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ANALISI TESTUALE
I. Informazioni essenziali preliminari:
Autore Luigi Pirandello
Titolo L'esclusa
data di composizione
editore Mondadori
II. Lo scrittore:
cenni biografici La vita di Luigi Pirandello è l' «involontario soggiorno sulla terra» di un «figlio del caos», come egli stesso, scherzando, amava definirsi. Luigi Pirandello nacque ad Agrigento nel 1867 da don Stefano e da Caterina Ricci Gramitto. Il padre era di origine ligure, la madre era invece siciliana. Importanti furono gli anni dell'infanzia e della giovinezza: non solo per le prime esperienze culturali e per l'affiorare degli interessi per la letteratura e la poesia, ma anche per le esperienze umane e sociali(in un ambiente angusto condizionato da abitudini e convenzioni tradizionali)compiute in quei decenni di confusione politica e morale che seguirono all'unità d'Italia. Del 1885 sono i primi versi, ' Mal giocondo ', intrisi di una giovanile ed inquieta amarezza di diciottenne. Intraprese gli studi universitari alla facoltà di lettere di Palermo per passare poi a quella di Roma ,dove ebbe fra i maestri Ernesto Monaci, uno dei più grandi filologi del tempo. Per suggerimento del Monaci ,passò poi a studiare a Bonn, dove si fermò due anni laureandosi nel 1891,discutendo una tesi sulla parlata agrigentina 'Voci e suoni del dialetto di Girgenti'. A Bonn Pirandello ebbe insigni maestri: dal Bucheler, all'Usener, al Forster; ma soprattutto in quella città ,di respiro intellettuale europeo, ebbe modo di venire a contatto con le più stimolanti esperienze della cultura contemporanea. In quel tempo egli non aveva ancora una chiara idea delle proprie attitudini e del proprio futuro: oscillava tra le ambizioni della ricerca scientifica e quelle poetiche, e non era insensibile alle tentazioni del giornalismo. Tornato a Roma tentò di inserirsi nella vivace società letteraria che in quello scorcio di secolo illustrava la capitale. Dominava D'Annunzio; ma Pirandello non fu sedotto dalle suggestioni del dannunzianesimo, anche se ne risentì qualche influenza ( Elegie renane, pubblicate nel 1895 ). Decisivo fu invece l'incontro con Luigi Capuana, il teorico e maestro del verismo italiano. A contatto con Capuana, Pirandello scopre e definisce la propria vocazione di narratore; avvicinandosi alla grande esperienza del verismo. Nel 1893 scrive il suo primo romanzo ' L'esclusa ' e nel 1894 pubblica il primo volume di racconti 'Amori senza amore '. Nello stesso anno sposa la bella e ricca Antonietta Portulano, pure lei agrigentina. Ma la vita avrebbe riservato prove molto dure e amare ai due coniugi: nel 1897 un grave dissesto economico costringe la famiglia Pirandello a trasferirsi a Roma, dove Luigi insegna letteratura italiana all'Istituto Superiore di Magistero. Nell'ambiente romano, Pirandello prende consapevolezza del suo pensiero, soprattutto nel corso di una polemica antidannunziana, che si svolse nelle riviste il ' Marzocco ' e ' La nuova antologia '.Intanto, nel 1903, cominciano ad apparire i primi sintomi del male che avrebbe afflitto la povera consorte distruggendo la felicità della famiglia Pirandello.Lo scoppio della grande guerra del1914-18 e la prigionia del figlio Stefano ferito ed ammalato, avevano contribuito ad affliggere maggiormente lo scrittore, che già attraverso l'amara esperienza del dolore aveva consolidato la sua triste concezione del vivere nel mondo. Finita la guerra, Pirandello si immerse in un lavoro frenetico e senza soste, spinto dall'urgenza di insegnare agli uomini le 'verità' da lui scoperte. Nascono i capolavori 'Sei personaggi in cerca d'autore' ed ' Enrico IV ',entrambi del 1921. Nel 1925 fonda la ' Compagnia del teatro d'arte' con i due grandissimi ed insuperati interpreti dell'arte pirandelliana: Marta Abba e Ruggero Ruggeri, con i quali intraprende il giro d'Europa e delle due Americhe, mentre dappertutto crescono i consensi alla sua opera e la sua fama si leva altissima, consacrata nel 1934 dal premio Nobel. Nel novembre del 1936 si ammala gravemente di polmonite e poco dopo muore.
le opere Luigi Pirandello esordisce come poeta con Mal giocondo (1889) e con Pasqua di Gea (1891). Fu Luigi Capuana a spingerlo verso la narrativa, compone così le prime novelle e il suo primo romanzo, uscito nel 1901 con il titolo L'esclusa. Non abbandona tuttavia la poesia: escono nel '95 le Elegie renane, nel 1901 Zampogna, e nel 1912 Fuori di chiave, la sua ultima raccolta poetica. Nel 1904 Il fu Mattia Pascal , pubblicato a puntate sulla «Nuova Antologia», riscuote un successo tale che uno dei più importanti editori del tempo, Emilio Treves di Milano, decide di occuparsi della pubblicazione delle sue opere. Nel 1908 pubblica due volumi saggistici Arte e scienza e L'Umorismo, grazie ai quali ottiene la nomina a professore universitario di ruolo. Nel 1909 inizia la sua collaborazione, che durerà fino alla morte, al «Corriere della Sera», su cui appaiono via via le sue novelle; e pubblica la prima parte del romanzo I vecchi e i giovani (la seconda esce in volume nel 1913). Nel 1911 esce il romanzo Suo marito. Scrive anche alcuni soggetti cinematografici, mai realizzati; mentre nel 1915 pubblicherà il romanzo Si gira Nel 1915-'16 inizia la sua prodigiosa e intensa attività teatrale, che darà vita a dibattiti e discussioni in Italia e all'estero. Proprio negli anni della grande guerra, (vissuti drammaticamente anche per la perdita della madre e per la partenza dei figli per il fronte), scrive alcune celebri opere: Pensaci Giacomino!, Liolà (1916), Così è (se vi pare), Il berretto a sonagli, Il piacere dell'onestà (1917), Ma non è una cosa seria e Il gioco delle parti (1918). Nel 1918 esce il primo volume delle Maschere nude, titolo sotto cui raccoglie i suoi molteplici testi teatrali. Nel 1920 il teatro pirandelliano con Tutto per bene e Come prima, meglio di prima, si afferma pienamente, e a partire dall'anno successivo raggiunge il grande successo internazionale con il capolavoro Sei personaggi in cerca d'autore. Nel 1922 esce il primo volume della raccolta Novelle per un anno presso l'editore Bemporad. La sua produzione teatrale prosegue con Enrico IV e Vestire gli ignudi (1922), L'uomo dal fiore in bocca (1923), Ciascuno a suo modo (1924), Questa sera si recita a soggetto (1930). Nel 1926 esce in volume il romanzo Uno, nessuno e centomila, ultimo romanzo.
tipo di attività scrittore di professione
III. Il narratore:
È esterno alla storia poiché utilizza la terza persona. ( es. Le quattro povere donne non compresero).
IV. Il destinatario:
Questo romanzo del Pirandello e rivolto ad un pubblico adulto, più precisamente a un pubblico attento nella lettura, infatti per comprendere in pieno il significato si deve leggere tra le righe il messaggio che l'autore vuole mandarci.
V. Struttura del testo:
definire l'intreccio o trama,facendone un breve riassunto:
Parte I
Capitolo I
Antonio Pentàgora seduto a tavola attendeva, insieme alla sorella Sidora e al figlio minore Niccolino, il ritorno del figlio maggiore Rocco. La stanza in cui stavano era tetra, lungo le pareti basse e ingiallite, erano appoggiate due interminabili file di sedie, quasi tutte scompagne.
Dopo un'attesa che pareva interminabile, nella quale nessuno disse una parola, Rocco apparve sulla soglia, cupo e disfatto. Era un uomo molto alto, dai pochi capelli biondi, molto bello, ma quel giorno aveva gli occhi smarriti ed era scuro in volto, stette per un po' sulla porta a fissare i tre seduti a tavola, poi si buttò sulla prima seggiola.
Nel frattempo il padre gli rivolse un saluto, a tratti ironico, forse per rompere il silenzio che ormai nella stanza si era fatto pesante. I tre avevano già cenato, e il padre invitò il figlio a sedere a tavola per mangiare qualcosa e ordinò alla serva di servirgli la cena. Rocco spiegò che non aveva appetito e da quel momento uno strano silenzio avvolse la stanza, nessuno osò rompere quell'atmosfera di pena e rispetto nei confronti del primogenito del sig. Pentàgora, se non la povera serva che stava portando la cena come gli era stato ordinato e che però dovette riportare subito in cucina.
A quel punto il sig. Pentàgora si rivolse al figlio in tono paterno dicendo che lui l'aveva predetto il giorno del matrimonio, poi iniziò a ricordare quando trent'anni addietro anche lui era tornato a casa di suo padre dopo il tradimento di sua moglie e sua sorella lo aveva condotto in silenzio nella sua camera da scapolo come a dimostrargli che si aspettava di vederselo tornare da un giorno all'atro tradito e pentito in una situazione quasi uguale a quella che stava vivendo il figlio.
Il padre sottolineò di nuovo la sua previsione, ma stavolta Rocco ebbe una reazione diversa rispose con poco garbo al padre, che fece finta di non aver sentito, ma Rocco molto irritato per la spiacevole situazione in cui si trovava alzò di nuovo la voce contro il padre, questi allora alzo la voce più del figlio spiegandogli che lui non poteva farci niente che doveva pensarci prima. Dopo questa piccola discussione il sig. Pentàgora tornò calmo e si accorse che il figlio aveva un taglio sulla fronte che sino a quel momento era stato coperto dal cappello che il figlio portava quasi sugli occhi e ordino che fosse subito disinfettata con acqua e aceto. A quest'ennesima premura il figlio minacciò il padre di andare via, ma il padre sicuro di sé gli rispose di fare pure con comodo e di andare e a quel punto si alzò e fece per andare a letto. Il figlio si sentiva ignorato per la prima volta da quando si trovava lì, allora il padre soddisfatto per il risultato ottenuto riprese, il discorso legato al suo matrimonio finito esattamente come quello del figlio. Spiegò al giovane Rocco, che camminava su e giù con fare afflitto per la stanza, che le "corna" erano, purtroppo uno stemma di famiglia. Poi rivolgendosi al figlio più piccolo disse ridendo di pensarci prima di fare il grande passo del matrimonio, e dopo una risposta un u po' sciocca di Niccolino prese una candela e andò a letto. I due fratelli rimasero soli, Rocco aprì la finestra e si mise guardare fuori a lungo, pensava che era tornato scapolo e da tale quella notte avrebbe dormito da solo nella sua cameretta nuda, poi pensò a cosa avrebbe il giorno seguente quando tutto il paese avrebbe saputo che aveva cacciato di casa la moglie infedele. Con lo sguardo ancora perso nel vuoto chiese cosa doveva fare, il fratello con assoluta calma gli rispose di andare da Bill e di fare un duello. Dalla chiesa giunsero i rintocchi della mezzanotte. Rocco raccolse il capello dal pavimento e andò.
Capitolo II
Mentre saliva le scale Rocco pensava se bussare alla porta dell'Inglese (Bill) o a quella del professor Blandino, entrambi vivevano in un palazzo del padre costruito un po' fuori mano e per questo sempre sfitto. Luca Blandino era professore di filosofia al liceo, alto magro, persona molto singolare nota in paese per le incredibili distrazioni di mente a cui andava soggetto, assorto di continuo nelle sue meditazioni non si curava più di nulla e di nessuno, se non di coloro che avevano in qualche modo saputo impressionarlo. Un uomo non meno singolare era il Madden, detto Bill, professore anche lui,ma privato di lingue straniere. Capelli aurei finissimi, il naso adunco, gli occhi grigio-azzurri e le vene delle tempie sempre sporgenti e grazie alla sua naturale agilità nelle ore d'ozio dava lezioni di scherma, ma senza alcuna pretesa. Era proprio solo in quel paese della Sicilia, nessuna lettera mai della patria, l'Irlanda. Rocco, come Niccolino aveva supposto, lo trovò sveglio, la casa tutta in disordine, a bere una birra di pessima qualità. Con dialogo molto breve Rocco spiegò a Bill che aveva avuto una lite e che voleva fare un duello e dal momento che non sapeva niente di scherma gli chiedeva delle lezioni. Bill staccò dal muro due sciabole arrugginite e prese ad insegnare a Rocco le mosse di base. Alcuni colpi dal pavimento li interruppero, avevano svegliato il professor Luca, Rocco assicurò a Bill che avrebbe parlato lui con Blandino. L'Inglese lo accompagno alla porta e attese sulla soglia sino a che Blandino non ebbe fatto entrare Rocco. Il professore fece entrare il giovane un po' di malavoglia, questi una volta entrato gli spiegò in lacrime la situazione: i tradimenti della moglie, la lettera di Gregorio Alvignani, la lite e la separazione. Rocco chiarì al professore, tutti i minimi particolari dell'Alvignani che lanciava le lettere dalla finestra come un ragazzino, del suo ingresso nella stanza proprio mentre sua moglie leggeva una di quelle lettere. Il professor Blandino, assicuratosi di chi fosse figlia la moglie di Rocco, costatò che da quella lite sarebbe nato un macello, ma il giovane marito con la mente offuscata dell'ira pensava solo al suo onore e alla figura che avrebbe fatto dinnanzi al paese. Era tardi e il professore disse a Rocco che n'avrebbero parlato con calma il giorno seguente. Il giovane marito sentì la porta chiudersi alle sue spalle, nel buio di quel pianerottolo si sentiva smarrito, iniziò a piangere. Nel buio estrasse dalla tasca la lettera incriminata e per riuscire a leggerla accese un fiammifero, mentre leggeva bestemmiava sempre piangendo. Poi prese a ricordare la scena in cui le aveva trovato la lettera e aveva cacciato la moglie a spintoni e percosse per nulla curante della maternità incipiente. Poi l'altra scena, quella col suocero: era andato a mostrargli le lettere, ma lui gli aveva risposto che in fondo erano, solo lettere e che così rovinava due famiglie la sua e quella di Marta. Il suocero, gli chiese, inoltre, di perdonare la giovane donna, ma a quel punto Rocco gli, chiese se egli, al suo posto, l'avrebbe perdonata e quando questi non seppe rispondergli se ne andò più irato di prima. Immerso nel buio tornò a fissare la lettera e la formula scritta alla fine:
NIHIL - MIHI - CONSCIO
continuava a domandarsi cosa avesse voluto dire.
