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Bacco o Dioniso
corrispondente al greco Dionisio, figlio di Giove e di Semele, Dio della vendemmia, del vino, della gioconda ebbrezza e della sensualità, alla quale gli italici finirono con attribuire i costumi e i riti del corrispondente Dio greco Dionisio.Fu venerato, originariamente, sotto la forma d'un albero di edera. Successivamente, esso fu raffigurato in un giovane dalla florida barba, coronando di edera e di pampini, al quale poi, si aggiunsero una pelle di lince o di leopardo gettata sulle spalle, e gioielli femminili, fra la chioma fluente e prolissa. I suoi simboli erano la tazza e il tirso. Gli alberi che gli erano consacrati, oltre alla vite e all'edera, erano il fico e la quercia. Il culto di Dioniso si mescolò, col tempo, con quello di Demetra, divinità della vegetazione, e con quello di Apollo, per la comune prerogativa della divinazione e dell'ispirazione poetica. I Romani lo onoravano sotto il duplice nome di Bacco e di Libero.
Arianna
Figlia di Minosse re di Creta, e sorella di Fedra e del Minotauro, s'innamorò dell'eroe ateniese Teseo che, per liberare la sua città dal sanguinoso tributo impostole da Minosse di sette giovanetti e sette fanciulle destinati ad essere divorati dal Minotauro, si era proposto di ucciderlo. Ma egli avrebbe certo finito con essere divorato dal mostro o non avrebbe più ritrovato la via per uscire dal labirinto nel quale il Minotauro era stato imprigionato, se l'innamorata Arianna non gli avesse dato un gomitolo di filo da dipanare lungo il tortuoso cammino. Ucciso il mostro, Teseo poté, guidato dal filo di Arianna, uscire illeso, ed imbarcarsi con lei, per il ritorno, vittorioso, ad Atene. Sbattuto da una tempesta nell'isola di Nasso, vi sbarcò con la sua donna bisognosa di riposo: però mentre ella dormiva, la tempesta riprese ad infuriare e Teseo, corso a mettere al sicuro la sua nave pericolante, fu con essa portato al largo e non potette recuperare Arianna, rimasta addormentata a Nasso. Arianna, credutasi abbandonata, dopo d'aver pianto tutte le sue lacrime ed essersi disperata della sorte che la lasciava, sola e indifesa, nell'isola sconosciuta, vide farlesi incontro un rumoroso corteo di Baccanti che la rinfrancò e, vinto dalla lacrimosa e seducente bellezza di lei, la prese con sé, e la fece sua sposa.
Mida
Mitologico re della Frigia, figlio di Gordio e Cibele. Mentre Bacco (o Dioniso) se ne andava in india, Sileno, dal quale era stato educato, si allontanò dal suo seguito. Il re Mida, gli offri ospitalità e gli diede una guida perché potesse ricongiungersi a Bacco.
Per contraccambiare il suo favore , il dio permise al re di chiedergli qualsiasi cosa volesse. Mida, avido di ricchezze chiese che qualsiasi cosa toccasse diventasse d'oro. Ottenuto ciò, ogni cosa toccava diventava d'oro. Appena colse un mela dall'albero, essa divenne d'oro, appena si lavò le mani nella acqua di fonte, essa defluendo divenne d'oro. Appena cominciò a mangiare e a bere qualcosa, il cibo e le bevande divennero d'oro. Tutte le cose splendevano d'oro, ma il ricco e misero Mida desiderava allontanare le ricchezze, che prima prediligeva . L'abbondanza d'oro, non placava infatti ne la fame ne la gola arida e afflitta dalla sete. Alla fine alzando le mani al cielo disse: " peccai o Bacco, concedimi il perdono e liberami da questo magnifico dono". Bacco gli ordinò allora di immergersi nel fiume Pactolo, quando l'acqua del fiume tocco il corpo di Mida, divenne di colore aureo e il re fu liberato dal terribile dono. Le acque di quel fiume purificatore, da allora in poi, ebbero sabbie piene di pepite d'oro.
