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GIOVANNI BOCCACCIO
La letteratura italiana è ricca di poeti, talora grandissimi, e povera di grandi narratori. In tutta la sua storia i narratori di livello europeo possono essere contati sulle dita di una mano. Il maggiore fra questi è Boccaccio, il cui capolavoro, il Decameron, è conosciuto in tutto il mondo.
L'influenza di Boccaccio si fa sentire, attraverso i secoli, anche nella mentalità comune. Nella lingua italiana esiste addirittura un aggettivo, 'boccaccesco' (per indicare situazioni di beffe scostumate, di sensualità allegra e grossolana), che fa ben capire quale aspetto dell'opera di Boccaccio abbia più colpito la fantasia popolare attraverso i secoli.
Nel Decameron confluiscono i due aspetti fondamentali dell'educazione e della formazione del suo autore: quello borghese- mercantile della famiglia paterna e dell'ambiente fiorentino e quello cortese della giovinezza napoletana, passata frequentando l'aristocrazia angioina.
Il Decameron è insigne esempio di arte tardogotica, espressione fra le più alte dell' 'Autunno del Medioevo'.
Nello stesso, però, la personalità boccacciana è percorsa da un'esigenza preumanistica di rinnovamento.
La vita di Boccaccio, dal punto di vista culturale, può essere suddivisa in due momenti, separati proprio dalla stesura del Decameron nel triennio 1349- 1351, e segnati, il primo, dalla prevalenza di temi tardogotici e , il secondo, da quella degli interessi preumanistici.
Il ventennio precedente il Decameron è caratterizzato da uno sperimentalismo in cui predominano motivi cortesi, romanzeschi, mitologici provenienti dalla tradizione francese e da quella medievale.
Il venticinquennio che va dalla redazione del Decameron alla morte è invece condizionato in profondità dall'incontro, avvenuto nel 1350, e poi dall'amicizia con Petrarca, che Boccaccio considererà sempre il proprio magister. Petrarca lo indirizzza a un ideale di vita umanistico: in questo periodo, infatti, l'uso del latino tende a sostituirsi in Boccaccio a quello del volgare.
Vita
La critica ha ricostruito con una certa fatica le vicende della vita di Boccaccio, e soprattutto della sua infanzia e giovinezza, dovendo fare i conti con le informazioni fantasiose e contraddittorie fornite in proposito dall'autore stesso nelle sue prime opere, nelle quali non è facile distinguere la finzione letteraria e la testimonianza di dati reali.
Giovanni Boccaccio nasce fra il giugno e il luglio 1313 a Certaldo o a Firenze, dal ricco mercante Baccaccino di Chelino. E' un figlio illegittimo, ma il padre lo riconosce e gli fa compiere i primi studi nella propria casa di Firenze.
Nel 1327 segue il padre a Napoli e sta al banco della filiale paterna in quella città, imparando a conoscere direttamente la varia vita che gli fila davanti. Tuttavia non ha alcuna inclinazione per la mercatura e per il lavoro di banchiere, e allora il padre lo indirizza agli studi di diritto canonico. All'università segue per due anni le lezioni di Cino da Pistoia.
Ben presto Giovanni comincia a frequentare la corte angioina e a dedicarsi alla letteratura, scrivendo sia in latino, sia, soprattutto, in volgare.
In seguito la famiglia torna a Firenze nel 1340-1341. Boccaccio rimpiangerà a lungo la vita di corte a Napoli.
A Firenze è senza una occupazione stabile, e cerca invano una sistemazione dapprima a Ravenna, presso i da Polenta, poi a Forlì, presso Francesco Ordelaffi. Intanto si inserisce nella vita culturale cittadina.
Nel 1348 è a Firenze durante la peste, che uccide il padre e la matrigna Bice, nonchè letterati suoi amici. Nel 1350 conosce Petrarca, che era di passaggio a Firenze, recandosi a Roma come pellegrino, in occasione del Giubileo. Ha inizio un'amicizia decisiva per le sorti del preumanesimo italiano.
In questo periodo la vita di Boccaccio ha una svolta per due ragioni: 1) in seguito all'amicizia con Petrarca, incontrato di nuovo personalmente a Padova nel 1351 e poi, a Milano, nel 1359, e con cui ha avviato una fitta corrispondenza, gli interessi umanistici diventano sempre più vivi e pressanti; 2) il comune di Firenze gli affida una serie di incarichi prestigiosi: fra gli altri, quello di invitare Petrarca a tenere corsi presso l'università fiorentina (ma il Petrarca non accettò) e una missione ad Avignone presso Innocenzo VI. Nonstante ciò Boccaccio continua a sognare un ritorno a Napoli, ove infine si reca. Anche questo viaggio non ottiene il risultato sperato: in questo caso la nomina a segratario regio.
Fra la fine del 1360 e l'inizio del 1361 un tentativo fallito di colpo di stato coinvolge vari amici di Boccaccio, facendo cadere anche su di lui vari sospetti. Per quattro anni sarà perciò esonerato da ogni incarico. costretto dagli avvenimenti si ritira a Certaldo.
Incontra una volta Petrarca a Venezia; ma in realtà trascorre la maggior parte del tempo a Certaldo lavorando in latino a opere erudite.
La situazione politica a Firenze cambia, ritornano gli esuli e Boccaccio può riprendere a collaborare con la Repubblica fiorentina. Viene di nuovo inviato ad Avignone per indurre il papa Urbano V, anche grazie a una congrua somma di denaro, a tornare a Roma. Si reca ancora una volta a Napoli e incontra Petrarca a Padova.
La salute sta peggiorando: soffre di obesità e di scabbia. Accetta tuttavia un ultimo incarico dal Comune fiorentino: quello di commentare in pubblico, nella chiesa di Santo Stefano in Badia, la Commedia dantesca. La sua salute peggiora, costringendolo a sospendere le sue pubbliche letture. Si ritira a Certaldo dove muore nel 1375.
IL FILOCOLO E LE ALTRE OPERE
DELLA GIOVINEZZA
Le opere giovanili di Boccaccio sono destinate al pubblico cortese della reggia di Roberto d'Angiò e rivolte alla costituzione di un privato mito letterario, in cui l'elemento autobiografico ed erotico è idealizzato e trasfigurato.
Sul piano letterario, caratterizza questa produzione lo sperimentalismo, la tendenza cioè a sperimentare generi letterari diversi, alternando anche prosa e versi. Si passa dal poemetto mondano- mitologico al poema epico, dal poema narrativo rivolto a un pubblico ampio e più popolare, secondo la nascente tradizione dei cantari, al romanzo d'avventura e d'amore secondo la tradizione cortese proveniente dalla Francia e alle Rime d'ispirazione stilnovistica ma con inserti giocosi.
E' la tendenza al 'mescolato', alla commistione e alla mescolanza di motivi, di situazioni e di stili diversi che caratterizza tutta l'opera di Boccaccio, compreso il Decameron. Essa può essere forse spiegata con la voracità di autodidatta che caratterizza la formazione di Boccaccio.
La Caccia di Diana, poemetto in terza rima, suddiviso in diciotto canti, doveva ispirarsi alla perduta Pistola (o Epistola) in forma di sirventese con cui Dante aveva passato in rassegna le sessanta più belle donne fiorentine: infatti fornisce un catalogo delle belle della società mondana napoletana che si dedicano a una caccia in onore di Diana. E' evidente nella conclusione il rovesciamento in positivo del mito classico di Circe.
In ottave sono invece il Filostrato e il Teseida delle nozze d'Emilia. Il primo ha un andamento più popolareggiante rispetto al secondo, poema con cui l'autore intendeva fondare in Italia una poesia epica di stile tragico.
Il Filostrato ('vinto d'amore', nel greco approssimativo che Boccaccio poteva avere imparato dal monaco calabrese Barlaam) si ispira alla materia troiana trattata da Benoit de Saint- Maure.