Capitolo III
La giovane Marta scacciata dal marito aveva trovato rifugio nella casa paterna, sua madre Agata Ajala, era una donna corpulenta, ma i sia la sua voce sia i suoi occhi erano dolcissimi, costei entrando nella cucina trovò le sue due figlie: Maria la più piccola seduta su una sedia e Marta la più grande abbandonata in lagrime sulla spalliera. Le figlie annunciarono con tono mortificato alla madre l'amara decisione del padre che non solo non perdonava la figlia, ma voleva lasciare la città per il disonore a quel punto Marta, sconcertata, chiese alla madre di andare dal padre per fargli cambiare idea, la madre comprensiva la strinse a se e le promise che avrebbe parlato lei con suo padre. Come promesso la sig.ra Agata uscì per andare a parlare col marito, la strada era deserta, e a pochi passi dalla loro casa sorgeva la vasta conceria di cui Francesco Ajala era il proprietario, davanti alla porta tremò all'idea di affrontare l'ira e il dolore del marito. Secondo la saggia donna due erano le sciagure: quella di Marta con un po' di calma dopo un po' di tempo si sarebbe risolta, ma con il padre non si ragionava!! Da parecchio tempo la sig.ra Agata aveva imparato a misurare ogni sentimento ma non per se stessa, quanto per le reazioni che questi avrebbero potuto suscitare nel marito. In tanti anni lo aveva visto andare su tutte le furie per ogni minima banalità, tuttavia col tempo lei era riuscita a calmarlo, perdonandogli torti talvolta anche gravi, ma senza venir mai meno alla sua dignità. Nonostante tutto ciò bastava niente per farlo scattare selvaggiamente e anche se magari subito dopo se ne pentiva non aveva il coraggiosi ammetterlo. Era tanto orgoglioso che si sentiva estraneo in casa sua e diffidava di tutti, la moglie per prima, credeva che tutti gli nascondessero qualcosa. La moglie soffriva per questore dispiaceva che nell'animo del marito fossero impressi due falsi concetti di lei: uno di malizia, l'altro d'ipocrisia. In quel tetro momento era convinta che nell'ira suo marito le avrebbe rinfacciato tutte le lievi concessioni che con la dolcezza aveva ottenuto in tanti anni. Ella attese a capo chino che lui l'aprisse dopo averla umiliata dal balcone trattandola come un sconosciuta, lui l'aprì e subito le prese il braccio strattonandola violentemente, bestemmiando rinnegava tutta la sua famiglia. La sig.ra Agata continuava a piangere disperatamente e continuando a singhiozzare chiese a suo marito se avesse veramente intenzione di partire e per quanto tempo stava via. Lui urlando le rispose che non avrebbe mai più potuto mettere piede in quel paese che il giorno seguente avrebbe sicuramente sparlato di lui, disse che aveva deciso di andare alla ricerca dell'Alvignani che aveva rovinato la sua famiglia e soprattutto la sua reputazione d'uomo rispettato da tutti. La donna allora gli disse che magari si sarebbe potuto evitare lo scandalo, ma suo marito le urlò contro che il genero era stato da lui e lui stesso aveva veduto quelle lettere prova della colpevolezza delle figlia. Allora la donna messa con le spalle al muro, si prese tutte le colpe accusando se stessa di aver avuto fretta di vedere maritata la loro figlia. Cupo in volto il sig. Ajala ruppe il silenzio dicendo che dal momento l'errore poteva essere stato loro sarebbe tornato a casa che però sarebbe divenuta da quel momento la loro prigione. Mentre tornavano a casa disse alla moglie con tono minaccioso che non voleva vedere la figlia che aveva rovinato la sua vita per nessun motivo e che era compito suo fare in modo che non la vedesse. Arrivati a casa entrò dopo la moglie e andò diritto in camera da letto, tendeva l'orecchio nella ricerca di qualche rumore, ma in casa tutto taceva e pur di certo nessuno dormiva. Rimase tutta notte disteso sul letto ad ascoltare. Lento arrivò il giorno; dalla strada iniziarono ad arrivare i rumori consueti della gente nelle botteghe dei carri per strada. Balzò dal letto, quasi per correre da Marta afferrarla per i capelli e percuoterla a sangue, poi sentì picchiare timidamente bussare alla porta della camera: era sua moglie venuta a domandargli se aveva bisogno di qualcosa, ma lui rispose a malo modo che non bisognava di nulla e che voleva essere lasciato solo. Pensò a lungo a sua figlia a quello che faceva, diceva e pensava. Il pensiero di lei, la curiosità di vederla, il bisogno quasi di sentirla piangere tutta tremante sotto gli occhi suoi, senza concederle il perdono supplicato in ginocchio, lo tennero tra le smanie tutto il giorno. Verso sera acconsentì alla figlia minore di entrare nella camera nel buio di quella camera si ricordò che la sua preferita era sempre stata Marta, Maria aveva sempre recitato la parte della controfigura, cresciuta nell'ombra della sorella maggiore sicuramente più bella e intelligente. A quel punto prese la figlia e la strinse forte a se, piansero insieme poi ordinò alla figlia di andarsene, lei con la sua solita grazia obbedì e uscì dalla stanza.
Capitolo IV
Maria aveva ceduto a Marta la cameretta in cui dormiva da ragazza, nulla era cambiato in quella stanza, nulla di suo ci aveva messo Maria in quei due anni. In quella camera Marta si domandava se era davvero innocente, si tormentava di domande sullo scandalo accaduto la notte prima. Tornata lucida non le pareva neanche ammissibile che qualcuno avesse potuto crederci sul serio, tutta la sua colpa stava nel non aver saputo respingere dovere le lettere dell'Alvignani, gli aveva ingenuamente risposto, ma non credeva di aver commesso nessuna mancanza nei confronti del gelosissimo marito. Sapeva bene di aver letto solo le parti filosofiche delle lettere, tralasciando totalmente le altre parti, delle frasi d'amore non s'era curata, n'aveva addirittura riso, tra lei e l'Alvignani si era instaurata una corrispondenza puramente filosofica e letteraria, durata circa tre mesi, di cui forse s'era un po' compiaciuta nelle lunge ore d'ozio, lasciata sola dal marito. Quando scriveva le sue lettere sceglieva con cura le frasi, quasi orgogliosa di quel segreto duello intellettuale con un uomo come l'Alvignani, avvocato di grido, persona rispettata da tutta la città che si preparava ad eleggerlo deputato. L'irruzione del marito mentre lei leggeva la prima lettera in cui, il futuro deputato, s'arrischiava a darle del "tu", la scenata violenta che ne nacque nonostante lei la leggesse con calma e indifferenza, innocenza diceva lei. Ad ogni donna, che aveva avuto in dono un po' di grazia, era capitato almeno una volta di sentirsi osservata con una strana insistenza da qualcuno e compiacere del proprio fascino. Ora a nessuna donna sarebbe parso, in quell'istante di compiacimento, di mancare di rispetto al marito. Senza volerlo, senza sapere precisamente in che modo s'era trovata persa e intricata in un intrigo che lei non aveva voluto, ma che non aveva nemmeno cercato di respingere. Tutto era iniziato dalla prima lettera, la sua timorosa risposta poi, la paura di seguitare a quella clandestina corrispondenza. Per sfuggire a quella persecuzione a cui non sapeva porre fine, si rifugiava sere intere nella casa paterna, costringendo la sorella a sonare per lei e quando in quelle sere la madre le chiedeva del marito, se fosse contenta della vita che faceva con questi, lei per non darle un dispiacere mentiva spudoratamente. Le mentiva non perché il marito le faceva mancare qualcosa, no tutt'altro la sua era, un'ostilità nata al principio quando a sedici anni ancora fresca di studi aveva visto presentarsi Rocco Pentàgora come suo futuro sposo, e da anni ricacciava dentro quel sentimento d'oppressione che di lì era nato. Qua e là le pareti di quella camera serbavano le scritte da lei fatte in gioventù, ricordi certo: scritte di meritati trionfi scolastici d'ingenue feste tra amiche. Osservava con attenzione quegli oggetti semplici e cari e le pareva che il tempo si fosse fermato, e lei col pensiero si rifugiava nella sua adolescenza. Maria osservava Marta, quasi offesa da quella calma, dall'apparente indifferenza con cui la sorella affrontava la disgrazia che si abbatteva su di lei e sulla loro casa. Avrebbe voluto vederla piangere ininterrottamente, come i primi giorni che era arrivata, umile, desolata, vinta nel suo dolore profondo dispiacere. Marta però non piangeva più, dopo che aveva raccontato tutto a sua madre, sino a più intimi pensieri e desideri, aveva sperato, che se non il marito, almeno il padre le rendesse giustizia e si rimovesse da quel proposito di non uscire più di casa, che era per lei un castigo ben più grande di quello inflittogli dal marito. Egli, suo padre con quel comportamento, confermava le accuse avanzate nei suoi confronti, infamandola irrimediabilmente. Aveva affidato ancora una volta alla madre il difficile compito di fare da tramite, riferendo al sig. Ajala, ormai recluso in camera da letto, tutti i particolari della confessione di Marta, ma il padre testardo più che mai non accondiscese a lasciare la sua prigione. Da quel momento Marta non verso più una lagrima, anzi si chiuse in un distacco, fatto di freddo disprezzo per quelle due donne che appena le credevano e si preoccupavano più per l'uomo che finì di coprirla d'infedeltà, che per lei giovane donna gravida accusata di una colpa non commessa. Nessuno aveva fatto più visita alla famiglia Ajala, e la stessa famigliola si era ritirate nelle stanze più remote da quella in cui il capofamiglia si era rinchiuso. Nessuna voce, nessun rumore, giungevano agli orecchi di lui. Un giorno la moglie osò ricordargli della sua conceria, lui secco rispose che sarebbe morto di fame piuttosto che lasciare quella stanza, poi calmatosi le disse di chiamare a suo cospetto il nipote indiretto, Paolo Sistri avrebbe affidato a lui la direzione della conceria. Da questi le tre donne appresero le prodezze di Rocco Pentàgora, che era partito la mattina seguente allo scandalo verso Palermo, alla ricerca dell'Alvignani che dapprima aveva respinto il duello, ma pubblicamente offeso accettò la sfida ferendo Rocco in volto. Il giovane era tornato da Palermo con una donnaccia, che aveva condotto nella casa coniugale e l'aveva costretta a indossare le vesti di Marta e così conciata l'aveva condotta a passeggio per tutto il paese. Marta fremeva per lo sdegno e la rabbia, ma poiché neppure suo padre le credeva era nella totale impotenza.
