COMMENTO DI MASSIMO INTROVIGNE
Il libro di Umberto Eco può essere letto
a tre diversi livelli: come romanzo pseudo-storico, come romanzo ideologico a
tesi e come romanzo iniziatico, che contiene anche un senso nascosto. La
lettura più facile è quella pseudo-storica del Medioevo di cartapesta, a cui
corrisponde il film. Di alcune delle menzogne di fatto della pellicola non
sembra direttamente responsabile il romanzo, che contiene però sul Medioevo e
sull'Inquisizione le menzogne di principio fondamentali. L'Inquisizione viene
presentata nel romanzo come un tribunale ideologico, inteso a reprimere ogni
possibile discussione di una serie di tesi razionalmente insostenibili, che
potevano essere imposte solo con la forza delle armi e dei roghi, seminando il
terrore attraverso la continua denuncia e perfino la «creazione» di un nemico.
«Spesso -osserva Adso- sono gli inquisitori a creare gli eretici». E un
tribunale ideologico non può che condannare sempre e comunque: «Sarai dannato e
condannato se confesserai- dice Bernardo Gui al suo imputato-, e sarai dannato
e condannato se non confesserai perchè sarai punito come spergiuro!». Lo
spoglio statistico delle sentenze dell'Inquisizione, da cui si ricava la bassa
percentuale di condanne, ha ormai dimostrato che questa tesi è falsa. Ma non
meno falsa è la sua premessa: l'Inquisizione nasce tardi, verso la fine del
Medioevo propriamente detto, non a fronte di eretici immaginari ma come
reazione agli eccessi reali e concreti di movimenti come i catari, portatori di
un «totalitarismo della morte» apologista del suicidio e dell'omicidio degli
oppositori, e -più tardi- come i dolciniani, impegnati a mettere a ferro e a
fuoco i villaggi in nome di un'utopia comunistica. Senza escludere deviazioni
ed errori tipici di ogni tribunale umano, non si può che concludere che
l'Inquisizione dei secoli XIII e XIV «è stata il modo necessario di affrontare
un antigene sociale molto pericoloso». Affermare il contrario significa
liquidare un secolo di studi scientifici sull'Inquisizione per tornare al museo
degli orrori dei romanzi di appendice del secolo scorso. Fuorviante è poi, nel
romanzo, l'elemento di supporto della trama, cioè il desiderio della Chiesa di
occultare un volume che -con l'autorità di Aristotele- avrebbe pericolosamente
legittimato, insieme con la commedia, l'umorismo, nemico della fede perché può
liberare dalla paura su cui la religione si fonda. La tesi non è minimamente
plausibile. I benedettini del Medioevo hanno salvato con amore anche il legato
del mondo classico relativo alla commedia, pure spesso moralmente discutibile.
