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Didascalie futuriste




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DIDASCALIE FUTURISTE


Ancor più che nel caso di D'Annunzio, la teatralità futurista mostra scopertamente e senza mediazioni la sua matrice contestataria: il polo d'opposizione è quella letteratura teatrale insensibile ai mutamenti che andavano compiendosi nel campo delle arti figurative79, con le sue regole ferree e le sue bardature moraleggianti e livellatrici.

L'avventura teatrale futurista ha il suo antefatto a Parigi, dove il giovane Filippo Tommaso Marinetti, intinta la penna nell'inchiostro nerissimo di Lautreamont, Adam, Jarry e Maeterlinck, esordisce con due drammi dal registro grottesco: Poupées électriques, poi Fantocci elettrici (rappresentato a Torino nel 1909 con il titolo La donna è mobile) e Roi Bombance (portato in scena nella capitale francese da Lugné-Poe). Al ritorno in Italia raggiunge artisti differenti per cultura, provenienza e obiettivi, e li raduna sotto la regola prioritaria dell'atto declamatorio, di cui le prime "serate" (sorta di happenings disordinati e tumultuosi, tra comizio politico, reading poetico, mostra di quadri e conferenza artistica) costituiscono l'aspetto più vistoso. Col tempo si ha una progressiva elaborazione dei contenuti e l'oratoria di propaganda e di provocazione si orienta, o meglio è canalizzata verso performances organizzate. Marinetti spinge questo processo a maturazione e ad accompagnarsi con la redazione di Manifesti che, anno dopo anno, trascrivono i progressi o anticipano le conquiste da fare, codificando l'utopia delle formule teatrali alternative, ottenute per dissacrazione e demolizione degli schemi "passatisti". Se nel 1911 ai drammaturghi futuristi era fatta richiesta di tendere

«ad una sintesi della vita nelle sue linee più tipiche e significative»80, con più chiarezza il Teatro Sintetico Futurista, che ha la sua enunciazione in forma di Manifesto nel 1915 e che coinvolge decine di autori più o meno legati al gruppo, significa l'estensione di un progetto diretto alla sistematica e scanzonata derisione del teatro psicologico, soppiantato dalla cosiddetta "fisicofollia"81.

Imponendo un grado permanente di rottura, di franamento, di scivolamento verso l'illogico e l'atecnico, le "sintesi" ottengono il duplice risultato di decostruire il procedimento scenico, aprendo al casuale, al non- costruito, e disancorare la struttura dalle coordinate cronologiche e topologiche. Con le parole di Paolo Puppa, «la scrittura si libera del testo e si lancia sull'evento spettacolare: dal chiuso all'aperto, dal Cosmo al Caos, la sintesi diviene pertanto una didascalia per un processo che non può limitarsi allo spazio estetico, che straripa oltre la rampa, e allude ad un rituale di passaggio, ad un'iniziazione che pretende di coinvolgere lo spettatore e poi il

cittadino»82.

Tra i due manifesti ve n'è un terzo, non meno importante, che afferma la portata rivoluzionaria, travolgente e dinamica, di un teatro in sintonia col modello "antiborghese e antiletterario" del Varietà e del Music-hall, rompendo con il teatro di parola e teorizzando un rapporto nuovo con il pubblico83: il Manifesto del Teatro di Varietà, dato alle stampe nel 1913, pronuncia una riflessione fondamentale sul luogo scenico, inteso come dispositivo capace, in sé, di attivare l'intera rappresentazione84. Coordinate teoriche che finiscono con l'invertire le proporzioni tra dialogo e didascalia, manifestando tuttavia ambizioni impraticabili con gli strumenti a disposizione85.

La didascalia futurista, rovesciando l'effettualità dialogica della battuta

(e più in generale della pagina) di ambiente borghese86, pone in attività tutti gli elementi della scena, assegnando loro un segno positivo e affidando una mansione drammaturgica. Si hanno così drammi risolti interamente nelle indicazioni sceniche, di cui sono protagonisti le sedie, le luci, i colori o parti del corpo come le mani o le gambe.

Nel dramma d'oggetti marinettiano Vengono (1915) le quattro brevissime battute pronunciate dal maggiordomo sono intercalate al "muoversi" delle sedie preparate dai servi per l'arrivo dei padroni di casa. Annota Marinetti in calce al testo: «Le otto sedie e la grande poltrona, nei diversi mutamenti delle loro posizioni successivamente preparate per ricevere gli attesi, acquistano a poco a poco una strana vita fantastica. E alla fine lo spettatore, aiutato dal lento allungar delle ombre verso la porta deve sentire

che le sedie vivono veramente e si muovono da sole per uscire»87.