Capitolo V
Paolo Sistri veniva ogni sera a casa Ajala per far approvare allo zio il rapporto giornaliero del lavoro della conceria. Ogni sera quando usciva dalla stanza del recluso alla zia e alla cugina che attendevano ansiose fuori della stanza, riferiva scuotendo la testa che il sig. Ajala aveva approvato il suo resoconto, ma dell'approvazione non era né convinto ne soddisfatto, come se lo zio lo lodasse per beffa. Con particolare oppressione le peripezie ella giornata, la zia mostrava di ascoltarlo con attenzione e molto spesso lo invitava a rimanere a cena con loro, lui accettava quasi sempre. Marta osservava tutto con un'espressione di estraneità, come se tutti credessero veramente alla sua colpevolezza, talvolta abbandonava la tavola per andare a rinchiudersi, anche lei, in camera sua. Pensava con una punta di rimorso a tutti i suoi errori, ma subito il rimorso si trasformava in odio verso il marito e intanto il frutto di quell'uomo maturava dentro di lei, presto sarebbe stata la madre del figlio di quell'essere per lei tanto spregevole. Quando ci pensava aveva delle crisi isteriche di rabbia mista a voglia di rivincita. Talvolta dopo cena, Maria andava ad origliare dietro la porta del padre, non sentiva niente al di fuori del suo respiro, al suo ritorno trovava la madre immersa nella disperazione e intenta a finire il coordinato per il nascituro. Nessuno ci aveva pensato al di fuori di una vecchia amica della sig.ra Agata, con la quale per ordine del marito aveva interrotto ogni relazione. L'aveva conosciuta che era molto giovane, quando ancora Anna Veronica, con il suo lavoro di maestria elementare, provvedeva al sostentamento della madre malata. Costei da ragazza era inciampata in un errore per molti imperdonabile, poiché dopo la morte della madre si era concessa a un giovane molto ricco, la cui famiglia aveva evitato lo scandalo, in quei momenti poche amiche le rimasero fedeli, tra queste Agata Ajala da poco sposata. Tuttavia quando Anna Veronica rimase incinta di un giovane, in precario stato di salute che da molto tempo le correva dietro e che poi sparì misteriosamente, lo scandalo fu inevitabile e Francesco Ajala proibì alla moglie di vedere l'amica nonostante il figlio fosse nato morto. La sig.ra Agata vedeva spesso in chiesa Anna Veronica che emarginata dalla comunità aveva invocato il perdono del signore. Quando avvenne lo scandalo di Marta, Anna Veronica che sapeva lo stato di incombente maternità della giovane si accostò ad Agata, a messa conclusa, e le mise tra le mani un fagottino per la figlia. Nel pacchettino la madre di Marta trovò dei bavaglini ricamati e delle tutine per il nascituro. Delle molte amiche che contava nessuna le rimase fedele dopo lo scandalo, ma in compenso quella vecchia amicizia, veramente sincera, si riallacciava ora quasi furtivamente. Ora che il marito di Agata era rinchiuso l'amica la veniva a trovare aiutandola a preparare il corredo per la povera creatura che di quella situazione non aveva nessuna colpa. Intanto il giovane Paolo, un tempo innamorato, di Marta ora andava a visitarle solo per fargli i resoconti della giornata; raccontava dell'Alvignani che aveva posato la sua candidatura e di come i Pentàgora spendessero un sacco di soldi per combatterlo, e ad ascoltarlo per non dargli dispiacere toccava a Maria, e Marta la scherniva dicendole che il lontano cugino si era innamorato di lei! E in preda a una crisi bestemmiò contro il marito, contro la gente e contro il padre che non aveva saputo renderle giustizia.
Capitolo VI
Marta passava spesso le sue lunghe e vuote giornate a fissare gli oggetti, tentando di dare un significato alla loro disposizione, così passavano i giorni della triste attesa. Finalmente una mattina poco prima di mezzo giorno sopravennero le doglie. Gelata e tutta bagnata di sudore vagava per la stanza e guardava con terrore la vecchia levatrice e la sua assistente che preparavano il letto e le davano fastidiosi consigli. Intanto, a insaputa della giovane, un medico chiamato dalla levatrice, preparava con cura su un tavolino i suoi arnesi da chirurgo. I dolori si facevano insopportabili e Marta si stringeva alla madre che più di tutte le stava vicino, infatti Maria e Anna Veronica si erano ritirate in una stanza prossima a quella del padre. In preda a una crisi per il dolore la giovane partoriente andò a sbattere contro la porta del padre e pregandolo di non lasciarla morire di dolore senza averla perdonata. Le donne la presero di peso e la trascinarono, in sala travaglio dove la adagiarono sfinita sui cuscini morbidi. Poco dopo entrò in sala travaglio Maria, bianca in volto chiamò la madre, era di ritorno dalla porta del padre. La donna la seguì attraverso i corridoi e giunte dinnanzi alla porta si fermò ad ascoltare, da dietro la porta veniva uno strano rantolio come un cane che caricava. La donna preoccupata chiamò il marito ma invano, allora sfondò la porta a spallate. Le donne trovarono il sig. Ajala steso a terra, al loro urlo seguì un urlo straziante di dolore proveniente dalla camera di Marta. Accorsero anche Anna Veronica e il medico, il corpo di Francesco Ajala fu delicatamente riposto sul letto, e il medico mandò la serva nella prima farmacia. Maria asciugava la fronte del padre, la madre era quasi impazzita e pregava il Signore. Accorse un altro medico per tentare l'impossibile, un urlo proveniente dalla stanza di Marta fece versare al sig. Ajala un lacrima. Solo verso sera Agata tornò in camera della figlia, entrando fu colpita dell'odore di aceto e ammoniaca, il parto era avvenuto, Marta giaceva immobile sul letto, in preda a un'emorragia che durava ormai da alcune ore. Il bimbo era nella stanza attigua, nato morto assomigliava più a un mostricciatolo che a un bambino. Dalla strada arrivava un rumore di preghiere, la sig.ra Agata corse alla porta e fece entrare il parroco che diede l'estrema unzione a Francesco Ajala, questi subito dopo averla ricevuta spirò. A sera mentre le donne dicevano il rosario dalla strada venne un rumore di schiamazzi e di gente in festa: Gregorio Alvignani era stato eletto deputato.
Capitolo VII
Marta stette per circa tre mesi la vita e la morte, provvidenza divina diceva Anna Veronica, senza Marta da accudire Maria e sua madre sarebbero certo impazzite dopo la prematura ed improvvisa morte del capofamiglia. Quando Marta stette un po' meglio Anna Veronica le portò immagini benedette di santi, e fece un voto ai patroni del paese per la guarigione della ragazza. Ogni sera si riunivano tutte e quattro nella camera di Marta per recitare il rosario. La sera e il buio custodivano i più intimi pensieri della ragazza, Marta pensava ogni sera alla stessa cosa: a suo padre che se n'era andato in una di quelle stanze ora buie, egli fu un peso per lei, ma a qual prezzo se n'era liberata? Pregava spesso, dentro di se, per la sua anima e talvolta si addormentava con la preghiera sulle labbra. La madre le stava sempre vicino, era preoccupata e abbattuta non solo per la recente perdita del marito, ma anche per il nipote Paolo Sistri a cui ora, era affidata la sorte della famiglia.
Paolo dopo la disgrazia non andava più puntualmente a trovare sua zia che lo doveva mandare a chiamare per avare un resoconto del suo lavoro, lui arrivava ogni volta più abbattuto, sino a che un giorno, arrivò con la testa tutta fasciata, e disse che il metodo di concia che utilizzavano era arcaico e che doveva essere cambiato, ma il fragile cuore della zia non resse quest'insulto all'anima del marito, e così cacciò suo nipote, che però continuò a dirigere la conceria, dal momento che le donne non avevano nessuno all'infuori di quel giovane. Una sera la zia cedette alle suppliche e diede ragione al suo giovane nipote che stava sveglio tutta la notte a cercare di compiere il lavoro che gli era stato assegnato, ma questo la zia non lo sapeva, si era addirittura accampato definitivamente nella conceria, vi mangiava, vi dormiva, nell'ufficio che poco tempo prima era stato di Francesco Ajala. Era stato chiamato a difendere gli interessi della povera vedova, lui ce la metteva tutta, ma le vendite scemavano ogni giorno di più e i debiti aumentavano. La zia, ignara di tutto, era solita chiedergli ogni mese la somma che chiedeva nei tempi addietro, come se gli affari andassero bene come allora, e il nipote che non trovava il coraggio di esporgli il miserevole stato delle cose si curava che ogni mese ci fossero almeno i soldi da dare alla povera zia. Intanto Marta aveva iniziato ad alzarsi dal letto, arrivava fino alla poltrona sotto la finestra, dove ogni giorno Anna Veronica le raccontava della messa, era il mese di maggio, il mese consacrato alla Madonna, e la cara amica prometteva alla ragazza che prima della fine del mese sarebbe riuscita ad andare a messa almeno una volta, Marta non voleva crederci stava ancora troppo male. La terza domenica del mese, Anna accorse vociando gioiosa, la sorte aveva voluto che quell'anno la statua della Madonna fosse portata in processione a casa di Marta. Entrò nella stanza un commissiona di fanciulle sorridenti, e dietro a loro il parroco che portava la statuetta in cera dentro la campana di cristallo. E veramente prima della fine del mese poté recarsi i chiesa a ringraziare la Madonna.
Capitolo VIII
Dopo un po' di tempo, rimessasi completamente Marta si recò in chiesa per confessarsi, inginocchiata su un lapide, di chissà quale anima, aspettava il suo turno al confessionale, la chiesa semi deserta, Marta osservava un vecchio contadino inginocchiato poco lontano, assorto nella preghiera con le mani e il viso totalmente usurati dal tempo e dalle privazioni. Marta era andata in chiesa su consiglio di Anna Veronica, ma in quella attesa, così inginocchiata, come una mendicante, iniziava ad avere di sé una penosissima immagine. Anna era caduta veramente nel peccato, per questo aveva trovato nella fede unico conforto, ma lei era sicura di non aver fatto nulla di male, aveva la coscienza apposto. Lei che non sarebbe mai venuta a meno dei suoi doveri di moglie, non perché ritenesse degno di questo rispetto suo marito, ma perché non considerava degno di lei il tradirlo. Pensava che la gente, vedendola ora così umile, pensasse che anche lei come Anna fosse caduta nel tranello e ora chiedeva umilmente perdono a Dio. Si era lasciata convincere da Anna a venire in chiesa, non perché aveva bisogno del perdono per essere stata infedele, ma bensì per confessarsi da buona cristiana, visto che la malattia glielo aveva impedito per lungo tempo. Pensava a ciò che avrebbe detto al confessore, era sicura che lui gli avrebbe risposto di accettare con amore tutti i castighi, come se imporglieli fosse stato il Signore. Marta sollevò lo sguardo, vide la chiesa e si sentì d'un tratto estranea, a quell'edificio che traboccava d'una calma alla ragazza così innaturale, come un sogno di pace che ora si dissolveva dinnanzi alla realtà del suo spirito ferito e insultato da tutti. Ad un tratto si alzò, senti le gambe cedere sotto il suo peso, barcollò e si diresse verso l'uscita, vide ancora l'uomo genuflesso a pregare, portò la sua immagine negli occhi sino a casa. Pensava che per credere ci voleva quel tipo di fede, la stessa che aveva Anna Veronica, ma lei non poteva averla, non lei, non ne sarebbe stata capace, non poteva, non voleva perdonare. Il suo cervello per quanto ella lo volesse non riusciva più a formulare alcun pensiero capace di provocare il lei la minima sensazione di felicità o distensione, viveva nell'angoscia aveva la sensazione che qualcos'altro di orribile dovesse capitarle di lì a poco, e intanto non le riusciva più neanche di piangere, di lacrime ne aveva versate troppe!!! La sua ossessione era il "fatto" che le opprimeva il cuore, ma, poiché non lo aveva commesso, le risultava inconsistente nella coscienza. Si sentiva diversa e allo stesso tempo la stessa dopo quel "fatto", a volte le pareva fosse accaduto davvero, a volte le pareva inconcepibile solo il pensarci, e talvolta era incapace di provare qualsiasi sentimento, non provava neppure odio per il marito. Tornare in chiesa non aveva più senso, per lei la preghiera era solo un vano agitarsi delle labbra, e si stupiva quando a messa vedeva le sue vicine piangere lacrime vere, lei invece era lì, come una statua estranea al mondo che una volta era stato anche il suo, ancora un volta insensibile a tutto ciò che la circondava. Per sottrarsi ai vaneggiamenti del suo stesso spirito, decise di rimettersi a studiare o almeno a leggere, aprì un libro del collegio ed ecco apparire nella sua mente, come per incanto, tutti i ricordi di quegli anni: la scuola, la classe i i professori, la direttrice, le compagne, la sua migliore amica: Mita Lumìa. Ad un tratto pensò all'incredibile distanza che ora si era creata tra lei e quella che un tempo era stata la sua migliore amica. Pensava al perché non aveva proseguito negli studi, di certo in quel non sarebbe stata in quella situazione. Pensava a tutte le lodi che le facevano i professori, poi d'un tratto si ricordò delle lodi che un'altra persona le aveva rivolto: l'Alvignani nelle sue lettere l'aveva definita "un a donna colta e intelligente" con lui aveva discusso del ruolo della donna nella società, e d'un tratto si immaginava a Roma lei mogie dell'Alvignani, in un ambiente piene di luce intellettuale e lontana da tutto quel fango. Chinava il capo sui libri animata dall'antico fervore, tentando, con lo studio, di fuggire da quella orrenda realtà, in cui la società l'aveva confinata. Ormai di ciò che avveniva in famiglia non sapeva più nulla, da un po' di tempo, però aveva la strana sensazione che la madre e la sorella le nascondessero qualcosa. Un giorno, uscendo di chiesa, un bambino miseramente conciato le chiese la carità, Marta per pietà lo portò a casa, ma al suo arrivò la madre le disse che purtroppo non ne avevano neanche per loro dal momento che Paolo era sparito e alla conceria avevano posto i sigilli, la madre uscì di corsa: doveva andare dall'avvocato.
Capitolo IX
All'alba del giorno dopo furono svegliate di soprasalto da uno frastuono indiavolato giù per la strada: grida scomposte, fischi che salivano al cielo.