Nell'opera di Boccaccio la tematica amorosa è molto più importante di quella guerresca, e già questa è una notevole differenza rispetto al modello francese di Bénoit, in cui prevale nettamente, invece, l'ideologia feudale che tutto subordina all'onore guerresco.
Nonostante lo scenario epico, domina un tono comico e sentimentale: comico, perchè la vicenda d'amore fra i due amanti è ispirata ai criteri della letteratura realistica e a uno stile 'mezzano', con la parodia dello stile cortese e di situazioni stilnovistiche, la prevalenza di temi sensuali nella passione d'amore, il resoconto dei sotterfugi per mantenerla nascosta, la morale finale che invita i «giovinetti» innamorati a stare alla larga dalla donna «mobile e vogliosa», «volubil sempre come foglia al vento»; sentimentale, perchè tale è il personaggio di Troiolo, emotivo, malinconico, appassionato, con una forte sottolineatura di un'interiorità fatta di tenerezze e di languori.
Boccaccio non condanna Criseida con il moralismo che mostra Guido delle Colonne nel rifacimento latino della stessa materia, ma ha un atteggiamento più indulgente e non privo di interesse per certi aspetti opportunistici e calcolatori della donna.
Il Teseida è un poema epico in dodici libri, dedicato a Fiammetta. La materia è la stessa, francese, del Roman de la Thèbe; ma forte è soprattutto l'influenza della Tebaide del poeta latino Stazio.
Ma mentre il protagonista di Stazio lotta unicamente per il potere, Teseo ha una morale, si batte solo per guerre giuste, esercita una funzione pacificatrice e civilizzatrice, dapprima nei confronti delle Amazzoni liberate dai loro costumi barbarici.
E' Teseo, che ha sposato l'ex regina delle Amazzoni, a proporre una soluzione per il confitto che oppone due giovani amici, prigionieri tebani ad Atene, Arcita e Palemone, entrambi innamorati di Emilia, sorella di sua moglie. Per decidere chi sarà lo sposo di Emilia, verrà organizzato un grande torneo, ove i due saranno spalleggiati da guerrieri di ogni parte della Grecia. A prevalere è Arcita che celebra sì le nozze ma, per le ferite ricevute, è ormai in fin di vita. Arcita morente, con gesto di magnanimità, lascia la sposa all'amico rivale, e il poema si conclude con i suoi funerali e le nuove nozze di Emilia con Panemone.
L'opera più importante della giovinezza boccacciana è però in prosa, il romanzo Filocolo in cinque libri che ebbe vasta fama e diffusione in Europa. La storia viene narrata su invito di una «gentilissima donna», Maria, figlia di Roberto d'Angiò che, avendo udito raccontare i casi di Florio e Biancifiore, invita il poeta a raccontarne la storia. La materia è dunque quella del poemetto francese di ambiente cortese Floire et Blanchefleur. A questa l'autore sovrappone poi lo schema del romanzo greco alessandrino.
Se a questo modello si aggiunge il Cligès di Chrétien de Troyes, da cui viene ripreso il tema del 'pellegrino ' d'amore.
La storia narra di una fanciulla, Biancifiore, il cui padre è stato ucciso dai Saraceni spagnoli di re Felice. La madre viene accolta dal re Felice nel suo seguito, ma muore dando alla luce Biancifiore. Nello stesso giorno nasce Fiorio, figlio del re. I due bambini crescono insieme, insieme leggono l'Ars amandi di Ovidio, finchè si innamorano. L'amore è però ostacolato dal re, che dapprima allontana Florio e poi vende la fanciulla ad alcuni mercanti che la cedono all'ammiraglio di Alessandria. Florio resta tuttavia fedele al proprio amore, resistendo anche alla seduzione di due donzelle. Comincia a questo punto, anzi, la sua 'fatica d'amore': egli assume il nome di Filocolo, si trasforma in pellegrino d'amore e dà inizio alla sua quête, a una ricerca della donna amata che lo porta in Italia, a Napoli. Qui partecipa al gioco delle 'questioni d'amore' diretto da Fiammetta: una brigata di giovani discute tredici questioni d'amore, sottoposte al giudizio della donna. Talora, coloro che le espongono fanno ricorso a novelle per illustrare la problematica delle questioni morali sulle quali poi la regina dovrà pronunciarsi. E' una questione, questa, che tornerà nel Decameron.
Giunto infine ad Alessandria, Florio si introduce nella torre dove sta chiusa Biancifiore ma viene scoperto e sarebbe condannato a morte con la ragazza se non venisse alla luce che l'ammiraglio altri non è che lo zio di Florio. I due possono dunque sposarsi e intraprendono il viaggio di ritorno, visitando Napoli, Certaldo, Roma. Alla formazione di Florio manca l'atto finale, la conversione: i due sposi prendono il battesimo a Roma.
Anche Felice, prima di morire, si converte e Florio, alla sua morte, viene incoronato re.
Il tema religioso ha una sua importanza. Il romanzo si conclude non con il matrimonio dei due amanti, ma quando è venuto meno l'unico elemento negativo che caratterizza l'eroe: la sua fede pagana. In ciò si nota l'influenza dell'ambiente della corte angioina, pervaso di francescanesimo. Ma gioca, probabilmente, anche un elemento psicologico di natura autobiografica: il conflitto con il padre è qui quello fra Florio e re Felice e si risolve con la vittoria del figlio proprio attraverso l'ammissione dell'errore da parte del padre e la sua conversione religiosa, imposta da Florio come condizione per la riconciliazione.
DALLA COMMEDIA DELLE NINFE FIORENTINE
AL NINFALE FIESOLANO
Una volta tornato a Firenze all'inizio del 1341, il pubblico cambia: non è più il pubblico cortese, ma quello di una città borghese dotata di una sua ricca tradizione letteraria in cui ora l'autore deve inserirsi. Lo sperimentalismo giovanile di Boccaccio si arricchisce così di nuovi temi, collegandosi al genere allegorico- didattico di matrice toscana.
La Commedia delle Ninfe fiorentine per un verso è un' allegoria delle virtù che devono purificare l'uomo, per un altro è una cronaca mondana che mette in scena le storie di alcune belle fiorentine, per un altro è una raccolta di novelle o almeno di storie d'amore, per un altro ancora è un capostipite del genere pastorale. Persino l'Amorosa visione, che pure ricalca lo schema del viaggio allegorico- enciclopedico esemplato sulla Commedia dantesca e anticipa il modulo 'sublime' dei Trionfi petrarcheschi, contiene uno squarcio di cronaca mondana.
Il Ninfale fiesolano, che pure rifiuta il pluristilismo e segue coerentemente un modello popolaresco di letteratura mezzana, mescola, a veder bene, due generi diversi, l'idillico- pastorale e il cantare popolaresco toscano, il bucolico e l'epico. Quanto all'Elegia di Madonna Fiammetta, è nello stesso tempo una ripresa dell'elegia erotica latina e un romanzo in prosa, che si sviluppa come un moderno romanzo psicologico. La sua principale novità: a parlare in prima persona è una donna, Fiammetta.
Analogo sperimentalismo, poi, sul piano delle soluzioni finali: nella Commedia delle Ninfe fiorentine si alternano prosa e poesia nella forma della terza rima; l'Amorosa visione è un poema ancora in terzine; il Ninfale fiesolano è in ottave; l'Elegia di Madonna Fiammetta in prosa.