Come ha mostrato Hans Urs von Balthasar, il Medioevo -oltre la critica rigida
della patristica- ha dato inizio alla rivalutazione del teatro. Nella Summa
Theologiae di san Tommaso si afferma, nella questione 168 della Secunda
Secundae, che, se l'umorismo vano e malizioso deve essere evitato, l'umorismo
di suo costituisce una manifestazione della razionalità umana che può essere
perfino virtuosa. Di più: nella mancanza di senso dell'umorismo -«in defectu
ludi»- si trova «un qualche peccato», perché «tutto quanto è contro la ragione
nelle cose dell'uomo è vizioso», e mancare di umorismo significa spesso
rivelarsi poco ragionevoli, «molesti agli altri», «duri et agrestes» secondo
l'espressione dello stesso Aristotele. Sono questi i medioevali de Il nome
della rosa: cupi, tetri, in perenne quanto morbosa attesa di disastri
apocalittici? Il nome della rosa è essenzialmente un romanzo ideologico a tesi,
che intende indurre il lettore a scegliere come giusta una delle due posizioni
in conflitto nel secolo XIV nella disputa sulla povertà -la Armutsstreit, come
la chiama la storiografia tedesca- fra una parte dell'ordine francescano e la
curia Pontificia di Avignone. Nel film la disputa viene ridotta al semplice quesito
se Cristo fosse o meno proprietario delle proprie vesti. Qualche spettatore
della pellicola potrà quindi stupirsi nell'apprendere che uno dei massimi
storici del diritto viventi, Michel Villey, ha visto nella Armutsstreit «uno
degli eventi capitali nella storia della filosofia del diritto», sia privato
che pubblico. In realtà la posta in gioco nella disputa era la nascente
ideologia della modernità -la tesi di cui si vuole convincere il lettore de Il
nome della rosa- nelle sue tre principali dimensioni, cioè quelle filosofica,
giuridica e politica. Guglielmo da Baskerville è la figura abbastanza
trasparente -quando parla di filosofia- di un altro Guglielmo francescano,
inglese e nemico di Papa Giovanni XXII, Guglielmo di Occam, di cui nel romanzo
si dice amico e discepolo. La filosofia di Guglielmo di Occam è il nominalismo
relativista secondo cui si conoscono soltanto le realtà individuali -questo
cavallo, quest'uomo-, mentre i presunti «universali» -l'uomo, il cavallo- sono
semplici segni che servono a connotare -cioè a «notare insieme»- gruppi di
realtà individuali, di cui esprimono -peraltro in modo incerto e impreciso-
qualche generale rassomiglianza. Il metodo di Guglielmo da Baskerville è
certamente quello di Sherlock Holmes -il suo nome fa riferimento al romanzo
holmesiano Il mastino dei Baskerville e Adso assona con Watson-; ma già il
filosofo marxista Ernst Bloch aveva considerato il metodo «detettivo» del
romanzo poliziesco come figura popolare della logica moderna, il cui frutto più
maturo sarebbe appunto il marxismo. All'inizio del romanzo, in una scena
tipicamente holmesiana, Guglielmo stupisce i suoi interlocutori descrivendo nei
più minuti particolari, da qualche tenue traccia, un cavallo che non ha mai
visto; quando Adso-Watson gli chiede come ha fatto, risponde con una lezione di
occamismo, spiegando che «tra la singolarità della traccia e la mia ignoranza,
che assumeva la forma assai diafana di un'idea universale», ha scelto la
traccia singola, senza correre dietro alle idee universali che sono «puri
segni», ed è così pervenuto alla «conoscenza piena», che è «l'intuizione del
singolare». E' grazie alla nuova logica di Occam che Guglielmo da Baskerville
risolve gli enigmi dell'abbazia, mentre il tomista Bernardo Gui, che ragiona
per universali, segue piste false; ed è con un motto nominalista che il romanzo
si chiude: «Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus», «La rosa
originaria -la presunta essenza della rosa- consiste in un nome, noi non
abbiamo che nudi nomi». Le conseguenze del nominalismo occamista sono di
straordinaria gravità: se si conosce soltanto l'individuale, ogni presunta
verità che vada al di là dell'individuale singolare e provvisorio è del tutto
malferma; ultimamente, la verità non esiste. Guglielmo da Baskerville non