Molto amico del dio Pane che, sfidato, un giorno, Apollo ad una gara elesse arbitro del giudizio il re, il quale, per aver decretato la palma a Pane fu castigato da Apollo col dono di un bel paio d'orecchie d'asino al posto delle sue. Mida, per tener celata quella sua ridicola mostruosità, coprì le orecchie in una tiara che non si toglieva mai dal capo; e, così nascondere a tutti la sua disgrazia, non però al suo barbiere naturalmente, impose di serbare il più geloso segreto. Il poveraccio per un po' di tempo, soffocò dentro di se la voglia irresistibile di propagarlo; ma quando non ne poté più, ritiratosi in un luogo appartato, e scavata una fossa vi avvicinò la bocca; e, guardandosi attorno per assicurarsi che potesse sentirlo, confidò alla Terra il suo segreto: 'Mida re non ha orecchie d'uomo, ma d'asino'; dopo di che, sentendosi alleggerito d'un gran peso riempì di nuovo la fossa e se ne andò. Sulla terra smossa, il destino burlone fece, però, nascere un canneto: e quando i primi venti soffiarono s'incaricarono di ripetere anche a chi non avesse voluto sentirle, le parole che il barbiere credeva di aver ben sotterrate.
Figlio di Ares o Marte e di Afrodite o Venere, era rappresentato come un giovinetto nudo, di meravigliosa bellezza, armato di un arco donde si spiccavano frecce infallibili, dalla cui ferita nasceva il mal d'amore. Una benda gli nascondeva gli occhi ed una face accesa gli fiammeggiava in una delle mani. Divinità dallo spirito malizioso ed incline alla perversità. Appena Cupido nacque, Giove, al solo guardarlo, conobbe quanti guai quel bimbo avrebbe combinato nel mondo, e cercò di convincere la madre ch'era meglio sopprimerlo. Allora Venere, a sottrarlo all'ira del re degli dei lo fece allevare, di nascosto, nei boschi. Appena il divino infante si sentì capace di maneggiare un arco, se ne costruì uno di frassino; e, imparò da sé, esercitandosi contro gli stessi animali che l'avevano nutrito, nell'arte di ferir gli uomini: e, quando gli capitava, anche gli dei. Neanche la madre Venere fu da lui risparmiata. Quando Venere, fatta gelosa dalla meravigliosa bellezza di Psiche, pregò il figlio di farla invaghire di qualche uomo dozzinale, Cupido, vista la fanciulla trovò, invece, assai di suo gusto; portarsela in un palazzo incantato, l'amò, senza però rivelarle l'esser suo, imponendole, anzi di non guardarlo se non voleva perderlo. La curiosità, però, poté in lei più dell'amore; e Cupido l'abbandonò subito, per riprendersela, poi, e farla accogliere da Giove fra gli dei.
Figlio d'una Ninfa e di Mercurio, secondo alcuni; di Pane, secondo altri, già vecchio, sarebbe stato l'educatore di Bacco giovinetto, che poi seguì sempre nelle sue peregrinazioni. Corpulento, calvo, peloso, con orecchie, coda e piedi di cavallo. Dopo avere accompagnato nelle sua avventure Bacco, avrebbe preso stanza in Arcadia, abbandonandosi, senza più ritegno, al vizio di bere.
Geni dei boschi, delle acque e dei monti. Loro insieme con le Ninfe e con le Baccanti, partecipavano alle feste di Bacco. Era loro attribuita dall'immaginazione degli antichi una sensualità procace ed aggressiva, alla quale dava risalto la figura ch'era loro prestata, curiosa mescolanza dell'umano e del bestiale. Erano raffigurati con cosce e gambe caprine, con due corna in fronte e una corta coda, tra caprina ed equina. Si aggiravano, insidiosi e protervi, nei boschi o sui monti, intenti a tendere trappole alle fiere e alle ninfe, suonando tutti gli strumenti rustici. Si favoleggiavano figli di Mercurio e della Ninfa Istima.
Le Ninfe
Erano immaginate belle e graziose giovinette che si supponeva abitassero nei luoghi più ameni, dove la natura spiega la sua innumerevole bellezza. Esse erano distinte secondo i luoghi che allietavano della loro grazia ingenua e fuggitiva: alcune si chiamavano Oceanine o Malie o Nereidi, e dimoravano in mare; altre, chiamate Nàiade o Potàmidi (dalla parola greca pòtamos. cioè fiume) o Limniadi (cioè delle acque stagnanti), abitavano nei fiumi, nelle fontane, nei laghi o nelle paludi; Driadi erano le ninfe delle foreste, e Amadriadi quelle preposte alla custodia d'un solo albero; Napèe quelle della valli e dei boschetti; Orèadi quelle montanine, ecc. A loro non si facevano offerte sanguinose, ma di latte, di olio, di miele, di vino, di ghirlande di fiori. Le ninfe simboleggiavano le forze della natura nelle loro forme più semplici sorridenti e propizie, espresse con giuochi, danze, apparizioni fantastiche e piacevoli e ingenue vicende d'amore.