Nella "sintesi" di Fortunato Depero Colori (1915) «quattro individualità astratte» agiscono, mosse da fili invisibili, all'interno di una «stanza cubo- azzurra, vuotissima»88. Colori impone una strumentazione tecnica del tutto nuova e si isola dalle "sintesi" dello stesso periodo in quanto è la voce a farsi scena; il risultato libero dell'apparato fonatorio intrattiene le visualizzazioni del verbale, modulando la traiettoria delle schegge sonore.

In Dramma di luci di Paolo Buzzi (1916) agiscono sorgenti luminose di là da una vetrata (Tramonto, Luna, Astri) e oggetti nella stanza (Lampadario, Lumicino, Cero, Doppieri): le parole che questi pronunciano vibrano «di particolari suggestioni semantiche e foniche coerenti con impressioni da quelli deducibili»89, proporzionali al loro "valore energetico"90.

Sul piano propriamente formale si è dunque di fronte a una vasta ricchezza di moduli e figure espressive, a una profusione di effigi sinestesiche, giochi di parole e metafore. Del resto, la consapevolezza tecnico-formale da accreditare alle esperienze teatrali futuriste non va limitata alle sole fantasie teoriche (che avevano nei Manifesti la provocatoria espressione) ma deve essere estesa alla visione scenica che le pur sporadiche realizzazioni mostrano chiaramente. Visione non contratta su uno spazio dato, ma aperta a una rete di apporti confluenti nella produzione di senso (luci, suoni, azioni mimiche o danzate), come le didascalie comprovano sulla pagina91. Ma queste ultime sono anche spia della stessa tendenza a cui abbiamo accennato a proposito di D'Annunzio: l'assimilazione del linguaggio cinematografico nell'elaborazione drammaturgica. Se l'estetica borghese-naturalista può essere associata alla riproduzione fotografica - obiettività, esattezza della posa, estetica chiaroscurale - le posizioni dell'avanguardia non possono che avere come

analogon il modello della cinematografia. Nella molteplicità di apporti e nelle reciproche intersezioni caratterizzanti le ricerche del movimento è possibile recuperare un cospicuo numero di esempi che dimostrano la fascinazione esercitata dal "modello cinematico" sull'idea futurista di mise en scène92.

Nella sintesi marinettiana La camera dell'ufficiale, l'azione consiste unicamente nella "materializzazione emotiva" di un ambiente buio, attraverso rumori, segnali luminosi e oggetti che, in funzione di sineddochi sceniche, intendono far penetrare lo spettatore in un clima bellico. Nessuna battuta: non vi sono voci né attori, ma se ne avverte la presenza, come se una macchina da presa stesse riprendendo un fuoricampo lontano dall'azione, mentre l'intervento di suoni e variazioni luminose segnala un fatto che avviene in un altro punto. È come se l'occhio della cinepresa percorresse questo spazio indistinto con un alternarsi di inquadrature differenti, dal campo lungo al primo piano. Nella prima descrizione, ad esempio: «Finestra in fondo, di fronte agli spettatori, aperta su un paesaggio di montagna con chiarore stellare. Davanti alla finestra passa due o tre volte, a brevi intervalli, la baionetta di una sentinella che passeggia fuori, sotto la finestra»93.

La sintesi Dalla finestra, di Arnaldo Ginna ed Emilio Settimelli, chiede allo spettatore di autosuggestionarsi, vivendo la parte di un individuo paralizzato che scorge, al di là dalle persiane spalancate, la presenza

fantasmatica prima del padre poi della sorella. Le due apparizioni-ombre dovranno stagliarsi sul muro di un castello, ed incontrarsi nell'ultimo quadro. La scena è quindi concepita come uno schermo, una tela da proiezione; il pubblico si trova ad assistere a qualcosa di simile a un breve filmato:

«All'alzarsi della tela si vede il muro altissimo di un castello profilarsi nella notte lunare. Raffica di vento. Suonano le 12 da un vicino orologio monotono. Appare da sinistra sul muro del castello un uomo completamente vestito [.]»94.