sfugge a questa conclusione; e anzi la esprime nei termini brutali del
«pensiero debole» del secolo XX: «Le uniche verità che servono sono strumenti
da buttare», «l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per
la verità» e perfino «il diavolo è [] la verità che non viene mai presa dal
dubbio. Il diavolo è cupo perchè sa dove va». Il primo arcano della modernità
svelato dal romanzo di Umberto Eco è il relativismo scettico: fuori dal
relativismo vi è solo «la passione insana per la verità», chi «sa dove va» è un
«diavolo» che si esprime nell'intolleranza e nei roghi e che deve essere a ogni
costo combattuto. Sul piano del diritto, come ha mostrato in particolare Michel
Villey, dal relativismo occamista deriva il positivismo giuridico, «prodotto
del nominalismo. E della dottrina di Guglielmo di Occam». Se non esiste la
verità, non esistono neppure le verità: non esiste un ordine naturale che possa
essere fonte di un diritto naturale, ma fonti del diritto sono soltanto le
espressioni positive di una volontà individuale. Sul piano del diritto privato
si rovescia la nozione di jus, che non è più id quod iustum est, la «parte» o
porzione giusta assegnata a ciascuno secondo equità, ma è -per Guglielmo di
Occam- il «diritto soggettivo», già in senso moderno, il potere concesso da
qualche norma positiva di far valere la propria potestà. Questa autentica
rivoluzione giuridica nasce proprio dalla disputa sulla povertà dei
francescani, i quali affermano di non avere la proprietà ma solo l'uso di tutti
i loro beni, come aveva -dicono- lo stesso Gesù Cristo. Ma -afferma Papa
Giovanni XXII- la separazione fra proprietà e uso è una finzione, almeno per i
beni che i francescani godono in perpetuo e per i beni consumabili come il cibo
e le vesti: non si può avere l'uso del pezzo di formaggio che si mangia senza
averne anche la proprietà. Se per jus si intende «la parte dei beni che ci
viene attribuita secondo giustizia», il Pontefice ha ragione, e lo stesso san
Francesco aveva un diritto di proprietà sul pane che mangiava; per contraddire
questa tesi «bisogna cambiare la nozione di jus, darle un significato più
ristretto e in qualche modo peggiorativo, bisogna ridurre il diritto a
strumento di coercizione materiale, al potere di difendersi davanti al giudice».
E a questo potere di difendere i beni che i francescani -e già Cristo e gli
Apostoli- hanno -secondo Occam- rinunciato, ma il diritto di proprietà consiste
appunto in questo. Questioni pedanti e superate- Tutt'altro: il mutamento della
nozione del diritto di proprietà, e del diritto in genere, comporta «una vera e
propria rivoluzione copernicana nella storia della scienza del diritto». Siamo
«di fronte alla frontiera che divide due mondi diversi»: il mondo del diritto
naturale classico e cristiano e la modernità, di cui il positivismo giuridico
-con la separazione del diritto dall'ordine morale- costituisce, dopo il
relativismo, il secondo arcano rivelato da Il nome della rosa. Gli effetti del
positivismo giuridico sono particolarmente gravi sul piano del diritto
pubblico, dove nasce lo Stato moderno, sovrano assoluto nel senso di solutus
ab, «sciolto da» qualunque controllo o vincolo superiore alla sua volontà. Se
non esistono verità e valori, non vi è nessun criterio o istanza superiore in
base a cui giudicare lo Stato e le sue leggi. E lo Stato certamente non può
essere giudicato dalla Chiesa: Guglielmo da Baskerville e i suoi amici vogliono
una «Chiesa povera», ma non nel senso -come pretende ingenuamente il film- di
una Chiesa che rinuncia alle sue ricchezze e le distribuisce ai poveri. Non è
questo tipo di riforma ecclesiastica che interessa Guglielmo da Baskerville:
«Povera -precisa- non significa tanto possedere o no un palazzo, ma tenere o
abbandonare il diritto di legiferare sulle cose terrene». La «Chiesa povera»
dei «teologi imperiali» è una Chiesa confinata in sacrestia che rinuncia a
giudicare la politica e le leggi: «Il dominio temporale e la giurisdizione
secolare nulla hanno a che vedere con la chiesa e con la legge di Cristo Gesù».