La Commedia delle Ninfe fiorentine già dal titolo mostra la volontà dell'autore di collegarsi a una precisa realtà cittadina. In un ambiente idillico- pastorale, il pastore Ameto, ancora grossolano e rozzo, incontra sette ninfe e si innamora di una di loro, Lia. Nel giorno della festa di Venere, le sette ninfe si riuniscono intorno ad Ameto e raccontano a turno le loro storie d'amore. All'elemento erotico si mescola però quello epico- celebrativo: una delle ninfe, Fiammetta, parla delle origini di Napoli, un'altra, Lia, di quelle di Firenze. Alla fine delle sette narrazioni, dopo un bagno purificatore, Ameto si è trsformato e ingentilito e può comprendere la loro nascosta verità allegorica: le sette ninfe rappresentano le quattro virtù cardinali e le tre teologali e attraverso il loro insegnamento l'uomo può arrivare a conoscere Dio.
Nell'Amorosa visione, poema in terzine suddiviso in cinquanta canti, il poeta visita in sogno, sotto la guida di una donna gentile, un castello, in cui sono rappresentate scene allegoriche e appaiono personaggi celebri: il che permette all'autore di mostrare la propria erudizione e il consueto gusto medievale per l'enciclopedia.
Uscito dal palazzo, il poeta incontra in un bel giardino alcune nobildonne fiorentine e napoletane, fra cui Fiammetta, si apparta con lei in un boschetto, e cerca di possederla mentre la donna sta dormendo. Ma Fiammetta si risveglia, fa presente che la guida può tornare da un momento all'altro e così si interrompe l'amplesso.
L'opera resta contraddittoria e macchinosa, esteticamente la meno riuscita di questo periodo.
Di notevole valore sono invece il Ninfale fiesolano e l'Elegia di Madonna Fiammetta. Il primo è un poemetto in ottave, che vuol cantare le origini di Firenze e di Fiesole, fondate dai discendenti dei due protagonisti dell'opera, il pastore Africo e la ninfa Mensola.
E' un racconto molto più semplice degli altri; il tono popolaresco, tipico dei cantari, fa evitare all'autore l'eccesso di erudizione e ridurre i riferimenti letterari e le digressioni colte. Le scelte stilistiche e linguistiche sono quelle della letteratura 'comica'.
Il giovane pastore Africo scopre di nascosto, fra le ninfe, la quindicenne Mensola e se ne innamora. Invano il padre cerca di distoglierlo da questa passione, ricordandogli la vendicatività di Diana, a cui le ninfe sono consacrate. Egli continua a cercarla nei campi e nelle foreste, inseguendola senza poterla raggiungere. Allora, per consiglio di Venere, si traveste da ragazza e riesce a mescolarsi fra le ninfe al bagno e a possedere con la forza Mensola. La ninfa, anche se sente tenerezza per Africo, è disperata per aver disobbedito agli ordini di Diana. Ciò non le impedisce di avere un altro incontro con Africo descritto con sensuale realismo popolaresco. A questo punto, però, prevale nella ragazza, che ancora non sa di essere rimasta incinta, il senso di colpa: Mensola si rifiuta di vedere ancora Africo, il quale, disperato, dopo un mese di solitudine e di angoscia, si uccide. Il suo cadavere cade nel fiume, che da lui prenderà il nome di Africo. Intanto Mensola assiste con ingenuo stupore alla crescita del proprio ventre, e si confessa alla ninfa Sinidecchia che la consiglia di tenere nascosto il proprio stato. Ma, subito dopo il parto, viene sorpresa da Diana, che per punizione la trasforma nel rivo che la ragazza sta attraversando per fuggire e che ne prenderà il nome. Il bambino, Pruneo, verrà allevato dai genitori di Africo e, divenuto adulto, si porrà al servizio di Attalante che fonderà Fiesole e libererà le ninfe dalle leggi di Diana subordinandole a quelle di Venere.
L'ELEGIA DI MADONNA FIAMMETTA
Scritta nel primo decennio dell'attività fiorentina di Boccaccio, l'Elegia di Madonna Fiammetta è la sua opera più matura prima del Decameron. Il titolo rimanda nella sua prima parola al genere elegiaco, mentre il nome della protagonista che parla in prima persona è quello, noto, della donna amata, già presente nel Filocolo, destinataria del Teseida, protagonista nella Commedia delle Ninfe fiorentine e nell'Amorosa visione. Il genere elegiaco è il genere letterario di espressione degli infelici, e soprattutto del lamento d'amore. Dante attribuiva al genere elegiaco uno stile e un linguaggio umili e bassi. Qui è svolto in una prosa romanzesca.
Si tratta di una lunga lettera che Fiammetta rivolge alle donne innamorate per raccontare loro il proprio dramma d'amore. E dell'aspetto epistolare resta nell'opera l'atteggiamento volto alla confessione e al lamento. Si tratta dunque, anche in questo caso, di una sovrapposizione di generi e di modi letterari diversi: quello elegiaco, quello epistolare, quello romanzesco. Il risultato è un romanzo- confessione o un romanzo- monologo, in prima persona.
Ma non si può trascurare poi la presenza di un altro genere ancora: quello del trattato d'amore.
La confessione non si svolge con l'immediatezza dello sfogo romantico, ma con i procedimenti analitici di tutta una tradizione retorica che accampa come precedenti non solo Ovidio, ma Virgilio cantore di Didone, Seneca, la tradizione medievale, da Boezio ad Arrigo da Settimello a Dante stesso, di cui è imitata la prosa del Convivio e sono riprese situazioni narrative e spunti psicologici dalla Vita Nova.
Questo innalzamento retorico ha una sua ragione profonda: serve a mascherare e a rendere accettabile la «scandalosa modernità» dell'opera nella Firenze comunale del Trecento.
Fiammetta ha amato Panfilo, pur essendo sposata. Invano la nutrice ha tentato di distoglierla da questo amore, cominciato in chiesa, secondo lo schema della Vita Nova. Panfilo (dietro cui si nasconde l'autore) deve partire da Napoli, ove il racconto è ambientato, per Firenze. Ha promesso che sarebbe tornato dopo quattro mesi. Ma già prima della partenza Fiammetta ha avuto il presentimento della sventura che sta per accaderle. Trascorso il tempo prefissato, Fiammetta non ha alcuna notizia del giovane, finchè, dopo qualche tempo, viene a conoscenza, pur fra notizie contrastanti, del suo tradimento. Il racconto, abbandonata l'ottica del narratore onnisciente del Filocolo o del Filostrato o del Teseida, segue le oscillazioni degli stati d'animo della protagonista, la sua difficoltà di distinguere, nelle notizie che le giungono, realtà e apparenza.
L'angoscia della protagonista è raddoppiata dal fatto che non è manifestabile: deve fingere con il marito, il quale si adopera, credendola malata, per curarla. Fiammetta giunge a tentare il suicidio, ma viene salvata. Non le restano che una severa meditazione sulla propria vita e la coscienza, stoicamente orgogliosa, di una sorta di primato nella sfortuna.
La letteratura dunque serve, a un tempo, come consolazione e riscatto e come controllo analitico della passione.
BOCCACCIO UMANISTA E LA
GENEALOGIA DEORUM GENTILIUM
Subito dopo la stesura del Decameron, in seguito anche all'amicizia con il Petrarca, gli interessi umanistici diventano in Boccaccio prevalenti.
Boccaccio ospita a casa sua Leonzio Pilato, professore di greco all'università di Firenze, attraverso il quale egli cerca di migliorare le proprie conoscenze di questa lingua e delle opere della letteratura greca, a partire dall'Iliade e dall'Odissea, sconosciute alla cultura medievale.
La Genealogia deorum gentilium documenta la vastità di nozioni mitologiche che Boccaccio ha in tal modo acquisito.
Anche l'accettazione della carriera ecclesiastica e una crisi religiosa spingono Boccaccio ad allontanarsi dalla letteratura erotica e a chiudersi nel raccoglimento umanistico rivolto alla scoperta e alla trascrizione dei codici antichi e allo studio dei classici.
Oltre alle Epistole, documentano questa sua attività soprattutto due opere, il Buccolicum carmen e la Genealogia deorum gentilium, che è il suo lavoro più importante in latino.