Figlio di Sagro e di Calliope, apprese dal padre i misteri di Bacco, e dalla madre il divino dono di trarre dalla cetra accordi così soavi e suoni così delicati, da animare ogni cosa intorno a se. I venti per ascoltarlo arrestavano il corso; i fiumi si fermavano; le bestie più feroci si accoccolavano, mansuete, ai suoi piedi. Reduce glorioso dalla mitica impresa, sposò la dolcissima Euridice; ma, lo stesso giorno, il pastore Aristèo, innamorato di lei, nell'inseguirla fu cagione che la ninfa, calpestando, nella fuga, un serpente velenoso nascosto tra l'erba, morisse. Orfeo, inconsolabile, dopo d'averla pianta in dolcissimi canti che commuovevano persino le pietre, decise di tentar di riprendersi la sposa dal regno dei morti; e, sceso all'Averno, con la soavità del suo canto, riuscì ad ammansire Cerbero, a far tacere le Furie ed a muovere a pietà gli stessi Plutone e Proserpina, i quali unirono per consentirgli di ricondurre la sua Euridice su nel mondo, a condizione però che egli non si volgesse a guardarla, finché, con lei, non fosse uscito dalla silenziosa folla delle Ombre. La condizione era ben dura per chi era riuscito a strappare la preda alla morte, dopo di aver così disperatamente invocato il nome del suo amore: ma pure Orfeo seppe resistere, finché, non sentendo più dietro di sì il rumore dei passi della sua donna, non poté più trattenersi dal volgere il capo; ed Euridice, rifatta ombra, gli si dileguò dallo sguardo affannato col gesto dell'addio supremo. L'infelice amante, tornato a rifar la strada, invano supplicò Caronte che gli lasciasse, di nuovo, varcar l'Acheronte; e invano rimase sulle squallide rive, per ben sette giorni senza toccar cibo: poi, sconsolato, si ritirò sul monte Rodope; e, per tre lunghi anni, disimparò l'amore, rifiutando la consolazione offertagli dalle belle Baccanti della Tracia che, poi, sdegnate delle sue ripulse, in un cieco impeto di furore, lo sbranarono. Solo allora Orfeo, fra il compianto delle Naiadi e delle Driadi, poté ritrovare nell'Averno Euridice, senza il timore di vedersela più ritogliere.
Nome della ninfa che, amata da Aristèo, sposò invece Orfeo; è inseguita dall'altro, morsa da un serpente velenoso, morì. Orfeo, inconsolabile d'averla perduta, scese all'inferno dove addormentò Cerbero col suono della sua lira, e seppe riuscire a muovere a pietà Plutone e Proserpina, che gli restituirono la sposa, a patto ch'egli, durante il viaggio di ritorno, non si volgesse a guardarla finché non fosse ritornato, con lei, sulla terra. Ma Orfeo non seppe contenere il desiderio di bearsi dello sguardo di lei, si volse, ed Euridice svanì dai suoi occhi, come un'ombra leggera, per sempre.
Nome delle divinità latina, per molte sue attribuzioni corrispondente all'Artemide o Cintia nella mitologia greca . Anch'essa era ritenuta figlia di Giove e di Latòna o Leto; Rappresenta simbolicamente la luce lunare, così come il fratello Apollo quella solare. Essa è la dea della castità e della fedeltà coniugale, gelosa della sua rigida virtù. Diana era conosciuta e adorata sotto tre differenti rapporti e cioè: come divinità celeste, terrestre e infernale. Come divinità celeste, essa era la Luna che, con le sue fasi, esercitava una benefica influenza sulla natura, sul succedersi delle stagioni, sui movimenti del mare. Giove medesimo l'aveva dotata di arco e di frecce, creandola regina dei boschi e delle selve e dandole come ancelle fedeli e ubbidienti sessanta ninfe, figlie dell'Oceano. Era raffigurata in abito di cacciatrice, mezza nuda con, sulla fronte una mezzaluna, e armata dell'arco del Turcasso. Come divinità infernale, Diana prendeva il nome di Ecate, e le si attribuivano tre teste. Divenuta divinità latina, sotto il nome di Diana, ella fu assunta, insieme con Apollo, come protettrice di Roma.
