga corrente di pensiero, che va da Boezio fino a Tommaso d'Aquino, propone un'assoluta esclusione del male dall'essere. Secondo l'Aquinate al libero arbitrio dell'uomo è dovuta la presenza del male nel mondo. Tommaso accetta la dottrina platonico-agostiniana della non-sostanzialità del male: il male non è altro che mancanza di bene. Esso è di due specie: pena e colpa. La pena è la mancanza della forma (realtà o atto) o di una parte, che è richiesta dall'integrità di una cosa. La colpa è la mancanza di un'azione. La colpa (o peccato) è l'atto con cui l'uomo sceglie deliberatamente il male, cioè agisce in contrasto con l'ordine della ragione e della legge divina. L'uomo è infatti dotato della capacità di individuare il bene e di tendere ad esso, ma presenta anche la disposizione naturale a intendere i principi pratici, dai quali dipendono tutte le azioni buone. Questo habitus naturale pratico è la sinderesi, che ci dirige al bene ed è strettamente legata alla coscienza.
Anche nella filosofia moderna ritroviamo l'idea che il male non sia compatibile con l'onnipotenza divina: è il caso di Leibnitz, secondo cui, nonostante dio permetta il male in quanto non essere, il nostro è il migliore dei mondi possibili: ' Dio è la causa della perfezione nella natura e nelle azioni della creatura, ma la limitazione della recettività della creatura è la causa dei difetti che si trovano nelle sue azioni'.
Per Hegel il male nasce dall'arbitrio della volontà ed è nel suo apparire la nullità assoluta di questo volere:'Anche il male è qualcosa di più alto che non il moto regolare degli astri e l'innocenza delle piante, perchè colui che così erra è pur sempre spirito'. Dunque, mentre la natura è priva di consapevolezza, chi compie il male è perfettamente consapevole di sè e delle alternative che si presentano. Il male come forza che si oppone al bene non è previsto dal sistema hegeliano, in base al quale la realtà, essendo razionale, è già come deve essere: noi vediamo il male perchè l'Assoluto è in divenire.
Una terza concezione nega che il male sia non essere e afferma invece che esso è l'oggetto negativo di un desiderio o di una valutazione. Le radici di questo pensiero le troviamo in Socrate, padre dell'intellettualismo etico, per il quale il male deriverebbe dall'ignoranza del bene. Questa tesi si ripresenta con prepotenza anche nella filosofia moderna. Per Hobbes, ad esempio, cattivo è l'oggetto dell'odio e dell'avversione; per Spinoza, invece, il male non esiste in realtà, ma è solo un modo di pensare che ci formiamo confrontando le cose fra loro. La vera rivoluzione in questo ambito comunque è stata compiuta da Kant, già attuatore di altre due fondamentali rivoluzioni filosofiche. Inizialmente kant affrontò il problema da illuminista, giudicando il male come frutto dell'immaturità dell'uomo. Ben presto egli si dimostrò insoddisfatto di questa teoria e ne sviluppò una nuova e più audace. Con Kant il male per la prima volta è concepito come forza effettiva che si oppone al bene. Le sue considerazioni, sviluppate ne La religione entro i limiti della sola ragione, partono dal fatto che l'uomo è inclinato al male, cosa che si desume dall'esperienza (anche se questa affermazione non è comunque catalogabile). Il problema dunque è capire in che cosa consista il male, visto che ne constatiamo l'esistenza. Per Kant l'uomo compie il male quando assume come regloa di comportamento una massima che si discosta dalla legge morale; si tratta cioè di una scelta che avviene non nel fenomenico, ma nel noumenico: l'uomo è originariamente e ontologicamente libero, ma una volta assunta una massima cattiva diventerà incline al male. Kant ha anche analizzato il problema prendendo in considerazione i concetti di sensibilità e falsità; per quanto riguarda il primo egli ritiene che non si può attribuire all'uomo la responsabilità del fatto che prova emozioni (il male risiede nella sensibilità quando è penetrato dall'intenzione), mentre il male come falsità è determinato da una finezza intellettuale dell'uomo, che spesso infrange la legge morale senza cancellarla completamente, ma dandole un travestimento morale. Se il male si mistifica, allora il compito principale dell'uomo è distinguerlo dal bene; poichè l'inclinazione al male è frutto di una libera scelta, è possibile anche una conversione di cuore. L'uomo, in sostanza, può compiere uno sforzo per avvicinarsi il più possibile alla legge morale, tenendo aperta la speranza che dio esista e contribuisca alla sua salvezza, premiandolo per lo sforzo che compie.