Il Buccolicum carmen raccoglie 16 egloghe in latino. Si tratta del genere pastorale, impiegato in chiave allegorica. I pastori che dialogano sono in realtà personaggi contemporanei, e le situazioni bucoliche lasciano agevolmente intravedere vicende attuali.
La Genealogia deorum gentilium fu rivista e corretta dall'autore sino al momento della morte. L'opera consta di 15 libri, dedicati al re di Cipro.
E' un trattato e insieme un repertorio di mitologia, il più vasto e organico dell'epoca. Si distingue da consimili opere, assai frequenti nel Medioevo, sia per la sistematicità, sia per il rigore filologico che induce l'autore a indicare le proprie fonti e a perseguire un ideale di fedeltà e di precisione rispetto ai testi classici, che era sconosciuto nei secoli precedenti.
I miti sono distinti a seconda della loro origine, che può essere storica, oppure naturale, oppure morale.
Negli ultimi due libri viene svolta una difesa della poesia. Boccaccio rivendica infatti la serietà e la dignità della fictio. Accanto a questo concetto appare quello di fervor, cioè di entusiasmo emotivo. Boccaccio lo considera una condizione della poesia.
IL TRATTATELLO IN LAUDE DI DANTE
Le opere in latino di Boccaccio sono per lo più di carattere erudito, come: il De casibus virorum illustrium, il De mulieribus claris e il De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, et de nominibus maris liber. In tutt'e tre è evidente l'influenza di Petrarca. Le prime due opere offrono all'autore il destro di sviluppare situazioni narrative e di unire il piacere del racconto a un intento morale volto a mostrare, con una certa insistenza, il carattere caduco di ogni bene terreno.
Viene chiamato Trattatello in laude di Dante un'opera in volgare che è in realtà una biografia, testimonianza del culto che Boccaccio ebbe per Dante.
Il Trattatello (ma il titolo voluto dall'autore era in latino: De origine, vita, studiis et moribus viri clarissimi Dantis Aligerii florentini poetae illustris et de operibus compositis ab eodem) fu scritto in una prima redazione nel 1351- 1352 e in una seconda, più breve, diversi anni dopo. E' la prima ampia biografia di Dante e la più importante, insieme a quella dell'umanista Leonardo Bruni, successiva, però di un secolo. Non mancano informazioni fantasiose. Attraverso la Vita di Dante, Boccaccio in realtà scrive un nuovo capitolo della sua difesa della poesia che vede personificata in questo grande personaggio.
IL DECAMERON
Datazione, titolo e storia del testo
Boccaccio cominciò a scrivere il Decameron subito dopo la fine della peste che colpì Firenze dalla primavera all'autunno 1348. Per quanto riguarda la fine dell'opera, la critica oscilla fra il 1351 (che è l'opinione prevalente) e il 1353.
Quasi certamente gruppi di novelle erano già stati composti prima del 1349 e diversi racconti dovevano circolare prima della conclusione dell'opera. Infatti nella introduzione alla Quarta giornata l'autore si difende dalle accuse di alcuni lettori, che evidentemente ne conoscevano già un certo numero, benchè il Decameron non fosse stato ancora terminato.
Il titolo Decameron vuol dire 'dieci giornate'. Viene dal greco: deca significa 'dieci', mentre meron deriva da emeròn, forma plurale di emèra, che significa 'giorno'. E' modellato probabilmente sul titolo di un trattato di sant'Ambrogio, Hexaemeron.
In testa all'opera compare la seguente indicazione: «Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uomini».
Il riferimento a Galeotto, in cui si avverte l'eco di un passo della Commedia (episodio di Paolo e Francesca, Inferno V, 137: «Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse»), introduce il tema dell'amore e delle donne; come Galeotto aiutò Lancillotto a conquistare l'amore di Ginevra, così il libro deve aiutare e consolare le donne suggerendo comportamenti capaci di dare una soluzione positiva alle loro pene d'amore.
La struttura generale: la regola e le eccezioni
Dopo il Proemio, in cui l'autore si rivolge alle donne per dedicare loro l'opera, comincia la Prima giornata. Essa è introdotta da una rubrica in cui se ne sintetizza il tema. Il modulo della rubrica si ripete poi all'inizio di ogni giornata. Inoltre ogni novella è presentata anch'essa da una rubrica che ne riassume il contenuto. Abbiamo così, in totale, dieci rubriche di giornate e cento rubriche di novelle.
Per quanto riguarda poi il numero cento, considerato numero perfetto, può avere influito anche l'esempio della Commedia, formata da cento canti.
Mentre nel Proemio e nella Introduzione che apre la Prima giornata è l'autore a parlare in prima persona, le novelle sono raccontate da dieci novellatori. Accanto alla voce dell'autore, che ritorna poi altre due volte, nella Introduzione alla Quarta giornata e nelle Conclusioni finali, l'opera risulta strutturata a tre livelli. Il primo è costituito da una sorta di 'super- cornice', in cui il protagonista e narratore è l'autore che espone le proprie opinioni. Esso inquadra la 'cornice' vera e propria, in cui protagonisti e narratori sono invece i dieci novellatori. A sua volta, poi, la 'cornice' serve da contenitore delle cento novelle, in cui i protagonisti sono i personaggi delle trame narrate.
Nel libro compare tuttavia anche una novella raccontata dall'autore nella Introduzione alla Quarta giornata. Questo racconto, che fa parte della 'super- cornice', è il centunesimo dell'opera. Tale eccezione infrange la regola per cui le novelle dovrebbero essere esposte solo dai dieci novellatori in modo da formare il numero perfetto di cento; ma non deve stupire. In realtà nel vasto e vario mondo boccacciano, l'eccezione costantemente accompagna la regola.
La 'cornice' serve a collegare fra loro i racconti, secondo una tradizione araba e orientale che, dalla Spagna, era già penetrata in Italia.
La cornice serve a mediare, connettere o disgiungere, e talora a commentare, le varie novelle. Inoltre essa rappresenta l'atmosfera in cui le novelle vengono raccontate, quella orribile della peste con la disgregazione dei costumi che essa produce, e quella, che vi si oppone, ispirata a criteri di ordine e di gentilezza, della brigata giovanile che cerca conforto e rifugio nel contado.
I dieci giovani decidono infatti di recarsi per qualche giorno fuori della città e di trascorrere il tempo passeggiando, cantando, scherzando e raccontando novelle. A prendere la decisione sono anzitutto sette donne, di età compresa tra i diciotto e i ventotto anni, incontratesi nella chiesa di Santa Maria Novella mentre infuria la pestilenza; a esse si uniscono tre giovani, loro amici, capitati poco dopo nella stessa chiesa.
La scelta del numero sette per le novellatrici probabilmente contiene un riferimento allusivo alle Arti liberali o alle Muse.
Decidono di eleggere ogni giorno un re o una regina in modo che tutti, a turno, possano ricoprire questo ruolo. Sta al re o alla regina decidere l'organizzazione della giornata e l'argomento delle novelle, che quindi cambierà ogni giorno. Si stabilisce anche che ciascuno dei dieci giovani racconterà una novella al giorno sul tema stabilito la sera precedente. Alla fine di ogni giornata, uno dei novellieri canterà una canzone.
Fatta questa regola generale, si danno ben presto le eccezioni. Anzitutto resta senza argomento preciso non solo la Prima giornata, ma anche la Nona. In secondo luogo, un novellatore, Dioneo, otterrà di non attenersi al tema scelto. Infine, sempre Dioneo, unico della brigata, si sottrarrà all'ordine casuale con cui prendono la parola i vari novellatori; e parlerà sempre per ultimo, tranne che nella Prima giornata.
IS giornata Mercoledì Regina Pampinea Tema: libero.