In altri testi il paradigma della contemporaneità e della convivenza di situazioni è declinato in maniera radicale: in Simultaneità di Marinetti la stanza da toletta di una cocotte occupa parte dello spazio del soggiorno di una famiglia, rimanendo tuttavia ad essa invisibile: «Sala. La parete di destra è interamente occupata da una libreria. Un po' a sinistra una grande tavola. Lungo la parete di sinistra, mobili modesti, da piccoli borghesi, e una porta. [.] Davanti alla libreria, a breve distanza da questa, una toletta ricchissima,

illuminatissima, con specchio e candelabri»95. I due ambienti sono così fusi in un solo quadro, sebbene estranei l'uno all'altro; da un lato i clichés del passatismo borghese: il grigiore silenzioso della vita quotidiana, con il padre di famiglia che legge il giornale, la madre che sferruzza, il figlio intento nello studio; dall'altro le movenze languide e disinvolte della giovane donna che si osserva nello specchio. Vediamo così uno dei personaggi che «si alza, va alla libreria, passando vicinissimo alla toletta, come se questa non ci fosse, prende un libro, riattraversa la sala [.]»96. La contrapposizione non è tanto volta a

concretare una superficie inconscia dell'uno o dell'altro personaggio, a svelarne un pensiero latente, quanto a de-realizzare il binomio, a eccitare la singolarità di uno spazio per mezzo della compenetrazione con l'altro, affinché il protagonista assoluto sia il tempo, cioè la contemporaneità dei momenti, nella sua anomica e alogica relazione con il tutto che pure li contiene97: adesione al comandamento «Sostituire agli atti gli attimi», come si legge nel Manifesto del Teatro Sintetico Futurista. I valori luminosi e cromatici hanno

qui irrefutabile peso drammaturgico, nel fronteggiarsi di una «luce tenue e verdognola» smorzata da un paralume e una «proiezione intensissima di luce elettrica»98 nella zona dove si muove la cocotte.

I ricorrenti simboli claustrofobici, lo svolgimento dell'azione in ambienti chiusi, opprimenti o indefiniti (simboli dell'invecchiamento e isterilimento della società), i modelli corrotti di rapporti umani e di valori sentimentali, le epifanie notturne e vagamente necrofile, l'azzeramento della qualità biunivoca della comunicazione e il conseguente prevalere delle didascalie sulle battute, del vuoto scenico sul pieno, sono aspetti che descrivono una problematicità spesso sottovalutata. Motivi che hanno la loro punta estrema nei "drammi d'oggetti" di Marinetti99; più che chiamare in causa l'occultismo (secondo un'interpretazione avanzata da alcuni critici, tra cui Umberto Artioli e Mario Verdone), il dramma d'oggetti è un'apologia del materialismo, inteso come dinamizzazione delle energie creatrici, come identificazione di una vita interna alla materia, come assorbimento reciproco di soggetto e oggetto nell'esperienza: il soggetto viene a perdere la sua centralità esclusiva, in nome della vivificazione degli elementi dell'universo, che diventano appunto oggetti drammatici. Da qui alle farse tragiche di Ionesco, in cui gli oggetti saranno presentati e "agiti" come metafore dell'assurdità del

mondo e del linguaggio, non c'è molta strada100.

Con il Futurismo entriamo per così dire nel dominio dell'ottica o per usare le parole di Jean Baudrillard, della scopica; cosicché le didascalie proliferano, cariche di indicazioni visuali e di movimento, distribuendo in maniera differente la produzione di senso. La conformità "signorile" del dramma borghese diventa insignificante e lascia il posto a un funzionalismo che demanda agli elementi inanimati il compito di esprimere l'azione e la sua eccezionale accelerazione.

L'abbandono di una scenografia empiricamente descrittiva in favore della scenoplastica e l'impoverimento (l'azzeramento talora) della densità umana a vantaggio di una caratterizzazione "materiale" rappresentano una novità radicale per il teatro italiano. Gli oggetti - e con questo termine si

intendano tutti gli elementi non umani facenti parte del dispositivo scenico -

cominciano ad incaricarsi dell'iniziativa semiotica; in altre parole, questi, «non più al servizio della credibilità della situazione o dell'agire dell'attore, si autonomizzano e diventano essi stessi protagonisti»101. Il loro spostamento, cadenzato dalle didascalie e dalla punteggiatura, ritma gli stati psichici, scandendo la tensione drammatica102. La scoperta di una natura vivente degli oggetti, del loro valore parallelo e rafforzativo, è pienamente inserita in una tendenza europea: siano questi imago simbolica di un'intuizione intellettiva, come nei drammi espressionisti, o protagonisti di una contro-storia affascinata dal progresso, come nei drammi e nelle sintesi della nostra avanguardia, essi si affrancano dalla loro materialità inerte, prendendo residenza nel territorio dell'umanità. Ecco così il protagonismo delle sedie in Vengono e gli inquietanti

mobili che in Il teatrino dell'amore «scricchiolano misurando le loro forze sottovoce»103.