«I minoriti -Guglielmo lo ammette- fanno il gioco imperiale» di Ludovico IV il
Bavaro, una figura chiave nella genesi dell'Europa moderna, il primo imperatore
che si fa incoronare a Roma non dal Pontefice ma da un laico, e per di più da
quello Sciarra Colonna che era stato uno dei responsabili dello schiaffo di
Anagni, l'oltraggio alla Chiesa che, con la sua carica simbolica, aveva posto
fine -secondo molti storici- al Medioevo propriamente detto. Poiché poi nel
secolo XX gli imperatori, anche se laicisti e miscredenti, non sono più di
moda, Guglielmo da Baskerville si premura di dichiarare che -una volta
garantita la laicità dello Stato- lui e il suo amico Marsilio da Padova
preferirebbero alla monarchia imperiale una «assemblea generale elettiva», per
cui però sfortunatamente «i tempi non sono maturi». Ma in realtà il problema
non consiste tanto nella forma dello Stato quanto nella estensione dei suoi
poteri. Lo Stato laico moderno non si emancipa solo da possibili rischi di
prevaricazioni clericali; si emancipa da qualunque controllo e limite e pone le
premesse del totalitarismo, secondo un processo che è stato colto da autori
cattolici ma anche da un maestro del neoliberalismo come Friedrich August von
Hayek. Il nome della rosa mette in scena -è il terzo arcano della modernità- il
momento sorgivo dello statalismo moderno. Lo statalismo non può che essere
contro la Chiesa, perché una Chiesa libera si sentirà libera di criticare
l'autorità politica, ed è una sfida che il potere totalitario non può
tollerare. Lo afferma -sulla scia di Marsilio da Padova- Guglielmo da
Baskerville: «Se il pontefice, i vescovi e i preti non fossero sottomessi al
potere mondano e coattivo del principe, l'autorità del principe ne verrebbe
inficiata». Si sa che Umberto Eco è un grande appassionato di enigmi e di
enigmistica, e Il nome della rosa è un romanzo insieme enigmistico ed
enigmatico. Enigmistico, perché -come afferma la stessa manchette del volume-
contiene una serie di «giochi» da risolvere, fra cui un «giallo di citazioni»
non denunciate come tali. Esula dalle mie intenzioni seguire fino in fondo il
gioco, anche se alcuni degli enigmi sono interessanti, perché rivelano
citazioni occulte di autori fra i più radicalmente anti-cattolici del nostro
secolo come Georges Bataille -a cui si deve la tesi secondo cui il suppliziato
sperimenta un'estasi del dolore paragonabile alla mistica - e Roger Peyrefitte,
dal cui romanzo Le chiavi di San Pietro è tratta quasi letteralmente la pagina
sulle false reliquie. Il romanzo è insieme enigmatico perché alcune tesi
possono non emergere a una prima lettura del testo e si rivelano
progressivamente: si può quindi parlare anche di romanzo iniziatico. Quando il
retto uso della ragione va perduto, l'errore può manifestarsi come razionalismo
o come irrazionalismo. Il proprium della modernità consiste nel fatto che
razionalismo e irrazionalismo si manifestano insieme, come due facce della
stessa medaglia. Alla «corrente fredda» razionalista e positivista della
modernità si accompagna una «corrente calda» che fa della Rivoluzione una
religione atea, che si esprime in simboli e miti; così la massoneria, vestale
della modernità, coniuga il più estremo razionalismo e il più improbabile
irrazionalismo esoterico, il comunismo è insieme materialismo e religione
secolarizzata come adorazione filosofica del divenire, e così via. La
distinzione fra le due correnti, calda e fredda, è di Ernst Bloch e le
citazioni implicite di Bloch ne Il nome della rosa abbondano; sua è la tesi del
«filo rosso» che legherebbe le speculazioni di Gioachino da Fiore, le eresie
medioevali, il dipanarsi della modernità e il marxismo. Per intendere il senso
occulto de Il nome della rosa può essere utile distinguere fra una posterità
speculativa di Gioachino da Fiore -nel romanzo rappresentata da Ubertino da