Erano i pescatori, quello era il giorno di festa dei Santi Patroni del paese, come ogni anno arrivavano in paese i così detti pescatori: gente che viveva in prossimità della costa dedita non soltanto alla pesca, a loro era riservato per antica tradizione l'onore di portare in trionfo per il paese le statue de i due santi, che proprio in mare avevano sofferto il loro primo martirio. Così tutti si affacciavano alle finestre con i visi ancora pieni di sonno, a nessuna delle tre donne venne l'idea di alzarsi dal letto, a tutte però torno alla mente l'immagine di quegli energumeni vestiti di bianco in mutande a maglietta, scalzi, con una fascia rossa alla vita e un fazzoletto giallo intorno al capo. Passata quella furia la strada ricadde in un silenzio notturno, ma si ravvivò poco dopo di aria di festa. Maria affondò il viso nel guanciale e scoppiò i piangere angosciata dai ricordi di tempi migliori. Mentre i miracolati dei due Santi andavano in giro vestiti di bianco come i "pescatori", a vendere le immagini sacre dei due Patroni. Andavano di casa in casa, e ricevevano in adempimento ai voti ceri, offerte e denari che portavano poi nella chiesetta dei due Santi. Nelle prime ore del giorno arrivò anche Anna Veronica, bisognava adempire al voto fatto durante la malattia di Marta portando in chiesa due torce e la tovaglietta ricamata e la diretta interessata doveva andare con lei. Dapprima Marta non volle saperne di uscire di casa, non credeva più in niente, ma a un voto non si mancare e allora la sorella, la madre e l'amica la convinsero dicendole che se era rimasta in vita era un segno mandato dal Signore e che lei non poteva di certo ignorarlo. Per le strade, una marea di gente, parata a festa, faceva una gran confusione e le due donne dovettero prendersi per mano per non essere investite e disperse da quella folla vociante. Arrivarono finalmente dinnanzi alla chiesetta, il frastuono assordante e la confusione indescrivibile la piazza era gremita di ambulanti che vendevano cose di ogni genere, si contrapponeva al gioioso schiamazzo dei venditori la malinconica cantilena dei mendicanti che affollavano i gradini della chiesa, davanti al portone dove la gente faceva a spinte per entrare. Le due donne si trovarono prima soffocate in quella calca, e poi magicamente sospinte dentro, dalla stessa, si trovarono davanti una chiesa colma di curiosi e fedeli. Proprio sotto l'altare le statue dei due Santi con la testa di ferro, poco più in là in una cappella, la commissione che ritirava le offerte di adempimento dei voti. Nella commissione c'era Antonio Pentàgora appena se ne accorse Anna decise di avviarsi da sola a fare l'offerta, lasciando Marta da sola, ma ella ebbe un incontro ravvicinato con Niccolino Pentàgora che però, vista la soggezione che aveva per la ragazza, si mescolò vergognoso tra la folla senza neanche salutarla. Scosso da quell'inaspettato incontro si lasciò trascinare dalla folla sino a fuori della chiesa. Ad un tratto la folla prese a gridare come impazzita: era arrivato il momento della processione che portava, secondo tradizione, i Santi in giro per il paese. I santi andavano in giro per le strade, ma se i santi fermati, da forze divine, si diceva, si fermavano sotto un balcone o una finestra, era segno che qualcuno in quella casa non aveva adempito a un voto. Le quattro donne erano in balcone, quando Antonio Pentàgora fecce segno ai portatori, dapprima le donne non pensarono assolutamente che quella sosta fosse per loro, ma poi la folla levò le braccia contro di loro gridando e imprecando, Maria corse in casa piangendo seguita da Anna e Marta, la signora Agata pallida d'indignazione chiuse le imposte. Il gesto, del tutto normale e comprensibile, parve alla folla una mancanza di rispetto, allora le urla si levarono più forti verso il cielo, e le donne strette le une alle altre sentirono la testa di uno dei Santi sbattere alcune volte contro la ringhiera, a ogni violento colpo la casa tremava. Dopo un po' la folla se ne andò e sotto il balcone di casa Ajala tornò la calma, Maria e Anna ancora piangevano, mentre Marta imprecava.
Capitolo X
Niccolino era appena uscito in collera dalla stanza, suo padre guardava ancora la porta con il suo solito ghigno frigido sulle labbra, Niccolino ce l'aveva col padre per lo scandalo del giorno prima, la stessa reazione aveva avuto il giorno precedente il figlio maggiore di Antonio Pentàgora che era uscito sbattendo la porta dopo una violenta lite con il padre.
L'uomo rimasto solo si mise a pensare, sapeva che era odiato da tutti, ma sapeva anche che era destino di famiglia recitare, nella vita coniugale, la parte dei traditi e per questo dalla gente si veniva odiati o derisi, ma per lui era meglio essere odiato. Secondo lui tutti gli uomini già da quando nascevano avevano una parte assegnata, il destino regnava al disopra di tutto, ed era impossibile cambiarlo, come tentavano di fare ora i suoi figli pieni di buoni propositi. S'era così fissato su quel modo di concepire la vita che quando qualcuno andava a domandargli aiuto, conforto, o consiglio, lui commosso e su punto di cedere tornava in sé e mandava il poveretto da un'altra parte senza essergli di alcun aiuto. Derideva la sua disgrazia coniugale, con un cinismo spiazzante, era la sua arma per prevenire gli altri e disarmarli. Dopo il tradimento della nuora si era rallegrato della relazione del figlio con quella donnaccia, ma il figlio non cambiò di certo il suo atteggiamento, sempre imbronciato e di pessimo umore, dopo la morte del padre di sua moglie si era chiuso ancora di più in se stesso, soffocato da un terribile rimorso. Il padre non capiva, per intere settimane Rocco non uscì di casa, e anche dopo non riusciva a divertirsi come prima, a nulla valsero i regali del padre: ben sei cavalli, non un viaggio e neppure il gioco distraeva il giovane dai continui sensi di colpa. Così il padre, alla prima occasione ne aveva approfittato, e aveva provocato lo scandalo sotto il balcone degli Ajala, ma il figlio no, non aveva gradito l'aiuto, ed era scappato su tutte le furie. Il padre per nulla preoccupato credeva che prima o poi lo avrebbe ringraziato. Per parecchi giorni Rocco non volle neppure vedere il padre, Niccolino lo aiutava a sfogarsi da bravo fratello: Rocco disperato imprecava contro il padre che, a parer suo, non aveva nessun diritto di intromettersi nella sua vita, e che ora tutto il paese avrebbe pensato che era stato lui a chiedere di scatenare lo scandalo sotto i balconi di sua moglie. Intanto le notizie peggioravano di giorno in giorno, Paolo Sistri era scappato con i pochi denari della conceria che ora era stata chiusa, la miseria, dunque, batteva alle porte delle tre donne, rimaste sole e malviste dal paese intero. La notte Rocco sognava il suocero che la notte del tradimento lo supplicava di perdonare, e poi vedeva il volto della suocera, sempre così dolce con lui, il giorno del fidanzamento che cercava di consolare la povera Marta in lacrime. Così il giorno stesso in cui seppe della conceria, andò dal padre, e senza neanche guadarlo in faccia, gli chiese di acquistarla per conto suo, ma questi andando su tutte le furie, sbatte in faccia al figlio, che non aveva nessuna intenzione di fare la carità a nessuno. E se ne andò lasciando il figlio a bocca aperta.
Capitolo XI
Le tre donne si erano da poco alzate dal letto, quando udirono suonare alla porta, Marta andò ad aprire, erano tre uomini poveramente vestiti, il più anziano consegnò a Marta un foglio che avrebbe dovuto consegnare alla madre, che nel frattempo era entrata nella stanza. Marta le consegnò quella specie di pergamena, la donna la spiegò e la lesse. Quando terminò disse con lo sguardo perso, che era un'ordinanza de pretore, e i due uomini erano i testimoni. Marta che sul momento parve la più lucida disse alla mamma di non dare alcuna spiegazione ai tre e di farli entrare, dal momento che stavano solo eseguendo degli ordini, e che non stava a loro decidere. Marta li guidò in tutte le stanze della casa, e mentre giravano uno dei tre uomini, collaboratore dell'Alvignani venuto solo per la curiosità di vedere Marta, provò a scusarsi per il fattaccio, ma prima che potesse concludere la frase la ragazza lo interruppe bruscamente e lui non ebbe il coraggio di concludere il suo penoso discorso. Il signore più anziano prese goffamente a pare l'inventario e la stima di ogni singola stanza. Arrivò Anna Veronica, che trovò le due donne piangenti e Marta che con un distacco innaturale portava in giro per casa sua i tre uomini mandati dal pretore. Per consolar la madre e la povera Maria, Anna descrisse loro la piccola casetta in cui presto sarebbero andate a vivere, ma subito ricordando il suo vecchio inquilino, cioè l'uomo del suo peccato, cambiò discorso. Disse alle donne che aveva preso l'incarico di fare il corredo di nozze della figlia del barone Troisi, e che così avrebbero potuto lavorare tutte e quattro nella nuova casa, che era vicina a quella della cara amica. Entrarono nella stanza i tre uomini e Marta, che pregò Anna di portare via la madre e la sorella. Arrivate nell'altra stanza la signora Agata quasi in lacrime spiegò ad Anna la situazione per lei deprimente della figlia, che pareva non accorgersi di nulla e si chiudeva in camera a studiare come quando era ancora una ragazza e niente era ancora accaduto. Giocavano a rincorrersi in quella casa, poiché quando arrivava Marta con i tre uomini le donne uscivano, e così via di stanza in stanza, in quella casa che di lì a tre giorni abbandonarono per sempre. Nella nuova dimora, dopo il frenetico trasloco e il faticoso trasferimento, Anna portò la stoffa e i merletti della baronessa, la signora Agata guardava sua figlia Maria assorta nel lavoro e pensava con le lacrime agli occhi che purtroppo lei non avrebbe mai neppure sognato di cucire il suo corredo di nozze. Marta anche nella nuova casa continuava a condurre la stessa vita di prima ma ora Anna non se ne stupiva più: la giovane donna le aveva confidato le sue intenzioni pregandola di non riferire nulla alla madre e alla sorella. Glielo disse lei una sera a tavola: stava preparando gli esami per la patente (esami di stato per diventare maestra), presso la scuola Normale, Anna l'unica che sapeva le sue intenzioni l'aveva incoraggiata e le aveva pagato con i suoi risparmi la tassa. Chiese alle due donne, rimaste senza parole dalla notizia, di non contrariarla, e tornò a chiudersi in camera. Era in tempo per dare gli esami con le sue vecchie compagne di collegio, le avrebbe riviste per la prima volta dopo lo scandalo. Non si aspettava alcuna accoglienza, ma bensì il contrario, le avrebbe salutate con rispetto e contegno di chi lancia una sfida, che non era destinata solo a loro, no, avrebbe sfidato l'intero paese. Sapeva che il mattino dopo avrebbe guadato in faccia la gente che, sotto i balconi dell'altra casa l'aveva pubblicamente oltraggiata, nei suoi occhi vedeva la gente che con le braccia levate imprecava contro di lei e contro la sua famiglia. Aveva in bocca il sapore della lotta e quello più dolce di una possibile rivincita, tutta la smania della vigilia si trasformò il mattino seguente in un vago senso di smarrimento, ma poco dopo richiamata alla realtà da ciò che la circondava prese a fare tutto frettolosamente, mentre si pettinava entrò la madre che prese a pettinarla, come quando andava a scuola. Quando ebbe finito guardò la figlia, non l'aveva mai vista così bella, ma subito ebbe come la sensazione che tutta quella bellezza e la luce nei suoi occhi sarebbero stati presi dalla gente come una mancanza di rispetto nei confronti della famiglia del marito e poi anche di tutta la gente "rispettosa". La signora Agata accompagno la figlia, mentre erano per strada la madre avrebbe voluto passare inosservata e correre lungo quella via che pareva non finire mai. Marta invece pensava all'incontro con le compagne di classe. Arrivarono per prime al collegio. Furono accorte dalla portinaia che affettuosamente salutò madre e figlia. La signora le fecce gentilmente accomodare in sala d'aspetto, e corse subito a chiamare sua figlia vecchia compagna di Marta che avrebbe sostenuto gli esami con lei. Eufemia era stata sin dal primo anno compagna di Marta, era crescita nella scuola con ragazze di molto superiori a lei per condizione economica, frequentando queste ragazze aveva assunto un aria signorile che era l'orgoglio di sua madre, alla quale però era costata anche tanti sacrifici. Eufemia dava del "tu" alle compagne, portava il cappellino e aveva dei merletti nelle vesti, ma era rimasta nella considerazione delle compagne "la figlia della portinaia". Nessuna aveva mai osato dirglielo, ma tutte glielo facevano intendere, le guardavano con occhi storti il cappellino o la gonna, o talvolta lasciandola sola di punto in bianco per dare ascolto a una del loro stesso ceto. E lei sopportava a denti stretti, per non farsi nemiche le figlie dei potenti. Alla vista di Marta le corse incontro e la baciò senza impaccio, poi compostamene salutò la signora Agata, che rincuorata per l'accoglienza lasciò la foglia in compagnia dell'amica e tornò a casa. Uscendo vide un gruppo di ex compagne della figlia che vedendola tacquero di botto, lei passò facendo finta di nulla, ma nessuna di quelle ragazze, un tempo tanto amiche di sua figlia, le rivolse il minimo cenno di saluto. La figlia non ricevette un trattamento migliore della madre, tutte le ragazze le passarono davanti senza volgere gli occhi al divano su cui Marta stava seduta con Eufemia. Era grata a quella ragazza per la compagnia che le teneva, ma non poteva che essere avvilita per questo non per se stessa, ma per quello che avrebbero detto quelle pettegole delle sue ex amiche, vedendola seduta con la figlia della portinaia. Solo un sua cara amica le porse un piccolo e freddo saluto prima di bloccarsi dinnanzi a lei senza sapere cosa dire.
