Gabriele D'Annunzio
(Pescara 1863 - Gardone Riviera, Brescia,
1938). Era ancora studente di liceo al collegio Cicognini di Prato quando
pubblicò il primo volume di versi, Primo vere (1879), e meno che ventenne
quando diede più chiaro indizio della sua personalità con le liriche di Canto
novo (1882), che nonostante le diverse reminiscenze letterarie e l'imitazione
del Carducci si fecero apprezzare per il calore sensuale e la rara perizia di
stile. A Roma, nel 1881, entrò nel cenacolo del Capitan Fracassa e poi della
Cronaca bizantina. Sposatosi nel 1883 con donna Maria Hardouin duchessa di
Gallese, continuò con grande alacrità il suo lavoro letterario: collaborò dal
1884 al 1888 alla Tribuna firmando gli articoli con differenti pseudonimi;
pubblicò nel 1884 Il libro delle vergini e nel 1886 San Pantaleone, due
raccolte di novelle più tardi riunite nel volume delle Novelle della Pescara
(1902), nelle quali, pur accettando i modelli che gli offrivano i realisti
francesi e i veristi italiani, lo scrittore dimostrava un interesse esclusivo e
quasi morboso per i drammi dei sensi e della carne, anziché per la più segreta
e difficile vita dei sentimenti. Negli anni seguenti sempre meglio si definì in
lui quel carattere di sperimentatore di varie forme poetiche grazie al quale
egli godette precocemente e a lungo grande prestigio. Parnassiani e simbolisti
francesi e preraffaelliti inglesi sono riecheggiati nelle liriche dell'Isotteo
e della Chimera (1890); nelle Elegie romane(1892), con gusto spiccatamente
decadentistico, il poeta celebrava un suo amore sullo sfondo fastoso e barocco
della Città eterna; mentre nel Poema paradisiaco (1893) una morbidezza
estenuata, anticipatrice per certi aspetti del crepuscolarismo, lascia
intravedere l'influsso dei poeti belgi di fine secolo. Aveva da poco pubblicato
Il piacere, il quale va annoverato con A ritroso di Huysmans e Il ritratto di
Dorian Gray di Wilde tra le bibbie del decadentismo europeo, quando dovette
prestare il servizio militare. Fu sottotenente dei "Lancieri Novara", e venne
congedato nel 1890. Nel 1891 scrisse due romanzi: Giovanni Episcopo, ritratto
di un infelice che vorrebbe ricordare gli umiliati di Dostoievski, e
L'innocente, pubblicato l'anno successivo a Napoli, dove il poeta s'era
trasferito per collaborare al Mattino, fondato dallo Scarfoglio e dalla Serao.
Altri romanzi vennero composti in seguito, e in essi, pur risentendo
l'influenza della scuola psicologica di Paul Bourget, lo scrittore mirò
soprattutto a celebrare personaggi che in varia guisa volevano essere
incarnazioni del suo ideale del superuomo: il Trionfo della morte (1894), Le
vergini delle rocce (1896), Il fuoco (1900), Forse che sì forse che no(1910).
Ma la sua vena creativa non si esaurisce nella pur ricca sequenza
narrativa, e alterna indifferentemente prosa a poesia a teatro, a conferma
della sua prodigiosa capacità di padroneggiare ogni tecnica compositiva e,
nello stesso tempo, del dominio assoluto che è in grado di esercitare sulla
parola. Se nei romanzi il linguaggio è in funzione dell'immagine di vita
decadente che il superuomo è chiamato a riscattare, nei versi delle Laudi e di
Maia e di Alcyonein particolare, è invece l'esaltazione del poetico che trova
il suo riscatto e tocca il culmine in alcune composizioni di Alcyone
giustamente famose, da La sera fiesolana a La pioggia nel pineto. Il suo
continuo tendere verso l'alto, nella vita come nella letteratura, qui attenua,
fino a eliminarli, i persistenti residui volontaristici che gli fanno a volte
sfiorare la maniera, per realizzarsi invece nella coscienza del ruolo e per
identificarsi nella realtà rappresentativa di un paesaggio che sembra celare
l'essenza stessa della vita. Non tutta l'immensa produzione in versi che egli
accumula risente di questa condizione e, se possiamo tralasciare Merope e Canti
della guerra latina, una particolare attenzione richiede invece Elettra, dove
il poeta si avvicina a quella poesia oratoria e celebrativa (specie nella
sezione "Le città del silenzio") che ha esempi illustri nella lirica
ottocentesca e che sembra fare da ponte con la pratica oratoria politica che
egli va esercitando. Perché, nel frattempo, D'Annunzio aveva vissuto anche la
sua esperienza politica: affermazioni di acceso nazionalismo aveva fatto nella
raccolta L'Armata d'Italia (1888) e poi nelle Odi navali, raccolte in volume
nel 1893; ma soltanto nel 1897 pose la sua candidatura come deputato, e per i
suffragi degli elettori di Ortona a Mare entrò in parlamento tra le file della
maggioranza. Più tardi però, nel marzo 1900, compì un gesto clamoroso
abbandonando la maggioranza per unirsi ai deputati dell'estrema sinistra che
facevano l'ostruzionismo contro i provvedimenti reazionari del governo Pelloux.