IIS giornata Giovedì Regina Filomena Tema: Il potere della fortuna, con avventure a lieto fine.
IIIS giornata Domenica Regina Neifile Tema: Il potere dell'ingegno o dell'«industria».
IVS giornata Lunedì Re Filostrato Tema: Amori infelici.
VS giornata Martedì Regina Fiammetta Tema: Amori felici.
VIS giornata Mercoledì Regina Elissa Tema: L'efficacia dei motti di spirito o delle argute risposte.
VIIS giornata Giovedì Re Dioneo Tema: Beffe ai mariti.
VIIIS giornata Domenica Regina Lauretta Tema: Altre beffe.
IXS giornata Lunedì Regina Emilia Tema: libero.
XS giornata Martedì Re Panfilo Tema: Esempi di liberalità e di magnificenza.
La poetica del Decameron
Bisogna ricordare che le premesse della poetica sono già nel Filocolo. Qui Boccaccio aveva distinto tre livelli letterari: quello tragico ed epico; quello 'mezzano' contraddistinto dalla materia amoroso e dal destinatario femminile e rappresentato soprattutto dal modello di Ovidio elegiaco; e infine il «fabuloso parlare degli ignoranti», cioè le trascrizioni, in modo semplice e ingenuo, di leggende e di favole. Il Decameron rientra nel secondo livello. Dopo il Decameron, in Boccaccio prevarrà una diversa poetica, in cui alla misoginia dei temi si uniranno uno stile alto ed elevato, il rifiuto della problematica erotica, la ricerca della gloria umanistica attraverso il rigore degli studi letterari e filosofici e l'impiego del latino al posto del volgare.
L'intento del Decameron è edonistico e utilitario: esso è stato scritto per 'dilettare' le donne, consolandole dagli affanni d'amore, ma anche per istruirle su cosa evitare e su cosa invece «seguitare». Per la prima volta nella letteratura medievale il carattere edonistico è affermato con forza. L'intrattenimento diventa una componente seria e necessaria dell'opera d'arte, che così viene sottratta al campo della morale e della teologia. E infatti bisogna notare che anche il carattere utilitario assegnato al Decameron non è di tipo precettistico e religioso, come nei secoli precedenti e anche nel Dante della Commedia.
E' della oggettività della rappresentazione, dalla misura con cui essa armonizza istanze diverse dando decoro ed eleganza al basso e all'istintuale, che deve scaturire impicitamente un insegnamento. Così il carattere edonistico e quello utilitario non sono in contraddizione ma anzi si presentano complementari.
Alla varietà delle situazioni corrisponderà una materia mista «senza titulo» unitario. Nel Proemio l'autore dice di aver scritto «novelle» o «favole» o «parabole» o «istorie»: con «novelle» vuole indicare qualsiasi tipo di narrazione ispirata alla cronaca e alla vita quotidiana, con «favole» i temi licenziosi e scherzosi dei fabliaux e anche le invenzioni della fantasia, con «parabole» racconti esemplari ispirati a decisioni serie e morali, infine con «istorie» vicende a sfondo storico, con personaggi celebri. Questa materia esigerà una pluralità di stili e quindi la prevalenza di quello 'comico': e infatti l'autore parla di «istilo umilissimo e rimesso».
Il pluristilismo e il plurilinguismo sono teorizzati nelle Conclusioni. Alla varietà della materia deve corrispondere la varietà delle soluzioni stilistiche e linguistiche. E' la intrinseca «qualità» o natura delle novelle a imporre, di volta in volta, un determinato linguaggio.
Due fonti: la novella delle papere e quella del cuore mangiato
La struttura del Decameron affonda le sue radici in tradizioni lontane: il ricorso alla cornice era tipico della novellistica orientale e araba; l'idea di una brigata di dieci persone che conversa dopo pranzo per alcuni giorni è già nei Saturnalia di Macrobio (scrittore latino del V secolo d.C.); storie di varie avventure, talora oscene, sono nel filone greco e poi latino delle satire menippee che influenza le Metamorfosi di Apuleio (scrittore latino di origine africana, vissuto nel II secolo d.C.), opera in cui compare anche il tema del novellare in una situazione di pericolo, di fronte alla morte.
Come repertorio tematico delle varie novelle di Boccaccio ha utilizzato poi numerose fonti medievali: i fabliaux, i lais, le raccolte di exempla, le vidas dei trovatori, le commedie elegiaco in latino. Egli riprende talora lo stesso materiale del Novellino e qualche volta le novelle stesse di questa raccolta.
Due esempi: La novella del cuore mangiato e La novella delle papere. La prima ha la sua fonte nella vida provenzale di un trovatore, Guillem de Cabestaing. E' Boccaccio stesso all'inizio del suo racconto a dichiararne, in modo generico, la derivazione provenzale. Tuttavia egli tace il particolare, fondamentale invece nella vida, che Guardastagno, l'amante, è un trovatore, cosicchè la novella risulta di fatto resa autonoma dalla sua radice: infatti le vidas trovano la loro unica ragione di essere in quanto biografie dei poeti provenzali e spiegazioni della loro opera letteraria. Sottraendola al contesto originario, che finalizzava a uno scopo estrinseco di documentazione e di cronaca, Boccaccio è assai più dettagliato, ricco e complesso, sia dal punto di vista tematico che da sintattico e stilistico.
La strategia di scrittura boccacciana comporta una strategia di lettura assai diversa rispetto a quella imposta dalla vida: esige infatti un diverso ruolo del lettore, che ora viene trasformato in soggetto responsabile di cui viene sollecitata l'attitudine critica e problematica. E' un mutamento notevole rispetto alla tradizione: precedentemente il lettore era considerato solo come oggetto da uniformare a un'ideologia precostituita in cui il bene e il male e i loro reciproci confini erano fissati una volta per tutte. Insomma, il mondo di Boccaccio è formato da valori relativi e problematici da stabilire di volta in volta.
La novella delle papere raccontata dall'autore e inserita nella sua autodifesa nel corso della Introduzione alla Quarta giornata, trova la sua radice lontana in un poema epico indiano, Ramayana, ma circolava nel Medioevo come exemplum raccolto nello Speculum di Vincenzo di Beauvais e nella Leggenda aurea di Jacopo da Varazze. Oltre a queste fonti, Boccaccio certamente conosceva, avendola trascritta di proprio pugno, una commedia elegiaca latina, l'Alda di Guglielmo di Blois (XII secolo), in cui Ulfo alleva la figlia, Alda, segregandola dal rapporto con gli uomini. Ma la figlia, nonostante la rigida educazione, conosce Pirro con cui farà la scoperta del sesso: la natura vince sulle preoccupazioni del padre. Il tema è trattato anche nel Novellino, che Boccaccio certamente conosceva e con cui è utile fare un confronto.
Il racconto di Boccaccio è analitico, densamente articolato tanto nella sintassi quanto nella stratificazione narrativa, ed è ricco di dettagli concreti e di precisazioni. Mentre la tipologia dei personaggi e dei luoghi resta nel Novellino astratta, la narrazione nel Decameron tende alla concretezza della rappresentazione e risponde a un'esigenza realistica. Inoltre, nel Novellino, non si fa questione di educazione, nè la scelta del re è dovuta a ragioni morali. Invece Boccaccio insiste sui motivi educativi, morali e religiosi che inducono il padre a tenere segregato il figlio. Insomma, mentre il racconto del Novellino è fuori del tempo e dello spazio, quello di Boccaccio è fortemente attualizzante.
Un testo giovanile come fonte: dal Filocolo al Decameron
E' anche interessante considerare l'evoluzione dell'arte di Boccaccio dalle opere giovanili al suo capolavoro. Si può ben valutarla analizzando come Boccaccio ha rielaborato un racconto del Filocolo trasponendolo nel Decameron, e precisamente nella novella quarta della Decima giornata, quella di messer Gentil de' Carisendi e la donna seppellita per morta. E' questo un caso di intertestualità interna all'opera di uno stesso autore.