Le battute si incastrano pertanto nella successione delle didascalie, come a confermarne l'esito, a comprovarne la veridicità104, minata dal parossismo ridondante e dalla insensatezza iperbolica delle situazioni e delle immagini: «l'iperbole è infatti la caratteristica dominante della didascalia futurista, la cui stessa proliferazione (molte sintesi sono proposte come pura didascalia) è macroscopico indizio di una volontà di sostituzione del verbale

col visuale, del rallentamento dialogico con la fulmineità dell'azione»105.

Vite di Mario Dessy presenta un costruzione non lontana da quella di Simultaneità, fondata sulla contrapposizione tra due ambienti - «un elegantissimo salotto» e «una camera modestamente arredata» - che, pur in assenza di pareti divisorie, sono acusticamente e visivamente isolati: «Nessuna parete divide i due ambienti, ma i personaggi che agiscono in uno non sentono

e non vedono quelli dell'altro»106. Sicché anche in questo caso può

manifestarsi la straniante incomunicabilità tra due tranches de vie adiacenti.

In un altro breve atto unico di Marinetti, I vasi comunicanti, il palcoscenico è tripartito da due tramezzi, che dividono una camera ardente, lo scorcio di una strada e una fila di trincee in aperta campagna107. In un susseguirsi di azioni fulminee le due separazioni saranno sfondate e i personaggi transiteranno dall'uno all'altro ambiente. «Spazio-temporalità eterogenee si intersecano e si aggrovigliano, in una macroscopica alterazione degli usuali cardini della teatralità ottocentesca»108: alterazione che fa leva sulla rivalutazione del dispositivo scenico e su un rinvigorimento dei mezzi linguistici specifici del teatro; pieni poteri alla luce, agli effetti plastici, con particolare attenzione alla costumistica e al movimento coreografico109, alla drammaturgia d'oggetti, e ovviamente all'inserzione di proiezioni110. Penso al dramma sintetico di Marinetti Luci, che si apre, significativamente, con la proiezione dei finestrini illuminati di un treno in corsa su un fondale bianco come una tela, in una scena buia111. Sintagma teatrale che accentua l'efficacia drammatica delle variazioni luminose, con l'avvicendarsi di superfici chiaroscurate, lampi ed ombre, secondo una cifra stilistica che sarà propria

dell'avanguardia cinematografica espressionista112 (basti citare i nomi di Walter Ruttmann, Hans Richter, Viktor Eggeling, Laszlo Moholy-Nagy). Penso anche alle ricerche di Balla e Depero, dirette a conferire allo spettacolo una fisionomia dinamica, trasformabile, sinestetica e attribuendo allo spazio funzione di soggetto e oggetto113; e infine ai drammi d'oggetti marinettiani strettamente imparentati con il cinema comico, come Le basi. Qui il sipario a mezza altezza lascia vedere solo la parte inferiore del corpo dei personaggi, mostrando evidenti analogie con il cortometraggio Amor Pedestre di Marcel

Fabre (1914), sottile parodia di una storia d'amore melodrammatica, ripresa interamente dalle ginocchia in giù114.

Private di correlazione narrativa, le sintesi si danno dunque come microsceneggiature cinematografiche, le cui tecniche di montaggio e messa in quadro si rifanno al nuovo codice delle immagini in movimento. L'incorporamento di dinamiche cinematografiche si manifesta anche in numerosi esperimenti teatrali posteriori al periodo centrale della drammaturgia sintetica. Il manifesto Il teatro visionico, lanciato nel 1920 da Pino Masnata, contiene il tentativo di esprimere la molteplicità e variabilità di un flusso di

coscienza con i mezzi del teatro115, incarnare i pensieri e le immagini attraverso

la creazione di una «scena variabilissima» sostenuta dalle «più veloci e cinematografiche trasformazioni»116. Nella raccolta di opere teatrali "visioniche" Anime sceneggiate (La moglie infedele, Colori di laboratorio, Francesca da Rimini, composte da Masnata intorno al 1927) il trascorrere delle situazioni avviene non nella realtà oggettiva, bensì in buona parte in una realtà pensata e solo soggettiva117. A buon titolo Verdone ha parlato di

«cinematografia cerebrale»118, associando questa visualizzazione dei processi mentali alla tecnica presto intuita dal cinema di trascrizione filmica di un contenuto psichico - onirico, mnemonico o immaginario119. Analogamente al cinema delle origini, che con la tecnica dei "viraggi" e delle imbibizioni di sostanze coloranti accentuava il valore realistico o emotivo di certe situazioni, Masnata ricorre al colore per caratterizzare le singole scene, attribuendo loro non solo funzione di marcatore simbolico, ma un ruolo decisivo nella sintassi del dramma.