Casale-, che legge l'età dello Spirito Santo come meta di una storia in
progresso animata da Dio, ma vorrebbe mantenere una apertura alla trascendenza
e conservarsi ancora cattolica, e una posterità rivoluzionaria, che trascrive
il sogno gioachimita dall'eternità escatologica al futuro politico. Nel romanzo
di Umberto Eco il gioachimismo speculativo, che vuole ancora salvare la
trascendenza, si rivela perdente di fronte al gioachimismo rivoluzionario. E'
vero: Guglielmo da Baskerville disapprova il gioachimismo utopistico delle
bande dolciniane che vogliono imporre il comunismo con il ferro e con il
fuoco.Il gioachimismo utopistico degli eretici è il grido dei «lebbrosi», dove
per «lebbrosi» si intendono le masse subalterne del proletariato Lumpen, «cencio»:
gli «esclusi, poveri, semplici, diseredati». «Tutte le eresie sono bandiera di
una realtà dell'esclusione. Gratta l'eresia, troverai il lebbroso». «I semplici
[] hanno ragione perchè posseggono l'intuizione dell'individuale, che è
l'unica buona» -naturalmente in una prospettiva occamista-, «ma questa
intuizione, da sola, non basta»: lasciata a sé stessa «l'esperienza dei
semplici ha esiti selvaggi». Sul finire della storia Adso chiede a Guglielmo:
«Che differenza c'è allora tra Dio e il caos primigenio». Sostenere che non
esiste la verità, e quindi che da Dio non scaturisce un mondo ordinato ma un
fascio infinito di possibili, «non equivale a dimostrare che Dio non esiste».
Guglielmo non lo nega, ma si limita a rispondere ambiguamente: «Come potrebbe
un sapiente continuare a comunicare il suo sapere se rispondesse di sì alla tua
domanda». Qualche pagina dopo Adso conclude «Gott ist ein lautes Nichts», «Dio
è un grande nulla», con una proposizione che trae dalla mistica renana ma che
interpreta inequivocabilmente in senso gnostico perché afferma di non credere
più in un Dio personale ma solo in una «divinità silenziosa e disabitata» come
abisso in cui «andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza». Che cosa
può imparare il mondo cattolico dalla grande operazione propagandistica
realizzata attraverso Il nome della rosa? Certamente una conferma, se mai ce ne
fosse bisogno, del fatto che qualcuno ritiene assolutamente necessario
sottoporre le folle a periodici bagni di menzogne sulla civiltà cristiana
medioevale, insistendo sempre sugli stessi temi -i monaci, l'Inquisizione-,
tanto più oggi a fronte del grave rischio che la nuova medievistica scientifica
giunga, sia pure lentamente, a conoscenza del pubblico dei non specialisti e
smantelli mitologie a cui certe forze sono straordinariamente attaccate. Il
film, «mini-museo antireligioso posto dall'altra parte di una cortina di ferro
sempre presente», costituisce una facile iniziazione offerta a tutti affinché
varchino la soglia ed entrino nel mondo del romanzo, dove si svelano gli arcani
della modernità nella loro verità ultima, nichilista e gnostica. Lo scopo di
Umberto Eco consiste certamente nel temprare «lo scettro a' regnatori»,
esaltando lo Stato laico moderno e la sua ideologia; ma talora -involontariamente,
e sta qui l'occasione positiva offerta al mondo cattolico- anche «gli allòr ne
sfronda» e «svela di che lacrime grondi e di che sangue» il potere svincolato
dalla religione e dalla morale e sostenuto da filosofie relativiste o da miti gnostici.
Se ne potrà ricavare, per diametrum, che la verità, e una politica che si lasci
giudicare dalla verità, fa libero l'uomo, mentre la negazione dell'esistenza di
una verità che si imponga anche ai principi -si tratti di Ludovico il Bavaro o
del «moderno principe», come Antonio Gramsci chiamava il partito comunista- lo
rende schiavo dei potenti di turno. Si comprenderà allora che l'arcano ultimo
della modernità come ideologia è il rifiuto di Dio, la «resistenza allo Spirito
Santo» che trova «specialmente [] nell'epoca moderna la sua dimensione
esteriore».