Anzitutto la novella del Decameron è assai più lunga: la narrazione è più distesa e indugia con maggior realismo sui particolari. In secondo luogo, la verosimiglianza del comportamento del protagonista che tocca il corpo della donna creduta morta è nel Decameron assai maggiore: nel Filocolo c'è un sospetto di necrofilia nel brancicare insistito dell'uomo dalle «fredde menne» alle «segrete parti» della donna, mentre nell'opera della maturità Gentile, toccandole il seno, percepisce subito il battito del cuore. In terzo luogo, il gesto del protagonista che restituisce la moglie al legittimo marito ha qualcosa di ostentato e di teatrale che ne diminuisce e ne rende discutibile la generosità: nel Filocolo la narrazione non è problematica, l'atto del protagonista è solo esemplare ed è indicato come un modello di comportamento secondo quei valori cortesi e francescani che ispiravano la corte angioina e che influenzavano anche il giovane narratore. Nel Decameron la morale dell'autore è divenuta più aperta e libera: il gesto di Gentile, pur rientrando indubbiamente nei casi di magnificenza e di liberalità, ripropone il dubbio, centrale nella Decima giornata, e coerente con la prospettiva relativistica del Boccaccio maturo, se chi ha operato le azioni generose di cui si parla si sia posto al vertice della virtù che si intende illustrare.
E' stato osservato infine come il Decameron segni, rispetto al Filocolo, una definitiva affermazione della logica puramente narrativa della novellistica. Il rapporto controversia- narrazione vedeva nel Filocolo l'affermazione del primo termine: attraverso la controversia il dilemma posto dalla narrazione veniva discusso e risolto grazie all'intervento decisivo della regina Fiammetta. Invece nel Decameron questo rapporto vede la prevalenza della narrazione sulla controversia, cosicchè gli elementi di dubbio che quella propone restano aperti e il lettore è lasciato libero di dare l'interpretazione che crede.
La prosa del Decameron: linguaggio, sintassi, strutture narrative
Atraverso lo studio di Macrobio e soprattutto di Quintiliano e di Cicerone e attraverso l'esperienza dei volgarizzamenti, Boccaccio aggiunge agli elementi della retorica medievale, imperniata sul cursus, prevalenti nelle opere giovanili, quelli della retorica classica. Sono questi ultimi, più dei primi, a informare la prosa del Decameron. Ovviamente non mancano esempi di cursus anche in questa opera, soprattutto nella cornice. Ma in generale Boccaccio tende ora a preferire il ritmo armonioso e concluso e le ampie volute dell'ipotassi, particolarmente nella 'cornice' e nelle novelle tragiche, dove il linguaggio si innalza soprattutto nei discorsi più impegnati dei personaggi nobilmente esemplari. Frequente poi è il ricorso al ritmo metrico, specialmente quello determinato dagli endecasillabi.
Tuttavia nella prosa del Decameron non mancano aspetti diversi e opposti. Essa per esempio tende ad essere frammentaria, agile, mimetica, incline al parlato o al colloquiale nelle novelle d'azione e di beffa. Anche il linguaggio in questi casi tende a divenire più basso, immediato e realistico, con qualche cedimento al gergale o al dialettale. Nè manca la caratterizzazione geolinguistica dei personaggi.
Altre volte il linguaggio contribuisce alla caratterizzazione sociale dei personaggi.
Il caso più interessante è quando caratterizzazione sociale e geografica si fondono nella rappresentazione di ambienti e di personaggi: è così nella Novella di Belcolore, che Branca cita come esempio insuperato di espressivismo linguistico. Qui il linguaggio è del tutto coerente con l'ambiente villereccio del contado, per l'estrema immediatezza e spontaneità dei dialoghi, per l'ampio uso di termini tecnici gergali del mondo contadino, per l'impiego ricorrente del doppio senso osceno esibito in metafore che hanno la concretezza referenziale dell'ambiente rusticano.
Dunque al pluristilismo corrisponde il plurilinguismo. In genere la retorica e l'uso del fiorentino equilibrano la vivacità espressiva e il realismo 'comico'. Il risultato è un linguaggio medio elegante che tende a cercare una sintesi fra gli estremi, pur entrambi presenti, dell'alto e del basso.
Alla varietà delle soluzioni stilistiche e linguistiche, con i conseguenti effetti di 'mescolato', corrisponde una analoga varietà delle strutture narrative. Si possono distinguere i seguenti moduli: a) il racconto d'azione; b) la novella vera e propria, che rappresenta il personaggio in uno snodo essenziale della sua vita; c) il romanzo, che racconta la storia di un personaggio attraverso la sua formazione e la sua analisi psicologica; d) il contrasto, basato sul dialogo che contrappone due tipi sociali diversi o due diverse posizioni; e) la commedia, fondata sul dialogo comico; f) il mimo, costruito sulla rappresentazione di gesti o sulla vivacità e rapidità delle battute.
La funzione della cornice e la struttura complessiva dell'opera
Il fatto che l'autore abbia avvertito il bisogno di inquadrare le novelle in una cornice corrisponde a una esigenza di sistematicità e di ordine che è tipicamente medievale. La stessa organizzazione delle novelle non è affatto casuale: non per nulla l'opera comincia con un esempio negativo e finisce con uno positivo e nell'ultima giornata si assiste a un innalzamento sia sociale che morale della materia: essa infatti è dedicata a nobili signori e insigni gesti di magnificenza e liberalità. Di qui la tesi di una struttura «ascensionale» dell'opera, che sottolinea anche il parallelismo, in questo senso, fra Decameron e Commedia dantesca. Ma che si possa parlare di una progressiva o graduale evoluzione verso l'alto è stato messo in discussione anche recentemente da vari critici: in realtà l'Ottava e la Nona giornata non contengono certo una materia più elevata della Prima.
Se è dunque indubbio che l'ultima giornata vuole innalzare il tono della narrazione rispetto alle nove precedenti e rappresenta perciò una conclusione voluta dall'autore, è difficile accettare la tesi di una tendenza ascensionale o verticale come quella della Commedia. In realtà la struttura del Decameron è orizzontale: per Boccaccio, la verità, d'altronde sempre relativa, scaturisce da un rapporto interdialogico fra gli uomini, non da una ascesi verso Dio.
Anche se resta vero che la cornice rappresenta un'istanza di ordine e di sistematicità, questa esigenza si articola in modo assai diverso rispetto al modello dantesco. L'architettura tardo- gotica dell'opera scopre, a veder bene, una serie di aspetti preumanistici. La cornice non esaurisce la propria funzione nel tessuto connettivo fra novella e novella. Questa funzione connettiva è indubbiamente presente, ed è data non solo dalla rubrica che conferisce unità a ciascuna giornata, ma dalle correlazioni stabilite dai dieci giovani, che individuano spesso rapporti di contiguità o di opposizione fra le novelle che raccontano. Ma la funzione della cornice è anche un'altra: i dieci giovani non solo stabiliscono dei collegamenti, ma commentano le novelle e dunque instaurano un rapporto dialettico con la materia narrativa. Di qui la differenza rispetto al Filocolo e all'Ameto in cui già la cornice era stata parzialmente utilizzata. Nel Filocolo, per esempio, le «questioni d'amore» erano risolte dalla regina. Qui invece manca una soluzione. La verità non è più concepita in modo statico, ma come processo interdialogico: nasce dal confronto e dalla discussione. D'altra parte i vari novellatori esprimono un approccio poliprospettico alla materia narrativa. In altri termini, anzitutto la cornice manifesta, nel suo complesso, un punto di vista diverso rispetto a quello dell'autore (circostanza su cui Boccaccio consapevolmente gioca nelle Conclusioni); in secondo luogo al suo interno si possono individuare punti di vista distinti: quello di Dioneo è diverso da quello di Panfilo, ma anche da quello di Pampinea, la saggia. In tal modo la cornice contribuisce a fornire un'idea orizzontale, relativa, interdialogica e pragmatica della verità, molto diversa da quella verticale, assoluta e teologica del mondo dantesco.