Ma più che in parlamento la sua oratoria politica si espresse attraverso quella
specie di vita che lo scrittore volle realizzare e che venne a proporsi come un
modello tanto seducente quanto pericoloso alla borghesia italiana d'allora: nel
1898 si ritirò a vivere in Toscana, a Settignano, nella villa della Capponcina,
e condusse un'esistenza fastosa a imitazione di quella dei signori del
Rinascimento. L'opera d'oratoria fu esercitata pure attraverso il teatro, che
inaugurato nel 1897-1898 con il Sogno d'un mattino di primavera, il Sogno d'un
tramonto d'autunno e La città morta, e imposto al pubblico anche grazie alle
geniali interpretazioni di Eleonora Duse, tenne impegnato il poeta sino
all'inizio del primo conflitto mondiale, quando nell'azione militare e politica
egli trovò un mezzo più genuino per esercitare sul pubblico la sua funzione di
maestro di vita. Nonostante ciò il teatro dannunziano non manca del tutto di
significato letterario: volle essere, e in certo senso fu, almeno nella Figlia
di Iorio, espressione di una drammaticità diversa da quella cui s'ispirava il
teatro borghese e realista di allora; volle estrarre dal mito, dalla storia e
persino dalla vita contemporanea esempi di esperienze eccezionali, nelle quali
lussuria e torbide passioni segnano il destino degli uomini; ma nell'insieme
esso risulta più invecchiato di altre parti dell'opera dannunziana, ove si
eccettuino quei frammenti ispirati al medesimo lirismo dei due eccellenti fra i
libri delle Laudi: Alcyone e Maia. Oltre a quelle menzionate, le opere teatrali
sono in ordine di tempo le seguenti: La Gioconda e La gloria (1899), Francesca
da Rimini (1902), La fiaccola sotto il moggio (1905), Più che l'amore (1906),
La nave (1908), Fedra(1909), Le martyre de Saint Sébastien, scritto in
francese, con musiche di Debussy (1911), La Pisanelle ou la mort parfumée,
ancora in francese (1912-1913), Parisina, rappresentata alla Scala di Milano
nel 1913 con musiche di Mascagni, Le chèvrefeuille (1913), pure in francese,
tradotta l'anno seguente in italiano col titolo Il ferro. I drammi scritti in
francese traggono la loro origine dal fatto che nel 1910 il poeta, disgustato
delle vicende giudiziarie che portarono alla vendita della Capponcina, s'era
trasferito in Francia, ad Arcachon, in un esilio volontario che non lo distolse
tuttavia dal seguire le vicende italiane, come dimostrano specialmente Le
canzoni della gesta d'oltremare, composte per la guerra libica, né gli impedì
d'essere presente nella letteratura nazionale di quegli anni con nuove opere,
tra le quali particolarmente notevole è la Contemplazione della morte, composta
nel 1912 dopo le morti, seguite a breve distanza l'una dall'altra, del suo
ospite francese Bermond e di Giovanni Pascoli. Data anzi dalla Contemplazione
della morte e dalle Faville del maglio, pubblicate nel Corriere della Sera in
quel periodo di tempo, un rinnovamento notevole della prosa dannunziana, che
avrebbe dato prove anche più convincenti nel Notturno, nella Licenza della Leda
senza cigno (1916), nelle parti aggiunte più tardi alle Faville e ancora nelle
Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto (1935): prosa di
confessione e di memoria, in cui non viene meno la celebrazione di sé, eppure
la vita intima dello scrittore è illuminata con sincerità e con immediatezza
poetica.
Non meno importante dell'opera letteraria fu peraltro l'azione di
D'Annunzio negli anni che vanno dall'entrata in guerra dell'Italia all'impresa
di Fiume. Acceso assertore dell'intervento a fianco dell'Intesa, il 5 maggio
1915 allo scoglio di Quarto il poeta pronunciò il discorso della Sagra dei
Mille che, seguito da altri tenuti poi a Roma, fu decisivo per l'azione degli
interventisti. Coraggiosamente egli partecipò come aviatore, come marinaio e
come fante a rischiose azioni di guerra, per le quali fu insignito di alte
ricompense al valore italiane e straniere. Si possono ricordare l'incidente di
volo del 16 gennaio 1916, in seguito al quale perdette l'occhio destro, la
partecipazione con i fanti della brigata "Lupi di Toscana" alla conquista del
Veliki e del Faiti (ottobre-novembre 1916), le incursioni aeree notturne su
Pola (agosto 1917), quella su Cattaro (4-5 ottobre 1917), la spedizione
("beffa") di Buccari (11 febbraio 1918), il volo su Vienna del 9 agosto 1918,
in cui egli lasciò cadere sulla capitale nemica manifesti di propaganda. Finita
la guerra, poiché Fiume sembrava perduta per l'Italia, egli l'occupò a capo di
287 legionari (settembre 1919) e la tenne contro la volontà del governo
italiano sino al gennaio 1921, costituendo una sorta di Stato indipendente
(reggenza del Carnaro). Attaccato dalle truppe regolari che dovevano far
rispettare il trattato di Rapallo ("Natale di sangue" del 1920), si ritirò a
Gardone nella villa Cargnacco, denominata poi "Il Vittoriale". Nella difficile
situazione del dopoguerra si schierò dalla parte dei fascisti; ma non diede
loro mai un'adesione incondizionata e, soprattutto nei primi anni del potere,
Mussolini ebbe a preoccuparsi di qualche gesto compromettente da parte di colui
che pure era stato precursore del suo programma politico e gli aveva, in certo
modo, insegnato l'apparato delle sagre fasciste. Questo contribuì a isolare il
poeta, che del resto appariva ormai del tutto inattuale anche agli scrittori
delle generazioni più giovani, impegnati nella ricerca di una poesia ben
diversa dalla sua.