Un caso in cui si manifesta con evidenza la fusione tra dinamiche cinematografiche, compressione parodizzante e impianto varietistico, è l'atto unico Radioscopia, scritto a quattro mani da Ettore Petrolini e Francesco Cangiullo120. Battezzato dagli stessi autori "simultaneità del teatro di varietà", e definito da Verdone una «sequenza di scene sintetiche in forma di sceneggiata»121, esso fonde la versatile padronanza petroliniana del genere col gusto dissacratorio e grottesco del napoletano Cangiullo. Un fondale di velo trasparente separa la ribalta dal fondoscena: mentre in proscenio si susseguono i numeri della 'rivista' - un equilibrista, un duetto musicale, una ballerina, una macchietta comica - dietro e contemporaneamente, nella zona dei camerini, nasce, si sviluppa si conclude tragicamente una storia da "sceneggiata", ossia il delitto passionale compiuto da un marito geloso ai danni della moglie, sua compagna di scena. I due ambienti si compenetrano, l'uno facendo da sfondo all'altro. I bisticci dei due coniugi avranno per sottofondo l'orchestra che

«commenta sottovoce» i numeri di abilità muti, ma quando sarà la coppia ad esibirsi, nel retropalco si vedrà una ginnasta allenarsi e una sciantosa ripassare silenziosamente i suoi brani. Nella didascalia si legge: «Finito il duetto rientrano in camerino. - Segue il "numero" della ballerina nell'istesso tempo»122. La scrittura prevede quindi non solo un'alternanza di primi piani, ma un avvicendamento dei due "spazi sonori", l'uno crescendo di intensità al calare dell'altro. Si spiega così il senso del titolo: la scrittura di Radioscopia permette di osservare la struttura interiore di un corpo, in questo caso il ventre del teatro, con i suoi organi (gli attori) nelle diverse fasi della loro attività.

Franca Angelini, segnalando alcuni esempi del repertorio di Antonio Petito ed Eduardo Scarpetta, fa notare che la presentazione di scene multiple, metateatrali o simultanee era quasi una costante del teatro dialettale napoletano di fine ottocentesco123: si consideri ad esempio Francesca da Rimini, parodia scritta da Antonio Petito (1867), che precorre, se si vuole, il "teatro nel teatro" pirandelliano, con una prima scena a sipario chiuso e l'azione che straripa in platea. La didascalia iniziale indirizza da subito la parodia verso l'abbattimento

della "quarta parete":



L'azione principia col sipario calato. Si sente suonar la sinfonia, da dentro le scene gran chiasso di voci confuse, rumore di roba caduta, si sente un colpo di pistola. La musica cessa di suonare.

PRIMO VIOLINO (al suggeritore). Che cosa è questo chiasso?


SUGGERITORE (cacciando la testa fuori dal cupolino). Non so ma io credo che qualche rissa ha dovuto succedere. Fatemi nu piacere, teniteme "o cappello" e 'o copione, pecchè si veco che incalza l'affare, me ne fujo pe dinto alla platea.

VOCI (da dentro le quinte). Assassino, birbante! (Altra voce) Portatelo alla questura!

SUGGERITORE. Lasciatemi fuggire, qua l'affare incalza. PRIMO VIOLINO. Aspettate nu mumento, non avete paura UN INGLESE (dalla platea). Cosa queste chiassamente? PRIMO VIOLINO. Credo che sarà qualche appicceche. INGLESE. Che cosa è quest'appicceche?

VOCE DA DENTRO. Mannate a chiammà la vammana, nu chirurgo, qualche d'uno124.



A questo punto Pulcinella, buttafuori del teatro, informa che la tragedia in programma, appunto Francesca da Rimini, non potrà essere rappresentata.

Ma le veementi proteste del pubblico costringono ad arrangiare una recita, racimolando qualche attore improvvisato, Asdrubbale Barilotti, Monsù Cutenella e Monsù Schiattamorton, dando inizio ad una sintetica ed arrangiatissima esecuzione della tragedia di Pellico.

È interessante notare che a distanza di un paio di anni l'amico comune Raffaele Viviani porta in scena un lavoro (definito "impressioni in due atti") che presenta evidenti analogie con Radioscopia: si tratta di Eden Teatro, che per l'ambientazione - il Teatro Eden, uno dei più popolari teatri di Varietà napoletani - l'impianto scenico che concentra il palco e i camerini, e per la rappresentazione dell'umanità varia che vi si raccoglie (artisti, primedonne, habitués) non può non ricordare le caratteristiche del testo di Petrolini e

Cangiullo125.




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