Anche i tre livelli della 'super- cornice' e della materia novellistica esprimono modi diversi, distinti e tra loro intrecciati, di approccio alla realtà. La vivacissima commedia umana non è più trasfigurata alla luce di una verità superiore: la struttura complessiva e il modello figurale della Commedia, che trasponevano la concretezza nell'astrattezza, la particolarità in un disegno universale, non trovano più luogo nel Decameron. Al loro posto c'è invece la varia articolazione di un approccio aperto e problematico al reale. Anche il Decameron, come la Commedia, rivela un'esigenza d'ordine sistematico e tenta di dar vita a un progetto utopico, di disegnare una prospettiva ideale, ma ciò si realizza in un orizzonte ormai del tutto laico e precario, che sconta il divario dal presente e un'impossibilità di connetterlo concretamente al futuro (di qui l'assenza di tematiche politiche o esplicitamente civili del Decameron), una dissociazione fra particolare e universale, la estraneità del piano umano a quello divino, l'assenza di un'ottica totalizzante e assoluta.
E' stato osservato inoltre che le rubriche che sintetizzano il contenuto delle novelle non esauriscono affatto la loro funzione nel riassunto, che a volte anzi risulta lacunoso, privo di informazioni essenziali. Le rubriche rispondono anche a propri criteri narrativi, per i quali possono sacrificare aspetti rilevanti della trama. In tal modo esse finiscono per illuminare le novelle da un particolare punto di vista, contribuendo anch'esse al poliprospettivismo complessivo dell'opera.
Il tempo e lo spazio
Boccaccio dichiara nel Proemio di raccontare storie avvenute nei «moderni tempi come negli antichi». Egli distingue dunque, con chiarezza già «umanistica», il passato dal presente. In genere alle novelle del passato vengono affidati gli esempi di nobiltà. Molto spesso, poi, all'allontanamento nel tempo corrisponde quello nello spazio.
Le città toscane esprimono il momento della vita contemporanea, che è più difficile mitizzare. In Toscana sono sempre collocate, non a caso, le vicende di motto e di beffa. E si noti che la contemporaneità che interessa Boccaccio è quella dei costumi, non quella politica.
I due poli del libro sono da un lato Firenze e le città toscane, dall'altro il Mediterraneo. Più rare sono le novelle che ci trasportano nel nord Europa e nelle città italiane lontane dalla costa.
Un polo è dunque il Mediterraneo, con i suoi porti, le sue città di mare, i popoli che ne abitano le coste, con le diverse consuetudini e le diverse religioni. Una intera giornata, la Seconda, è caratterizzata dal tema del viaggio, dei suoi rischi e delle sue felicità, delle onde e delle coste, delle tempeste e delle bonacce, del naufragio, degli imprevisti attacchi dei corsari, della vita nel porto, dei fondaci dove vengono accumulate le merci, delle viuzze dove si incontrano ladri, prostitute e ruffiani. La geografia dei mercanti italiani del Trecento è quella di Boccaccio.
L'altro polo è costituito da Firenze e dalla Toscana, dalla città e dal contado, con il loro rapporto; e non manca il tema polemico degli inurbati contrapposti ai cittadini. Il contado è rappresentato con un piglio brioso e con colorita vivacità; la città compare con le sue autorità politiche, i suoi giudici, la sua vecchia nobiltà, la nuova borghesia, gli esponenti delle arti e dei mestieri dai mercanti agli operai; con i suoi palazzi, le sue chiese, le sue case affrescate, le sue strade notturne e solitarie oppure piene di folla.
Per la prima volta nella letteratura italiana la folla urbana diventa protagonista e vengono messi in scena gli abitanti di un intero quartiere. E per la prima volta compare un'avventura cittadina.
Il realismo e la comicità
Da Giotto, sempre ammirato, Boccaccio acquisisce una grande lezione di realismo figurativo.
Occorre aggiungere la verosimiglianza psicologica delle situazioni e dei caratteri, e quella sociale stabilita dal rapporto di coerenza fra individuo e tipo, fra singolo personaggio e classe che esso rappresenta.
La stessa attenzione di Boccaccio per tutte le categorie sociali è indubbiamente un segno di grande realismo, perchè si rivela capace di dare vita ad un'ampia e articolata commedia sociale, composta da mercanti e da banchieri e anche da nobili e da cavalieri, da grandi intellettuali e da artisti, da cuochi e da operai della lana, da re e da stallieri, da notai e da medici, da autorità politiche e da autorità giudiziarie, da alti ecclesiastici ma anche da preti di campagna, da frati predicatori e frati minori.
Il realismo boccacciano si esprime poi particolarmente nel comico. C'è nel Decameron un «realismo umanistico», un'idea di comico inteso come 'diletto' desunta da Cicerone e da Quintiliano. Ma si può parlare di realismo umanistico anche in un altro senso: nel Decameron la comicità realistica si accompagna sempre a un distacco, tipicamente umanistico, a un atteggiamento di sorridente superiorità che non si lascia mai completamente coinvolgere e che riflette quello analogo della brigata dei giovani.
Esiste anche una censura dovuta a un valore positivo, quell'«onestà» di cui varie volte parlano i dieci novellatore. Essa non ha nulla a che fare con l'ipocrisia; anzi, la brigata giovanile e l'autore stesso non esitano a mostrare il basso e l'osceno e a dichiarare il proprio rispetto per le pulsioni naturali. E tuttavia l'«onestà» è chiamata a fare i conti con le esigenze della vita associata e della civiltà. Da questo bisogno di compromesso nascono il controllo umanistico, il superiore distacco e infine l'equilibrio compositivo del Decameron.
Il realismo di Boccaccio è sempre il risultato di un equilibrio e di un compromesso. E' un realismo distanziato dalla forma. La civiltà e l'«onestà» sono sempre 'forma'.
I concetti di fortuna e di natura, di ingegno e di onestà
Vi sono «due ministre del mondo» spiega Pampinea: la fortuna e la natura. Da esse l'uomo è condizionato, con esse deve fare i conti in un conflitto che dura tanto quanto la vita umana.
La fortuna permuta le cose umane, volgendole come lei crede, «secondo il suo occulto giudicio», e «senza alcuno conosciuto ordine da noi». Non manca, fra i critici, chi interpreta la fortuna boccacciana come quella dantesca, e quindi in senso religioso e provvidenziale; mentre altri sottolinenano ogni nesso fra spiegazione teologica e casi umani.
Comunque sia, la fortuna ha un peso decisivo nelle vicende umane, determinando anzitutto la condizione sociale e poi sottoponendo l'individuo al rischio continuo dell'imprevisto, sino al ribaltamento delle situazioni. Al tema carnevalesco della ruota della fortuna si aggiunge la percezione storica di una situazione di crisi e di rapidi cambiamenti economici e sociali.
L'ingegno può servire non solo a contrastare la cattiva sorte o ad approfittare della buona, ma anche a controllare, almeno in parte, la natura. Questa determina anzitutto il temperamento individuale: se spetta alla fortuna la origine sociale dell'individuo, è la natura che gli dà uno specifico carattere. Cosicchè natura e fortuna possono essere in conflitto.
Ma la natura condiziona l'uomo soprattutto attraverso le sue spinte pulsionali, corporali, materiali. Boccaccio parla più volte delle «forze della natura» che bisogna imparare a riconoscere e a rispettare. I moralisti che censurano il Decameron - sostiene l'autore - chiudono gli occhi ipocritamente di fronte alla realtà. L'eros è un aspetto serio e importante della vita, che merita ogni considerazione.