Capitolo XII
L'invidia da un canto dall'altra le loro aspirazioni spezzate, alimentavano le calunnie contro quella loro ex amica e compagna di classe. L'accusa più grave rivolta alla povera Marta Ajala fu quella di aver ricevuto il posto di maestra supplente nelle prime classi del collegio solo perché protetta dal deputato Gregorio Alvignani. Dopo la diffusione della notizia al collegio fu una processione di genitori che scandalizzati protestavano contro quella assunzione, minacciando il preside di non mandare più le loro figlie a lezione. Il direttore mandava tutti i genitori dall'ispettore scolastico difendendo la futura maestria con la prova degli ottimi esami. L'ispettore scolastico era un grande amico dell'Alvignani, e parer suo un altro scandalo del genere avrebbe leso in modo irreparabile la figura del deputato. Intanto l'ispettore scolastico si difendeva dicendo che quella nomina non era una nomina governativa e per cui il deputato non era per niente coinvolto. In cuor suo l'ispettore stesso, che era un abitante del paese, non avrebbe voluto come insegnante di sua figlia una donna che aveva fatto tanto parlare di sé, e in modo così negativo. Intanto Marta, ogni giorno più oppressa dalla crescente miseria in cui in cui la morte del padre le aveva gettate, era ignara di tutto, spinta dalla voglia di risorgere e di far uscire da quella miseria la madre e la sorella che si trovavano in quello stato per colpa sua. Marta non sapeva ancora nulla delle calunnie che la gente le faceva, alle spalle, a proposito della sua assunzione come supplente al collegio, fino a quando la vecchia portinaia non venne ad annunziarle che il posto, che si era guadagnata passando gli esami in modo brillante, sarebbe stato ricoperto dalla nipote di un consigliere comunale. Intanto in Rocco Pentàgora quei sentimenti di rimorso e dolore si trasformarono in dispetto,in quanto non vedeva nel comportamento determinato di Marta il bisogno imminente di danaro, a cui lui stesso avrebbe voluto provvede. Vedeva invece nel comportamento della moglie uno sprezzante orgoglio per il quale voleva lanciare una sfida a tutti coloro che l'avevano marcata come un'infedele e per questo si sentì quasi messo da parte e deriso dalla donna che aveva tanto amato e che tutt'ora amava. Pensava inoltre che la professione che Marta, sua moglie, aveva scelto di esercitare fosse quasi un disonore per il nome che lei tutt'ora portava. Voleva vendicarsi, ma non sapeva come. Pensò più d'una volta di pubblicare le lettere prova della colpevolezza della donna, ma sapeva che a quel modo si sarebbe coperto lui stesso di ridicolo. Spesso usciva di casa e si ritrovava a passeggiare sotto i balconi della vecchia casa Ajala, aveva una smania opprimente di rivederla o meglio, di farsi rivedere da lei, che sembrava essersi dimenticata della sua esistenza. E presto giunse alla conclusione che era meglio non vendicarsi ed evitar e un nuovo scandalo, e cercava una soluzione, mosso ora dall'odio per l'Alvignani. Voleva vederla, voleva parlarle anche se non avrebbe saputo cosa dire. Un giorno decise di recarsi da una persona che poteva dargli sue notizie. Anna Veronica trovandoselo dinnanzi ebbe un momento di stupore, poi lo fecce entrare in casa, il salotto era invaso dalla biancheria del corredo della baronessina, e Rocco si ricordò dei preparativi per le sue nozze. Rocco si sedette dinanzi ad Anna Veronica era parecchio confuso ed imbarazzato. Dopo quel primo momento di insicurezza iniziò il suo discorso, dicendo ad Anna che la gente diceva che la corrispondenza tra l'Alvignani e Marta seguitavano e che era per quel motivo che Marta aveva inizialmente ottenuto il posto di maestra, aggiunse poi, che lui non ci credeva, ma che se la gente parlava un motivo c'era. A quel punto Anna si alzò in piedi e gli rispose che nella povera coscienza di Marta ci vedeva solo il bruciore per le ingiuste offese ricevute, ma nessuna macchia di peccato e che il suo comportamento era dettato dal bisogno si sollevare la madre e la sorella dalla miseria e soprattutto il posto l'aveva ottenuto onestamente studiando per passare gli esami. Rocco andandosene, la pregò di riferirle di rinunciare e che avrebbe provveduto lui al suo sostentamento, non per amore, ma per decoro di entrambi. Anna promise di fare da ambasciatrice e Rocco andò via.
Capitolo XIII
Anna corse subito dalle Ajala e riferì la visita prima alla madre e a Maria, la madre non voleva cedere e presa da un impeto di rabbia prese a insultare il genero. Subito la cara amica la interrupe dicendo che per come aveva parlato Rocco, si capiva che era ancora innamorato di Mara ma non poteva perdonarla fino a che c'era il padre a vigilare su tutte le sue azioni, disse anche che, a parer suo, Marta doveva scrivergli una delle sue meravigliose lettere. Le donne sapevano, in cuor loro, che non lo avrebbe fatto, ma Anna aveva il dovere di riferire della visita e provare a convincere Marta a dare lei una risposta al marito. Anna poté appena accennarle della visita che Marta le disse il risultato della conversazione, come se la mente del marito fosse per lei un libro aperto, Anna rimase sorpresa dalla risposta di Marta, e le disse con un timido azzardo di scrivergli tutto quello che pensava in una lettera. Marta avvilita e sdegnata per il comportamento del marito, disse che piuttosto avrebbe riscritto all'Alvignani piuttosto che dare una risposta a colui che l'aveva gettata nel fango, anzi avrebbe preferito morire piuttosto che piegarsi al volere del marito. Quando Marta uscì dalla stanza nessuna riprese l'argomento, Anna le suggerì, alla madre, di andare dall'ispettore scolastico, d'altronde era vittima di un'ingiustizia e lui di certo qualcosa le avrebbe detto. Lei seguì il consiglio della fedele amica e andò dall'ispettore. Per la via vedeva gli sguardi delle persone che avevano voluto la condanna della figlia e si vergognava per lei, si vergognava della miseria in cui erano precipitati. Arrivata a casa dell'ispettore salì le scale, l'ispettore non era solo, con lui c'era il professor Blandino, che alla vista della signora prese a lodare il suo marito defunto prima di prendere a passeggiare per la stanza. L'ispettore si scusò con la signora Agata e le chiese se doveva la sua visita alla vicenda di Marta. La signora, un po' impacciata per la presenza del professor Blandino, rispose di si con il capo. Ci fu un momento di silenzio nella stanza, all'ispettore non dispiaceva affatto la presenza del professore, anzi, lo rincuorava la presenza di un'altra persona, nel momento in cui avrebbe tolto tutte le speranze a quella madre premurosa. Per lui il futuro di Marta sarebbe stato pieno di belle promesse, ma era ancora presto. L'assunzione della nipote del consigliere era solo una questione di precedenze. Non disse nulla di tutto quello alla madre, nel penosissimo discorso che le fece. La signora lo ringraziò sconfortata ancora di più dalle parole appena udite e andò via. Appena fu uscita l'ispettore tiro un sospiro di sconforto, ma non poteva mettersi lui solo contro tutto il paese. A quel punto il professor Blandino smise di passeggiare e chiese per cosa la madre di Marta gli aveva fatto visita, l'ispettore allora gli spiegò tutta la storia, a quel punto il professore come illuminato disse all'ispettore che doveva assolutamente riparare. Non capendo costui gli diede del pazzo, prima aveva preso le parti del marito e ora quelle della moglie, lui spiegò che era perché non si era mai tracciato le linee immaginarie: da qui e male, da lì e bene, ma che giudicava a seconda dei casi. Disse che bisognava rivolgersi alla persona che aveva causato tutto, e corse a scrivere una lettera a Gregorio Alvignani. L'ispettore stupito rideva.
Capitolo XIV
Circa tre mesi dopo, Marta ricevette un invito del direttore del collegio. La portinaia, che alcuni mesi prima le aveva portato la notizia della nomina della nipote del consigliere, il giorno era arrivata tutta esultante, una maestra del secondo anno aveva ottenuto il trasferimento nel suo paese natale. Nell'incredulità di Marta per la notizia, la signora Agata le confessò della visita fatta in segreto all'ispettore scolastico, ma lei sapeva chi poteva essere ricollegata quella nomina, ed ebbe un tonfo al cuore. Sin dal primo giorno di scuola per lei inizio un nuovo inferno, le maestre la salutavano appena, era considerata una vergogna per l'istituto, tutti la evitavano, pensando con chissà quali intrighi aveva ottenuto la nomina. Le sue colleghe intanto civettavano sul modo in cui i loro colleghi e, perfino, il direttore avevano trattato la nuova collega, sin dal primo giorno. Molti furono i reclami che seguirono la nomina della giovane maestra Ajala, ma furono tutti vani, alcuni genitori ritirarono per fino le figlie da scuola per alcuni giorni, ma dal momento che questo a nulla era servito le ragazze ripresero le lezioni, anche se con un comportamento cattivo e ostile nei confronti della nuova maestra, sicuramente messe contro questa dagli stessi genitori. A nulla valse la gentilezza con cui Marta le trattò sin dal loro rientro a scuola, le bambine si sottraevano sgarbate alle carezze e si mostravano sorde ai rari rimproveri. Al suo rientro a casa Marta doveva fare un notevole sforzo per nascondere alla madre e alla sorella il suo stato d'animo, ma un giorno tornando dal collegio rossa in volto, appena la madre e Anna Veronica le domandarono il perché di quell'ira, visibilmente trattenuta a stento, la ragazza esplose in un pianto convulso. Dopo che da qualche tempo esaurita la pazienza, aveva preso a trattare con un po' più di severità le alunne più provocanti, una di queste era arrivata a dirgli qualche impertinenza. La mattina proprio quest'alunna dopo averle risposto con insolenza, senza accettare i rimproveri della maestra andò dal direttore dicendo che Marta gli aveva alzato le mani, mentre la ragazza si era solo avvicinata per allontanare l'alunna prepotente dalla classe. Il giorno seguente il padre della bambina andò nell'ufficio del direttore, girava per la stanza imprecando e strillando contro Marta, e gridando che se Marta aveva, per quel posto, cercato valide protezioni, lui il consigliere avrebbe reclamato giustizia più in alto. Il direttore non riusciva a calmarlo. E lui continuava a ripetere che la nomina dell'Ajala era un'immoralità. Due giorni dopo il direttore ricevette una chiamata dall'ispettore scolastico. Costui aveva notato i danni che la nomina di Marta avevano portato in paese alla figura politica dell'Alvignani. Ormai dopo al visita del consigliere Breganze era convinto che anche il Municipio aveva voltato le spalle al neo-deputato, chiese quindi al direttore di prendere dei provvedimenti, questi la difese in tutti i modi, sapeva dei precedenti della maestra, ma ammirava molto il suo valore e credeva che meritasse veramente il posto ottenuto. L'ispettore chiese al direttore di chiedere a Marta di assentarsi per una quindicina di giorni, e lui avrebbe provveduto al suo trasferimento. Il direttore accettò, e l'ispettore scrisse subito una lettera al suo amico parlamentare, al quale non sarebbe stato difficile trovare un posto per Marta. In attesa di una risposta Marta dovette prolungare la "sua malattia" per più di quindici giorni, finalmente dopo due mesi l'On. Alvignani rispose al suo amico, e mandò anche una lettera a Marta. La lettera per la donna, era sapientemente scritta, senza alcun riferimento al passato, ma con alcune riflessioni sugli uomini e il loro comportamento che gli fece intendere che le era vicino e capiva il suo stato d'animo. Inoltre le parlò del suo stato e le disse che si era preso la libertà di trasferirla per toglierla dal fango in cui tutti gli eventi precedenti l'avevano gettata, facendole il favore che lei non le avrebbe mai chiesto. Le chiedeva di lasciarlo e lui anche se da lontano si sarebbe preso cura di lei. Infine, in fondo alla pagina troneggiava il marchio;
NIHIL-MIHI-CONSCIO.
Un solo rammarico per le signore Ajala: lasciare la cara amica Anna Veronica. Loro sarebbero rimaste in tre: lei era sola tra i nemici. Cercando di farle coraggio le chiedeva di scriverle, volle accompagnarle alla stazione, e salutandole con il fazzoletto le diceva addio.