Altra concezione cardine della moderna filosofia è quella di Schopenhauer, che, prendendo le distanze dall'idealismo, giunge ad affermare che il nostro mondo non è altro che il peggiore dei mondi possibili. Egli, affrontando il problema del male, si è trovato davanti a due alternative: affermare o il nonsenso di questo mondo (dichiarando l'orizzonte mondano come unico e il male come presenza inspiegabile a cui l'uomo non può sfuggire) o che esso non esaurisce tutte le possibilità dell'essere (l'uomo può dunque rinunciare a questo mondo dominato dal male proiettandosi verso un'altra vita). Ne Il mondo come volontà e rappresentazione il filosofo arriva asostenere che tutto il mondo è volontà, la quale viene definita unica ed irrazionale; essa non ha uno scopo, se non quello di continuare ad esistere. Ciò determina a tutti i livelli dell'essere una lotta senza fine, appena attenuata dall'unicità della volontà stessa. La volontà dunque coincide con il dolore e il male ed è eliminabile solo grazie alla noluntas, la totale cessazione del volere raggiungibile attraverso un percorso di ascesi.
L'annullamento del male è proposto anche da Nietzsche con la sua concezione di volontà di potenza dell'oltreuomo. Ne Al di là del bene e del male il filosofo tedesco tratta della morale, distinguendola in morale dei signori e morale degli schiavi. La prima è una morale che si fonda sugli uomini, è la morale di coloro che considerano buono tutto ciò che aumenta la loro potenza e accresce la loro forza vitale; la morale degli schiavi, invece, è una morale che si fonda sulle azioni, sulle leggi. La morale degli schiavi è la via di malriusciti, che rinunciano all'affermazione di sè senza però dichiararlo, ma travestendo la loro rinuncia come una virtù. Nietzsche mette in discussione la morale alla radice. Nella distinzione tra bene e male egli individua dua concetti che hanno limitato gli impulsi vitali dell'uomo: il concetto di bene, in particolare, ha portato a considerare malvagio tutto ciò che porta all'affermazione di sè. E' proprio su questa idea che si fonda la volontà di potenza, che implica il recupero dell'uomo nella sua totalità: l'uomo della morale è un uomo piccolo, che ha accettato solo la razionalità, rifiutando gli istinti vitali.
Per quanto riguarda la filosofia novecentesca, il male è un tema fondamentale dell'esistenzialismo, che lo interpreta o come dato ineliminabile dell'esistenza (Heidegger, Jaspers, Sartre), oppure come un ostacolo superabile con la positività della fede (Barth e Berdjaev).
Particolarmente interessante risulta infine l'interpretazione del filosofo italiano Luigi Pareyson, che, alla luce della tragedia di Auschwitz, nella Ontologia della libertà sostiene che il male è percepito come tale (cioè suscita sdegno e richiede una punizione) solo di fronte a un dio a cui imputarlo (perchè impotente) e al quale rivolgersi per cancellarlo (poichè buono). L'alternativa quindi è tra un ateismo confortevole, che cancellando dio elimina anche il male, e un cristianesimo tragico, che riconosca la potenza del male all'interno dell'ammissione stessa dell'esistenza di dio. Secondo Pareyson il male è un'unica tragedia universale, che coinvolge non solo ogni uomo, ma dio stesso, inteso come origine del male stesso: in principio c'è solo dio che, in quanto libertà originaria, è lacerato dal dilemma di dover scegliere tra l'essere e il non essere. La libertà con cui dio vuole l'essere, cioè il bene, ed esclude il non essere, cioè il male, istituisce la possibilità del nulla e del male. Dio sceglie l'essere, ma istituisce anche la possibilità del male. Dio è il presupposto ontologico del male, ma non ne è l'autore: 'Che cos'è dunque il male? Il male non è assenza di essere, privazione di bene, ma è realtàIl male non è una semplice attenuazione o diminuzione o cessazione di bene, ma ne è una negazione reale e positiva nel senso di una deliberata infrazione e inosservanzaIl male autentico è quello voluto come taleil male per il male, per il gusto della disobbedienza, per la voluttà dell'infrazione, per il piacere della crudeltà, per il genio della perversità'.
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