Ciò non significa che bisogna sottoporsi incondizionatamente alla spinta dell'istinto. E' necessaria anche una resistenza: essa assume l'aspetto dell' «onestà», che è una virtù eminentemente sociale, e della «gentilezza», che è invece una virtù individuale. L'onestà entra in conflitto con la tendenza al piacere, mirando a un suo controllo sociale.
L'onestà esige tolleranza, rispetto degli altri, buon senso, equilibrio nelle relazioni sociali, rifiuto della smodatezza e dell'eccesso. La gentilezza è una sublimazione individuale dell'eros: non comporta affatto la rinuncia all'atto sessuale, ma esige raffinamento dei costumi, elevatezza di cultura, rispetto del codice d'onore. Attraverso la gentilezza l'amore si affina e diventa civiltà.
Se l'onestà è un'esigenza della civiltà in quanto organizzazione sociale, la gentilezza è la virtù che le corrisponde sul piano individuale.
Boccaccio dunque conduce una lotta su due fronti: anzitutto, e con maggiore energia, sul fronte dell'ipocrisia e della censura sociale, rivendicando i diritti della natura e i propri di scrittore che ne riconosce l'importanza; in secondo luogo, contro l'irragionevolezza dell'eccesso, in favore di una convivenza sociale a forte impronta utopica, più libera, ma non anarchica: a favore, insomma, di un superiore compromesso fra natura e onestà, fra rispetto delle pulsioni e «virtù» sociali e individuali, fra liberazione di istanze represse e una più matura censura nei loro confronti.
Un altro modo di controllare fortuna e natura è dato dall'ingegno individuale, cioè dall'avvedutezza, dall'attività intelligente, dall'«industria» del singolo. Se «onestà» e «gentilezza» sono «virtù», l'ingegno è una forza che può essere a disposizione sia della «virtù» che del suo contrario. Nella guerra di tutti contro tutti aperta dalla concorrenza economica della nascente borghesia, l'ingegno è una forza anzitutto necessaria e, per certi versi amorale. Di per sè l'ingegno non ha una intrinseca eticità: è uno strumento che può essere utilizzato in direzioni opposte, ma nella sua neutralità etica è comunque positivo perchè dà all'uomo una possibilità in più nel conflitto con la fortuna e con la natura.
Nei confronti dell'ingegno l'autore ha un atteggiamento simile a quello tenuto verso le «forze della natura»: di riconoscimento e di rispetto. L'individualismo borghese appare già a Boccaccio dotato di un suo 'naturale' diritto all'esistenza.
In conclusione, la concezione boccacciana del mondo appare attraversata dalle esigenze di conflitto e di nuova conciliazione fra due diversi campi: da un lato quello della natura e della fortuna, dall'altro quello delle virtù sociali e individuali, e cioè dell'onestà e della gentilezza. Nel mezzo sta l'ingegno, come strumento positivo a disposizione dell'uomo, per certi versi forza naturale e per altri espressione della intelligenza, dell'«industria» e della cultura individuali.
La religione e la polemica antiecclesiastica: la laicità del mondo boccacciano
La Prima giornata si apre non casualmente ponendo il problema religioso.
Si affaccia qui la teorizzazione di una distinzione di piani: da un lato quello divino imperscrutabile, dall'altro quello terreno, per cui può valere, come unico criterio di orientamento, la ragione. E' una distinzione che ricorda la filosofia di Ockham e che comunque si pone al di là della Scolastica e del tomismo, in una situazione di crisi in cui non è più possibile una visione unitaria del mondo.
Ovviamente non è in discussione la religione in quanto fede in Dio; piuttosto si tiene costantemente presente che essa appartiene, appunto, al momento della fede, a ciò che non è possibile vedere e appurare, non a quello della ragione. E nel Decameron il centro d'interesse è esclusivamente il mondo terreno, ciò che concretamente «appare» agli uomini e che è possibile giudicare con i criteri dell'analisi razionale. Per quanto riguarda il terreno della fede, è possibile solo un atteggiamento di tolleranza religiosa e di relativismo. Anche da questo punto di vista, il mondo di Boccaccio risulta ormai pienamente laico.
La polemica antiecclesiastica non è mossa tanto da un intento religioso, quanto da uno intellettuale e civile. Boccaccio vuole attaccare la «malvagia ipocresia de' religiosi» che, da un lato, non ammettono le pulsioni naturali, le ignorano o ne prendono atto solo per biasimarle, dall'altro ne finiscono egualmente vittime.
Fanno parte di questa polemica anche la denuncia delle facili santificazioni, del culto delle reliquie, della corruzione dei frati predicatori, ma anche dei vescovi, mentre maggior comprensione appare verso i cattivi costumi dei preti di campagna. E tuttavia questa polemica e questa denuncia sono ben lontane da quelle dantesche.
La satira di Boccaccio è resa possibile dal criterio fondamentale della letteratura mezzana, consistente nel sospendere i principi, nel mettere fra parentesi le verità ultime. Per questa ragione non si può ricavare dal Decameron una morale in senso religioso, nè un'etica organica ed esplicita, al contrario di quanto avviene nella Commedia dantesca.
L'assenza di una morale organica ed esplicita nel Decameron non significa mancanza di un atteggiamento etico. Ma la nuova etica si definisce appunto in questo: nel rifiuto del carattere di organicità e di rigida precettistica che era proprio di quella vecchia e nella proposta di un comportamento più aperto e problematico.
La caduta delle rigide distinzioni morali può essere condotta sino a limiti sconcertanti.
Lo sviluppo della narrazione induce il lettore alla riflessione e alla libertà di un'interpretazione ora non più suggerita dall'autore; il quale, d'altra parte, può anche non condividere il punto di vista dei narratori.
La Scolastica e il tomismo non forniscono più una risposta che permetta di interpretare in modo unitario e complessivo la realtà. La loro crisi lascia un vuoto, di cui prende atto l'occamismo probabilmente assimilato da Boccaccio. In questo vuoto, criterio di verità diventa un razionalismo empirico, attraverso cui è possibile giudicare solo caso per caso.
La 'posizione' del Decameron rispetto alla società del Trecento
Boccaccio apirava a una nuova aristocrazia capace di accogliere e di equilibrare i valori cortesi della vecchia nobiltà e lo spirito di intraprendenza del nuovo individualismo borghese.
L'onestà e la gentilezza cortesi dovevano divenire qualità di un'élite borghese, secondo l'esempio della brigata dei dieci giovani novellatori. Boccaccio tendeva così a conciliare le due principali esperienze della propria vita: quella cortese della giovinezza a Napoli e quella borghese dell'infanzia e della maturità fiorentine. Il Boccaccio nel Decameron appare insomma espressione «di quei ceti più elevati della nuova società trecentesca, di quei ceti che, mercantili per interessi e per nascita, pure tendevano a differenziarsi dai meno abbienti e dai meno fini per costituirsi in un'aristocrazia dell'intelletto, del sentimento, del gusto».
Da una parte, dunque, l'opera riflette realisticamente una tendenza effettiva della borghesia a costituirsi come nuova classe dominante fra Duecento e Trecento; dall'altra il blocco che essa aveva subito a causa della crisi economica e della peste induce l'autore a proiettare il proprio progetto di sintesi aristicratico- borghese in uno spazio utopico, in una situazione di evasione e di 'vacanza' che deve anticipare i valori del futuro ma che intanto sconta il divorzio dal presente. L'assenza dei temi politici dal Decameron, la deresponsabilizzazione civile della sua tematica, mentre esprimono realisticamente una situazione di stallo e di crisi dello sviluppo borghese, non sono che il necessario risvolto di un disegno di civiltà costretto a ritirarsi in una progettualità ormai del tutto utopica, che ha la vaghezza stilizzata di un sogno.
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