Parte II
Capitolo I
La casa di Palermo era molta bella quattro piccole stanze luminose e molto arieggiate, e un piccolo balcone dove Maria avrebbe potuto coltivare dei fiori, la stanza più grande sarebbe andata alla signora Agata e a Maria che avrebbero dormito insieme. L'altra camera sarebbe andata a Marta, e le sarebbe servita da stanza e da studio. Marta aveva trovato quella casetta, all'ultimo piano di un palazzo, guidata da un antico ricordo, era stata a Palermo con suo padre e questi gli aveva mostrato il posto in cui aveva combattuto insieme a Garibaldi le armate borboniche. Il padre le aveva raccontato di quando aveva incontrato il grande condottiero dopo che i suoi compagni erano stati uccisi, lo stesso Garibaldi si era esposto al pericolo per salvare la vita a un semplice volontario. Marta aveva voluto portare la madre e la sorella in quella via e per caso proprio in palazzo all'inizio del vicolo avevano visto un cartello con su scritto "affittasi" e avevano affittato proprio quell'appartamento, in memoria del padre, convinte che questi le aveva volute condurre proprio in quella via. Le poche stoviglie sopravissute a tutto il caos dei giorni precedenti le legavano irrimediabilmente al passato, e in qualunque caso erano poche, così uscivano tutte insieme a fare compere, senza sapere dove andare, giravano per le vie, guadando le vetrine e sfuggendo alla tentazione di entrare nei negozi più ricchi. Erano felici di poter andare per la via senza suscitare sguardi maligni nei passanti, nessuno le conosceva. A Marta dava fastidio l'ammirazione che suscitava nei passanti e per questo a volte, per essere meno notata, usciva senza rifarsi a modo i capelli. Con sua grande irritazione, quel po' di disordina cresceva la grazia della sua figura, non dando, quindi, il risultato sperato. Al Collegio Nuovo era stata accolta molto bene dalla direttrice, vera signora dai modi dolci e garbati, degno di essere la preside di quella scuola dove erano raccolte le figlie della più alta aristocrazia palermitana. I modi e la postura di Marta colpirono tanto la direttrice da portarla a fare i complimenti più sinceri alla signora Agata, la direttrice aveva dedicato la sua vita per la gioventù, aveva dei modi affabili, ma nella sua di gioventù non doveva essere stata tanto bella, e nonostante ciò lodava Marta. Parlo a Marta di tutto il personale del collegio, e dell'orario delle lezioni, senza mai abbandonare i suoi modi e descrivendo tutti con dolci parole, infine diede a Marta quattro giorni di vacanza per la sistemazione in città. Quando tornò a casa disse tutto a Maria, e mentre lo faceva lodava tutto: dalla Direttrice, all'edificio. Dopo il primo giorno di lezione tornò a casa raggiante, come la madre e la sorella non la vedevano da tempo, molta contenta dell'accoglienza che le altre insegnanti le avevano riservato. Questi primi giorni di serenità in Marta coincidevano con l'arrivo della primavera, l'aria era ancora fresca, ma il cielo era limpido. Si risvegliava in Marta l'antico senso delle vita che possedeva da bambina: dopo tutto in quel momento aveva vinto, ed era molto contenta di questo. Vivevano insieme in quella piccola casetta, felici schivando ogni ricordo del passato, meno quello della loro unica vera amica: Anna Veronica la quale le scriveva spesso delle lettere a cui loro rispondevano felici. Dagli inquilini del palazzo ricevettero solo una visita, che diede ragione alle tre donne di ridere per molto tempo, in quanto in Marta si era risvegliata anche l'antica abitudine di imitare alla perfezione le persone che riteneva buffe. Quando andarono a trovarle gli inquilini del secondo piano, Maria Rosa e Fifo Juè, arrivarono vestiti in lutto strettissimo, tanto che fecero paura, alla povera Maria che aprì la porta. Appena presentati iniziarono a raccontare la loro storia: erano sposati da te mesi, Fifo era il fratello del primo marito di donna Maria Rosa, costei, durante tutta la visita, non parlò altro che del marito defunto, mentre il neomarito ascoltava immobile senza spiccicare parola. Sua moglie intanto continuava a descrivere nei minii particolari la morte del suo primo marito, che pareva morto il giorno innanzi.
Capitolo II
Marta lavorava quanto più poteva per ridare alla madre e alla sorella la vita ricca di un tempo, per questo aveva chiesto e ottenuto dalla Direttrice di poter dare lezioni serali alle ragazze più giovani. I soldi che riceveva oltre lo stipendio mensile li dava tutti alla madre, questa sembrava però turbata dal fatto, secondo lei, Marta lavorava tantissimo senza godersi a pieno i frutti del suo stesso lavoro. I sorrisi della madre e della sorella, il fatto di averle risollevate, con le sue sole forze dalla miseria erano per Marta il compenso più grande. In lei però viveva ancora un po' di rancore per suo padre che l'aveva ciecamente condannata gettandola nel fango. Per Maria aveva comprato un pianoforte quasi nuovo da pagare a rate, un po' al mese,e per la madre la gioia più grande era vedere di nuovo la dispensa sempre piena, e Marta gioiva più di loro nel vederle felici. Qualche sera i signori Juè facevano visita alla tre donne, l'argomento era sempre il solito (il povero marito defunto di donna Maria Rosa), da i due seppe che la signora Fana, moglie di Antonio Pentàgora, viveva ancora nella miseria. Quando donna Maria Rosa seppe che le donne conoscevano il marito della povera donna, che viveva in un loro appartamento in affitto, volle sapere quante più cose poté su quell'uomo. Maria si era ridata, con passione allo del pianoforte, e la sera spesso suonava mentre sua madre cuciva, Marta nella stanza attigua correggeva i compiti, ma molte volte, non vista dalla madre e dalla sorella si fermava un attimo e con il viso tra le mani piangeva per tante cose, ma poi con frenesia cercava il fazzoletto, il pianto era segno di debolezza, così si asciugava le lagrime e riprendeva il suo lavoro. Di questo suo stato d'animo Marta non né parlava con nessuno, la madre e la sorella vivevano di lei, e non poteva darle altri dispiaceri, le nascose perfino una lettera di Anna Veronica, in cui la cara amica le parlava a lungo di Rocco, la furia di costui dopo la loro partenza, non voleva turbarle con queste sciocchezze. Intanto la madre e la sorella avevano ritrovato la calma dei giorni che furono, i sorrisi e alcune delle vecchie abitudini, e allora Marta le sentiva sempre più diverse da lei, pensava che lei non avrebbe mai più potuto trovare le abitudini di un tempo, non avrebbe mai potuto, in nessun modo, reintegrarsi in quella società che tento l'aveva calunniata e offesa, e più pensava questo, più si sentiva "l'esclusa"!!! Tutto quello che le restava erano la madre e la sorella doveva andare avanti per loro, ma tuttavia erano solo momenti di tristezza passeggeri, il sole di primavera col suo dolce tepore le dava la forza di andare avanti, ma in fondo al cuore sentiva ancora dolore e tristezza, anche se non capiva il motivo. Voleva vivere per a madre e la sorella non curandosi di lei, la madre la pettinava ogni mattina e lei era sempre irrequieta, la sua immagine nello specchio, il suo accecante splendore, le davano fastidio. Talvolta piangeva dopo che la madre la pettinava, ma poi si mostrava più allegra e forte del solito, non capiva il perché doveva apparire così bella. Provava un incomprensibile timore ad andare sola e così bella tra le vie, non che nessuno l'avesse mai importunata, ma sentiva che ogni sguardo la faceva arrossire, si sentiva come una delle zitelle vergognose di cui per tanto tempo aveva riso, l'unica differenza era che lei era una donna sposata, ma questo la gente non lo sapeva. Si rallegrava davanti al portone del collegio, contenta di essere finalmente arrivata a destinazione. Così alcune mattine scambiava due parole con i suoi tre colleghi, prima che ciascuno entrasse nella propria classe per fare lezione, s'era accorta che due di questi le facevano ognuno a suo modo la corte. Il professor Mormoni, aveva il classico atteggiamento napoleonico, si gonfiava come un pavone come se volesse dire a Marta che non si curava affatto di lei, ma se ne curava e come. L'altro professore il professor Nusco, chiamato il professoricchio, al contrario del suo collega era sempre impacciato e tremolante. Sembrava che chiedesse di continuo scusa solo per la sua presenza, e non contraddiceva mai nessun come per paura di essere cacciato, aveva una sola passione, dopo l'insegnamento: scriveva in versi. Eppure aveva un debole per Marta, tuttavia questa pareva non accorgersene, ma era solo un apparenza, Marta notava tutto e ne rideva. Un giorno Nusco si aveva lasciato il fiore che di solito portava all'occhiello in sala professori, dopo un'ora, e corse a vedere, ma quando arrivò nella stanza il fiore era sparito, il suo cuore prese a sperare che Marta si fosse accorta di qualcosa e avesse preso il fiore, ma purtroppo il fiore era finito sulla giacca del professor Mormoni, che era appena entrato nella stanza. Il terzo professore, pareva invece non essersi ancora accorto della presenza della nuova professoressa, si chiamava Matteo Falcone, era d'una bruttezza mostruosa, non guardava mai in faccia le persone, forse per non scorgere nei loro occhi il ribrezzo che la sua figura destava, aveva anche i piedi deformi con le scarpe messe alla meglio per permettergli di camminare. Gli altri professori erano abituati ai suoi modi più da orso che da uomo, ma Marta nei primi giorni ne fu urtata, tuttavia provava una certa stizza per la sua noncuranza. A volte nel tempo trascorso in sala professori, prima dell'inizio delle lezioni, lanciava occhiate furtive a quella figura di solito immersa nella lettura, e provava a immaginare i, sicuramente brutali, pensieri nella testa di quell'uomo. Due sole volte aveva sentito la voce del Falcone un giorno rispose al saluto che Marta gli aveva rivolto per dare stizza al professor Mormoni. La udì per la seconda volta, quando assistette alla animata discussione tra Falcone e Nusco, il primo aveva affermato che i poeti avevo delle false opinioni,e il secondo, parecchio impacciato, tentava di far valere le propri opinioni. Con sorpresa di tutto il loro collega chiamò in causa Marta che con una secca risposta fece cessare la lite. Il mattino dopo il professor Falcone arrivò al collegio tutto impolverato, graffiato e con tutti vestiti stracciati. Al suo arrivo i suoi colleghi, preoccupati gli chiesero cosa gli fosse accaduto, questi con uno dei suoi grugniti, rispose che non gli era accaduto nulla, solo che mentre passava sotto la chiesa di Santa Caterina, un pezzo di cornicione gli era caduto addosso. I suoi colleghi rimasero allibiti, ma il professore si avviò alla sua classe per la lezione. Il cupo professore cominciò da quel giorno ad aprirsi ai suoi colleghi, e il Mormoni continuava, in assenza del collega, a ringraziare il cornicione di Santa Caterina. Il Nusco e il Mormoni non erano gelosi del Falcone che iniziava a interessarsi a Marta piuttosto lo commiseravano, anche se poi si credevano l'uno meglio dell'altro e in segreto si commiseravano a vicenda. Il fatto di destare interesse nel suo collega, faceva scaturire in Marat ribrezzo e compassione insieme, si sentiva sdegnata al solo pensiero che quell'essere così orribile potesse pretendere amore da lei, ma d'altro canto si sentina onorata in quanto, molto probabilmente era l'unica donna, per la quale, il Falcone, aveva provato qualcosa. Non rideva di lui, come degli altri due, ma era rassicurata dal fatto che nulla sarebbe nato tra lei e quell'uomo così orrendo. Quasi ogni giorno vedeva il Falcone passare sotto casa sua e alzare gli occhi al balcone della sua stanza. Il primo giorno lo fece notare a Maria, senza nemmeno sospettare che questi avrebbe alzato la tasta per guardare. Ebbe così la prova di quell'amore, che quell'uomo dall'aspetto animalesco, aveva provato a dimostrarle con dei segni minori, adesso ogni sera, da dietro la tenda, lo vedeva passare e alzare lo sguardo verso la finestra di casa sua. La notte aveva gli incubi, e la mattina per la via si sentiva sola e indifesa,e anche quando arriva al collegio quella strana sensazione non cessava, anzi si accentuava di più: non voleva che sapesse che si era accorta dei suoi sentimenti, ma non poteva nemmeno trattarlo come i primi giorni per paura che in lui si alimentassero false speranze. Neanche gl'altri colleghi la divertivano più, anzi il loro atteggiamento la irritava particolarmente.