Afrodite
La Venere dei Romani, dea della bellezza e dell'amore sensuale; figlia, secondo Omero di Giove e di Didone, sarebbe invece nata, secondo una leggenda più diffusa, e che trova giustificazione nell'etimologia greca del nome dalla schiuma, emergendo in tutto lo splendore della sua venustà e incomparabile grazia. Era rappresentata, cinto il corpo di rose e di mirto, velato il fiore della sua femminilità da una misteriosa cintura, tirato il carro da passeri, colombi e cigni, col giocondo corteggio del riso, dei giochi, dello zefiro, delle grazie e degli amorini. Appena nata, la portarono all'Olimpo, dove tutti gli dei furono conquistati dal suo fascino; un po' meno le dee, gelose di vedere offuscato il loro prestigio femminile, e sopra tutte, Giunone e Minerva, che le erano state riconosciute inferiori in bellezza nel famoso giudizio, da Paride, chiamato da Giove arbitro nell'ardua contesa sorta tra le tre dee per l'assegnazione della mela d'oro, gettata dalla dea discordia sulla mensa nuziale di Peleo e Teti, con l'insidiosa scritta: "alla più bella!". Dell'ambita preferenza assegnatale da Paride la dea lo ricompensò aiutandolo a conquistare l'amore di Elena. Dopo aver concepito, da un abbraccio con l'eroe troiano Anchise, il Pio Enea, dovette, per comando di Giove, sposare Vulcano, il deforme dio del fuoco, dal quale secondo la leggenda avrebbe avuto due figli: Eros o Cupido e Anteros. Ma Vulcano - al quale pare ella avrebbe dato un figlio, Priapo, re degli orti - dubitava della fedeltà di lei; ed un giorno sorpresala tra le braccia di Marte volle trarne allegra vendetta; circondato il letto dell'infedeltà d'una rete così ingegnosa che i due amanti vi rimasero accalappiati, li offrì in scandaloso spettacolo, a tutti gli dei accorsi al richiamo del marito tradito, che fu da loro deriso e schernito come meritava. Oltre Marte numerosi altri amanti furono attribuiti ad Afrodite: Dionisio o Bacco, che l'avrebbe resa madre delle grazie; ed Epafrodito. Ma il suo grande amore fu Àdone. All'antichissima, e certo più diffusa, tradizione di Afrodite terrestre e sensuale, fu col tempo contrapposta, sull'autorevole testimonianza del poeta Esiolo, l'altra celeste e spirituale, simbolo della forza animatrice della natura e benigna pròluba, e rappresentata con in mano lo scettro ed in fronte una stella.
Supposte figlie del dio fluviale Achelòo e della Musa Calliope. Esse adescavano col loro dolcissimo canto i naviganti, per farli, naufragare. La leggenda diceva bellissime e maestre nel suono del liuto, ma quando esse tentarono di sedurre gli Argonauti, Orfeo sarebbe entrato in gara con loro e le avrebbe fatte ammutolire. Quando Ulisse, coi suoi compagni, s'imbatté nelle Sirene, per sottrarli al pericoloso incanto della seduzione, seguendo il consiglio datogli da Circe, otturate con la cera le orecchie dei compagni, si fece da loro legare solidamente all'albero della nave; e così le Sirene. visto che le loro lusinghe non avevano sortito l'effetto desiderato, scomparvero, deluse, sotto le onde. Le Sirene erano raffigurate con la testa e il corpo di giovani donne sino alla cintola, e, nel resto, come uccelli, o pesci; con uno specchio in mano.
Detto anche Febo, cioè il dio raggiante, figlio di Giove e di Latona e fratello di Diana, sin dalla gio-vinezza, combatté, prima col gigante Tizio, uccidendo, poi col serpente Pitone, che pure uccise con le sue infallibili frecce, e della pelle del quale ricopri il tripode sul quale sedeva la Pitonessa, sua sacerdotessa. La sua divinità s'identificava col mito solare, secondo il quale, sopra un carro tirato da quattro cavalli, egli guidava il Sole per le vie del mondo. Apollo era raffigurato sotto l'aspetto d'un bellissimo giovane, armato d'un arco d'argento, la lira in una delle mani - a simboleggiare il suo supremo potere sulla poesia - il capo coronato d'alloro. Oltre che dio della poesia e conduttore e guida delle Muse, egli era ritenuto anche dio della musica: e quando Marsia, pastore della Frigia, osò sfidarlo in una gara di canto, Apollo, uscito naturalmente vincitore, appesolo ad un albero lo scorticò, vivo. Oltre ai quattro cavalli divini che erano aggiogati sul carro del Sole e che avevano nome Piròo, Eto, Eòo e Flegonte, la leggenda attribuiva ad Apollo anche il cavallo Pègaso dalle ali di cigno, il quale, per aver urtato con lo zoccolo una rupe, ne fece scaturire la famosa fonte d'Ippocrème, alla quale si abbeveravano i poeti in cerca d'ispirazione.
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