Capitolo III
Forse il professor Nusco, in animo, suo si ribellava contro se stesso per i suoi modi a volte ridicoli e priva di carattere, dal momento che dentro di sé non si reputava affatto uno sciocco, e chissà quanti invece lui stesso stimava degli sciocchi! Proprio in quei giorni inviò un sonetto scritto per Marta a un giornale locale. Il giorno seguente alla pubblicazione il primo ad accorgersi della pubblicazione fu il Mormoni, che diede il giornale a Marta sottolineando la presenza della poesia dal titolo misterioso: A Lei. Scappando poi con una scusa qualunque lasciò Marat con il giornale tra le mani, la donna dapprima ebbe l'impeto di buttare il giornale, ma poi lo spiegò e lesse il sonetto. La poesia parlava di lei raccontava molte cose di lei che nessuno sapeva, alcune strofe le fecero pensare all'Alvignani, nessuno poteva saperlo e nelle testa le affioravano mille domande, intanto la pioggia prese a battere incessante. Arrivò il Falcone, l'arrivo del collega la distolse dai suoi pensieri, cercò l'ombrello era certa di averlo portato con sé, lo cercò ovunque, il collega allora le propose di prendere il suo. Neppure la bidella lo aveva trovato, e il collega più nervoso del solito insisteva per darle il suo, ma lei non poteva far prendere al collega tutta quell'acqua, a qual punto però il collega si offrì di accompagnarla. Sentiva crescere in lei un grande senso di ribrezzo, ma allo stesso tempo sentiva la gioia crescente nell'animo del collega, pensava che se solo l'avesse sfiorata avrebbe emanato un acutissimo grido di ribrezzo. Mentre si avviavano verso l'uscita la bidella le consegnò una lettera, Marta era felicissima che le venisse offerto un mezzo per nascondere il suo stato d'animo, la lettera era di Anna Veronica. Il Falcone sempre cupo in volto cercava di sbirciare sul foglio, all'improvviso notò un repentino cambiamento sul volto della donna. Erano arrivati al portone, Marta non leggeva più aveva lo sguardo perso nel vuoto, il Falcone fece cenno di andare, e lei si avviò per la via, senza pensare più all'inevitabile contato. Era turbata e aveva il passo spedito, quasi volesse fuggire, ma non da lui (e il falcone lo intuiva), ma da qualche notizia pervenutagli da quella lettera. Accecato dalla gelosia avrebbe voluto gridare a Marta chi fosse, e che cosa contenesse quella lettera, ma la lasciava correre dal momento che i suoi piedi deformi non potevano seguirla in quella corsa. A un tratto Marta ebbe un sussulto come un grido soffocato. Il Falcone la seguì quando ella le intimò di muoversi, ma quando si voltò vide due uomini, uno pallido in volto e uno molto magro chiaramente straniero che aveva un espressione derisoria in volto. Erano Rocco Pentàgora e il sig. Madden. E mentre ella le intimava di muoversi, in quel giorno di pioggia, il suo mostruoso collega, con una voce che non pareva nemmeno sua, le confessava il suo amore. Marta scappò via, mentre il Falcone con i suoi piedi deformi le correva dietro a fatica, finalmente Marta arrivò sotto il portone di casa e a quel punto il mostruoso collega tenendola per un braccio tentò di fermarla, ma lei con uno strattone si liberò e salì le scale, lasciandosi dietro il Falcone senza avergli dato la risposta che cercava. Maria le aprì la porta e Marta corse subito in camera sua, chiesa la porta della stanza a chiave prese a piangere. Era in preda al panico: le cose accadute quel giorno, le giravano per la testa. Vedeva il Falcone mentre le confessava i suoi sentimenti, le pareva di sentirlo, vedeva suo marito e il suo amico sul marciapiede. Si ricordò ad un tratto della lettera di Anna Veronica, la prese e la rilesse, diceva che Niccolino suo cognato si sarebbe sposato, ma sopratutto aveva detto alla futura moglie che il fratello Rocco sarebbe andato a Palermo per vedere quali "seri impedimenti" avesse la moglie per non tornare al paese natio. Marta capì subito cosa intendeva il marito per "seri impedimenti", un impeto d'ira la scosse, il marito la perseguitava anche da lontano, riusciva a infangarla pur non vedendola. Era una povera innocente che con il lavoro aveva cercato di risollevarsi dal fango in cui le accuse del marito, la maldicenza della gente, e l'accusa cieca del padre l'avevano sotterrata, ma ancora doveva essere umiliata e lapidata per un reato che non aveva neanche commesso. Dalla vita non aveva avuto niente altro che ingiustizie, e tutto colpa per quell'uomo, suo marito, che ora giudicava come un mostro povero di spirito. Maria la distolse dai pensieri e dalle lacrime, era pronta la cena.
Capitolo IV
Marta, di nuovo sola, pensava che il marito, accecato dall'odio per lei, avrebbe scatenato un nuovo scandalo, indicando il Falcone come suo amante, d'altronde lo aveva già fatto in passato. Sentiva la madre e la sorella in cucina, pensava loro avevano dimenticato il passato e avevano iniziato una nuova vita, pensava che tutto quello che avevano era opera sua, in fondo anche lei aveva cercato di seppellire il passato, ma ora pensava che in quel passato vi era sepolta, probabilmente per sempre la sua giovinezza. Nessuno sapeva il prezzo del suo martirio, lei, viva per far vivere gli altri. E certamente ne avrebbe gioito se l'avessero lasciata esclusa dalla vita, lasciandola in pace godere i frutti del suo lavoro. Si stese sul letto e pensò a una giusta vendetta, per il Falcone ne avrebbe parlato con la direttrice, arrivò alla conclusione che le aveva dovuto nascondere l'ombrello per avere il pretesto d'accompagnarla. Poi pensò al marito ma non trovò alcun mezzo di vendetta. Si addormentò con questi pensieri. La mattina seguente si svegliò con un forte mal di testa, ma sentiva in sé una forza, sapeva che probabilmente non sarebbe mai uscita dal cupo corridoio della sua vita, ma tuttavia era decisa ad affrontare tutti gli ostacoli la vita le avesse posto dinnanzi. Uscì per andare a scuola, non aveva paura di incontrare il marito, e poi il suo primo pensiero era il Falcone. Entrò in sala professori: nessuno.
Capitolo V
Il Falcone quella mattina non si era recato al collegio. Il giorno prima era rimasto sotto la porta di Marta, come impietrito dalla sua reazione, e mai come quel giorno aveva odiato sé stesso e il suo orribile aspetto deforme. E si era avviato verso casa farfugliando parole incomprensibili, a casa come sempre lo aspettavano la madre e la zia, che davano come unico fine alla vita quello di maritarsi, e per questo si facevano goffamente acconciare dalle vicine che ridevano di loro. Per il professore solo due infelicità aveva la vita: la bruttezza e la vecchiaia. Aveva tante volte pensato di vendicare le vittime della vita, sfregiando la bellezza e sottraendo alla vita la vecchiaia e non lo credeva delitto bensì riparazione. Il giorno seguente alla ripulsa di Marta, si avviò per una delle solite passeggiate, le faceva dopo le crisi più violente, salì sino sopra alla collina più alta e quando tornò in città era tardi per andare al collegio, le lezioni dovevano essere finite, tuttavia si avviò per scusarsi dell'assenza, ma in cuor suo sapeva che era solo per incontrare Marta, e la vide mentre usciva dal collegio che leggeva una delle sue solite lettere: ora ne era sicuro doveva essere una lettera d'amore. Non pensando più a scusarsi prese un'altra via.
Capitolo VI
Prima di entrare a casa Marta sminuzzò con cura la lettera e con questa anche un biglietto d'invito, si passò le mani sulle guance e stette un po' a fissare il vuoto. Era come inebriata da qualcosa, tanto che sorrise prima di decidersi a salire le scale, aspettava di calmarsi affinché la sorella e la madre non s'accorgessero di nulla. Salì freneticamente le scale, sapeva che avrebbe mentito senza preparazione, ma oramai mentiva tutti i giorni per nascondere il suo angosciato stato d'animo. Aveva distrutto con cura la lettera, ma le parole, in essa contenute, le tornavano in mente, ma non con il tono, di solito carezzevole, di chi le aveva scritte, ma era lei a interpretarle con un tono di rivolta per tutte le ingiustizie che le era toccato sopportare in quel lungo periodo. Appena fu sola nella sua stanza, si sentì nuovamente angosciata dal fatto che era stanca di dover mentire di continuo alla madre a alla sorella,e sentì più profondo che mai il distacco tra lei e la sua famiglia. Entrambe, con schiva umiltà, erano rientrate nel mondo da cui lei, l'esclusa, era stata cacciata per sempre. Si tormentava di domande piene di perché, ma a tratto capì che nessuno avrebbe creduto alla sua innocenza dopo che il padre e il marito l'avevano a quel modo condannata. Nessun compenso dunque, la sua guerra l'aveva perduta per sempre, ma la sua innocenza gridava vendetta e il suo vendicatore le aveva appena mandato una lettera. L'Alvignani le aveva mandato una lettera, invitandola a una conferenza. Lei non sarebbe andata, ma l'avrebbe visto il giorno dopo, dal momento che sarebbe passato al collegio a salutarla, sicuro che lei non le avrebbe mai risposto alla lettera. Marta all'idea tremava tutta e sentiva un sangue nuovo ribollirle nelle vene. Marta era stata come investita da quella lettera inaspettata, che con frenesia la incitava a vivere, e in lei aveva risvegliato gli antichi affetti. E in presa a una crisi, forse di gioia o di rimorso scoppiò a piangere.
Capitolo VII
La lettera dell'Alvignani, era, come ogni sua manifestazione d'affetto, vera solo in parte diceva di aver sentito "la voce vera della natura". A Roma aveva sostenuto una vita stremante, e aveva dovuto giustificare la sua ambizione politica, tutto senza il necessario riposo. Un giorno davanti allo specchio aveva notato il pallore del suo volto e sedutosi alla scrivania era stato incapace di continuare alcun lavoro, aveva allora capito che aveva bisogno di un periodo di riposo. Inoltre la chiusura delle camere gli diede la possibilità di allontanarsi da Roma. Parlava spesso allo specchio dei suoi sentimenti, sentita che non era più giovane,e sapeva di essere dall'altro lato della vita: quello in cui si scende, e temeva di precipitare. Anche sul lavoro, aveva ottenuto troppo agevolmente la vittoria, si era fatto in poco tempo preziose simpatie, ma tuttavia nessuno aveva intimamente gioito con lui per le sue conquiste, ed ora nessuno lo consolava per l'amarezza che aveva dentro: era solo! Appena in viaggio aveva subito avuto come l'impressione che le nebbie attorno a lui si fossero tutto d'un tratto diradate e provava sollievo per questo. E nella carrozza del treno,aveva già gridato a sé stesso: "vivere, vivere"! Dopo pochi giorni dal suo arrivo a Palermo aveva trovato la casa che faceva per lui: lontana dal centro, di un sol piano e dall'aspetto signorile. Il cortile della casa era pieno di colombi, e quella casa dall'aspetto umile era quello che ci voleva per riposarsi. Ogni mattina scendendo in città passava davanti al collegio, alzando la testa pensava che Marta era la dentro e ogni giorno si riprometteva che l'avrebbe rivista, anche solo per curiosità. Doveva, però, trovare l'occasione, sarebbe anche potuto entrare a salutarla, ma così d'improvviso no, sarebbe stato meglio farglielo sapere prima. Non sapeva ancora come avrebbe pensato come avrebbe passato il suo tempo a Palermo, e si accorse che aveva scelto la città solo per vedere Marta, decise di comprare dei libri di letteratura, e poi magari avrebbe concluso i suoi appunti sull'Etica relativa, non pensava a niente e il suo spirito si riposava. Voleva solo rivedere Marta, ma non trovava né il mezzo, né il motivo. Per quanto cercasse di distrarsi non pensava ad altro, pensava al modo di incontrarla senza però compromettere né la sua, né la posizione di lei. Era convinto che tutto dipendesse dal primo incontro, ma nemmeno lui sapeva cosa fosse il "tutto". Ad un tratto gli fu offerta un occasione: fu invitato a tenere un conferenza all'Università dal titolo " arte e coscienza oggi". Decise così di scriverle per invitarla alla conferenza, e gli piaceva che Marta lo rivedesse tra gli applausi di un numeroso auditorio. Alla conferenza ottenne più successo di quanto lui stesso si aspettasse, ma non vide Marta.
Capitolo VIII
Anche lui appariva molto turbato, non s'aspettava di vedere Marta davvero bellissima, e turbata davanti a lui, non poteva credere che lei stesse li con lui e si lasciasse condurre, temeva che una parola, un gesto o anche solo un sorriso potessero rovinare tutto. Marta aveva il viso in fiamme e aveva acetato subito l'invito a fare due passi, andavano l'uno accanto all'altra verso una via meno affollata. Usciva due ore prima dal collegio quindi né il marito, né il Falcone avrebbero potuto vederla, ma tremava tutta ugualmente. Non capiva il senso della parole che lui le sussurrava, le udiva soltanto,erano parole ardenti che le confessavano che da lontano aveva sempre pensato a lei. Le parlava di una lettera a cui non aveva risposto, dapprima lei non capì, poi si ricordò, ma come avrebbe potuto risponderle allora?! Pensieri sconnessi le arrivavano alla mente. Sentiva come se quell'uomo elegante e ardito avesse un diritto naturale su di lei, e lei il dovere di seguirlo, aveva perso il controllo di sé stessa e lo seguiva. Anche lui era preso e vinto dal fascino di lei e le sussurrava parole sconnesse, ma con grande forza di persuasione, neanche egli pensava più era
però sicuro di una cosa: l'aveva ritrovata e non l'avrebbe più lasciata andare via. Egli aveva preso a darle del "tu". Da un po' la strada era deserta, il cielo azzurrissimo. Ad un tratto si fermarono, lei non era mai arrivata sin lassù, lui la guidò per un'altra strada, sino a casa sua. Marta si fermò a guardare i colombi, e lui la invitò a salire in balcone, lei con tentennamento, dapprima rifiutò, ma poi si lasciò guidare ancora una volta. Appena entrati, però, Marta sentì dentro di sé, rompersi la magia che l'aveva condotta sin lì, e come in un incubo, sentì l'impotenza di sottrarsi a un destino oramai segnato. Appena in terrazzo però Marta sentì aprirsi il cuore, da lì si potevano vedere sia lo spettacolo magnifico dei monti, sia la città, e perfino l'immenso e sterminato mare. Alla vista della sua piccola casa si ricordò di sua madre e di sua sorella, ma a quel punto una immensa sfiducia in sé stessa la invase, a quel punto nascondendosi il volto nel fazzoletto scoppiò a piangere, intanto continuava a ripetere che il seguirlo era stato un errore. Asciugandole le lacrime la carezzava, e poi l'abbracciò, ella ebbe un fremito, come uno schianto, di chi cede senza concedere.
Capitolo IX
E lui, in un abbraccio, le domandava quando sarebbe tornata, ma lei non rispose ed avrebbe voluto non sciogliersi da quelle braccia, si sentiva ormai giunta al suo fine, era arrivata a toccare il fondo in cui tutti, a colpi di accuse, l'avevano spinta. Non poteva più lottare ormai era finita!!! E li era venuto a prenderla come se tutte le ingiustizie da lei subito gli avessero conferito un potere su di lei, ecco, perché sin dal primo momento non aveva potuto resistergli. E andando via lei promise di scrivergli, e quando fu sola per la via fu come assalita da tutti i suoi sentimenti. Mentre camminava cercava disperatamente una scusa per giustificare il tutto a sé stessa, e si costrinse a vedere quella debolezza, come la sua vendetta per la sua, ormai antica, innocenza. Rientrava ora in quel pezzo di strada che era solita fare e proseguì più sicura come se si fosse lasciata alla spalle la colpa. Tutto intorno a lei era uguale al giorno prima e a quello prima ancora e mentre si avvicinava a casa la calma dentro di lei cresceva. Nulla di nuovo neppure in casa, e alla madre mentì così bene che un volta sola, nella sua stanza, se ne stupì lei stessa. Venuta la sera, si accorse che però non era per gli altri che fingeva quanto per convincere se stessa, e per non ascoltare la sua inquietudine si mise a correggere i compiti, come ogni sera, ma lo sforzo fu vano. Tutti i pensieri si concentravano sugli eventi della mattina, sapeva si sarebbe dovuta opporre, ma come, visto che non era riuscita a dire nemmeno una parola!? Rassegnata e commossa prese a scrivergli, la lettera parlava della sua solitudine, gli spiegò il suo stato e gli sottolineo che, lui era libero, lei no, e poi una frase più volte sottolineata attirava l'attenzione: "ora sono tua", e poi gli scrisse che voleva rivederlo gi avrebbe fatto sapere dove e quando.
Capitolo X
L'Alvignani le confessava il suo amore chiedendole di cercare di capire cosa provava per lui, e cercava di soffocare gli scrupoli, cercando di convincere anche se stesso. Marta lo ascoltava in silenzio, persuasa, ma non totalmente convinta. E andare segretamente a casa di lui le costava, e sapeva che quella sua insicurezza l'avrebbe tradita un giorno o l'altro. Non aveva più un posto in cui stare in pace con il mondo e con sé stessa, a casa la menzogna, al collegio la tortura, e a casa di lui la paura e il rimorso. Andava a casa di lui unicamente per sentirlo parlare, per sentirsi dire quello che avrebbe voluto credere. Non si sentiva vinta, ma ormai doveva starci perché ormai si era data. Dal comportamento di lei, lui capì che ella non si era concessa a lui per amore, non almeno nel suo stato di confusione. Voleva portarla a Roma con sé, insieme alla madre e alla sorella, ma non sapeva come dirglielo. Lui era pronto a tutto. Un giorno lui fece la fatidica domanda. Lei non seppe darle alcuna risposta. Allora lui prese a meditare sul fatto di lasciarla sola a riflettere, tornando a Roma. Una lettera di Anna Veronica sconvolse ulteriormente Marta: Rocco Pentàgora gravemente ammalato di tifo, stava tra la vita e al morte. Ed ella si sentì quasi colpevole per aver sperato tante volte, nelle notti insonni, nella morte del marito. Ella corse a dirlo all'Alvignani, tra loro ci fu un lunghissimo silenzio, come se la morte sfidasse il loro amore a parlare.
Capitolo XI
Gregorio Alvignani si fermò davanti alla scarna figura del professor Luca Blandino, e stupito dell'incontro gli chiese il motivo per cui si trovava a Palermo, ma costui per sviare la conversazione gli chiese dove poteva trovare dei colletti simili al suo. Entrando in un negozio,il Blandino chiese all'Alvignani perché si trovava a Palermo, lui rispose sicuro di se che era lì perché aveva tenuto una conferenza all'università e invitò il professore a casa sua (quel giorno Marta non ci sarebbe andata). Con una spiazzante schiettezza il Blandino gli disse che avrebbe preferito non trovarlo lì, l'Alvignani aveva capito cosa intendeva, ma fece lo stesso finta di non capire e chiese ancora una volta al professore perché si trovasse a Palermo. Questi senza mezzi termini e non curante degli antecedenti fatti, gli rispose che doveva far riconciliare Rocco Pentàgora e la moglie. All'udire queste parole l'Alvignani impallidì, anche se un sorriso freddo le rimase sulle labbra: era dunque quello il motivo per cui avrebbe preferito non trovarlo lì. Il Blandino che si era accorto della sua reazione alla sua domanda del come, con tutta calma, gli rispose che il marito la rivoleva. Entrati in casa il professore gli ripose che Rocco era stato sul punto di morire, e visto che le lettere non servivano a nulla, aveva mandato lui dalla madre per dire che rivoleva sua figlia. Passeggiando per la stanza, l'Alvignani, disse che forse era meglio così e che quando era stato provocato da Rocco non poteva fare altro che sfidarlo, ma disse che lui sapeva benissimo che sarebbe andata a finire così. Il Blandino disse che comunque Rocco dopo la morte del padre di Marta aveva cercato, per ben tre volte di riconciliarsi, ma lei non aveva mai voluto saperne. A questo punto l'Alvignani prese le difese di Marta dicendo che comunque dopo tutte le umiliazioni subite era anche comprensibile che non avesse voluto saperne, aggiunse poi che ogni errore commesso era stato suo e che Marta poteva essere accusata solo di essere stata ingenua. Diede anche dei consigli su come presentare a Marta la proposta, secondo lui doveva mostrargliela come il fatto che le si sarebbe reso giustizia davanti alla società, ogni volta che poteva sottolineava la sua felicità per la decisione del Pentàgora. Il Blandino fece per andarsene e così lui lo accompagnò alla porta e lo invitò a cena dicendo che gli avrebbe fatto piacere sapere la risposta di Marta. Appena aprì la porta due sonori schiaffi gli riscaldarono guance, e lei gli urlò contro tutta la sua rabbia, ma lui richiuse subito la porta.
Capitolo XII
Marta aveva udito tutto e si era trattenuta dall'entrare in presenza del professor Blandino, e ora gridava che lui la voleva e ora che lei ci era stata e l'aveva avuta era meglio per lui rimandarla dal marito. Lui, messo con le spalle al muro, giurava e spergiurava che non era così. Lei gli rispose in lacrime che per lei non restava altra soluzione che morire, non avrebbe più potuto nascondere a sua madre e a sua sorella il suo stato. Allora lui le disse che per riparare la sera avrebbe detto al Blandino tutta la verità, e lei sarebbe andata con lui a Roma. Lei pensando a sua madre gli disse che non avrebbe mai potuto far ricoprire di nuovo di vergogna la madre, a quel punto lui disse che infondo il marito le chiedeva perdono da solo e per cui poteva riconciliarsi. Marta a quel punto rispose che infondo lui la perdonava perché la credeva senza colpa, ma in quel momento non era più così. L'Alvignani passando alla difensiva le disse che lui era ancora pronto a tutto per lei e che non poteva accusarlo, ma lei gli rispose che accusava solo se stessa per essere diventata la sua amante. A questo punto le rispose che lui sarebbe anche andato da suo marito a dirgli che era sua, se solo lei l'avesse amato, ma lei non lo amava e per questo aveva accolta con piacere la notizia della riconciliazione, lei stessa aveva detto che si era sentita come spinta nelle sue braccia e quindi non per amore era colpevole, quindi prima la spingono a commettere gli sbagli e la puniscono per quelli non fatti e poi la rivogliono, doveva tornare e li avrebbe puniti tutti! Era tardi e lei fece per andarsene, lui le disse che l'avrebbe voluta rivedere il giorno seguente per sapere la sua decisione. Lei già per strada pensava alla scusa che si sarebbe inventata per la madre dal momento che rincasava molto più tardi del solito. Mentre camminava per la strada deserta incontrò il Falcone che in tono minaccioso le chiese dove era stata e se si vedeva con l'uomo che aveva incontrato un po' di tempo prima, lei in preda alla disperazione le rispose che quell'uomo era suo marito. A quel punto lui colto di sorpresa dalla risposta, iniziò a urlare come un pazzo chiedendole vendetta nei confronti del mondo. Lei scappò di corsa era infondo alla via quando una decina di persone cercarono di prendere il Falcone credendolo un pazzo. Pensava di nuovo a cosa avrebbe detto alla madre si fermò di colpo pensando al Falcone, ma poi prese di nuovo la corsa verso casa.
Capitolo XIII
Il giorno dopo entrando al collegio, trovò la direttrice con gli altri colleghi che parlavano del Falcone, Marta fece finta di cadere dalle nuvole, così la direttrice le disse che la notte prima lo avevano portato in questura e dal momento che non era ubriaco tutti avevano pensato che fosse impazzito, e quindi con buona probabilità lo avevano portato in manicomio. Il giorno impartì la lezione quasi automaticamente con l'anima trascinata via dai pensieri. L'idea della morta comparsa la sera prima come unica soluzione l'aveva perseguitata tutta la notte e continuava a perseguitarla, ma il solo pensiero di poterlo fare davvero le metteva paura. Continuava però a tenersi acceso in lei un barlume di speranza: forse c'era ancora una possibilità che non fosse nello stato in cui temeva di trovarsi. Voleva con tutta sé stessa che fosse così e aspettava che il suo corpo le desse qualche segno per farla continuare a sperare. Rincasando trovò gli inquilini del piano di sotto che tenevano compagnia alla madre e alla sorella, ma dai loro occhi poté capire che il Blandino era già stato da loro. Marta con scusa che stava poco bene si congedò dagli ospiti e andò in camera sua. La signora Juè allora disse che erano i soliti mali di stagione e che anche la signora che viveva nella loro seconda casa stava male, costretta a letto. Appena gli ospiti furono andati via, la signora Agata andò dalla figlia e urlando di felicità le diceva che le si rendeva giustizia, ma Marta si era abbandonata su una sedia e pallida in volto, la madre le raccontò della visita del professor Blandino. Marta, però, non era affatto entusiasta e disse alla madre che era inutile parlare di riparazione, dal momento che lei agli occhi delle gente sarebbe rimasta per sempre la colpevole e suo marito un grande uomo che seppe perdonarla, che a quello che suo marito e il padre le avevano fatto, a tutte le umiliazioni non era possibile riparare e se ora lui la rivoleva era lei a non volere la riconciliazione lei sarebbe rimasta così com'era, né più né meno! Diceva che nessuno l'avrebbe creduto anche se avesse riconosciuto pubblicamente il suo torto e nessuno le avrebbe restituito il padre e il suo orgoglio perché ci sono cose che non si dimenticano e ferite che non si riparano. La madre però diceva che nessuno, dopo le pubbliche scuse avrebbe avuto più il diritto di parlare e le chiese di pensarci, lei promise che lo avrebbe fatto. Presto però riconobbe che non poteva più neppure sperare, e così di fronte all'orrore della morte, capì che doveva decidere, tutte le circostanze la spingevano a quella conclusione, e cercava il mezzo per farlo: dal balcone sarebbe potuta sopravivere, armi in casa non né avevano, il veleno le parve la soluzione, ma il problema era dove procurarselo. Sentiva sua madre e sua sorella e pensava se avrebbero avuto pietà di loro dopo la sua morte, le avrebbe voluto dire che non era una ricompensa quella di andare di nuovo a vivere con un uomo che le aveva fatta tanto male e che non stimava né amava più. Si recò dall'Alvignani con la vaga illusione che potesse trovare un'altra soluzione. Alla sua vista lui le disse che la stava scrivendo, ma poi guardando quanto era disperata le chiese se avesse deciso, ma lei si limitò a guardarlo. Lui capì che non aveva cambiato idea e allora le disse che ci doveva essere una strada e che se lei fosse tornata avrebbe punito il marito come si meritava, ma lei gli disse che quella sarebbe stata la sua condanna. Lei continuava a dirle che non avrebbe potuto farle commettere, sapendolo, un doppio delitto e le disse che avrebbe scritto al marito tutto quello che gli avrebbe dettato la coscienza, allora lei le disse che sarebbe stata lei a scrivergli e che poi gli avrebbe fatto sapere, detto questo andò. Per la strada l'idea che gli era balenata in mente iniziò a prendere una forma precisa: lei non accettava il suo perdono, ma tuttavia si sarebbe tolta di mezzo così lui avrebbe potuto sposare Maria e con sua madre avrebbero fatto un'unica grande famiglia. andava in fretta e si sentiva alleggerita da un peso enorme. Arrivata a casa disse alla madre che avrebbe scritto al marito pensando a loro, a lei e a loro.
Capitolo XIV
Aveva preso sonno al fare del giorno, durante la notte aveva pensato alla lettera e l'aveva formulata parola per parola, escludendo ogni frase di tenerezza per lei e di recriminazione per lui. Aveva poi preso a immaginare la vita di tutti senza di lei: il pianto della madre il rammarico e il conforto di lui, poi la calma desolata che col passare dei giorni arrivava, perché i morti e le loro verità sono lontani. Non si stupì affatto della calma con cui si svegliò, nessun rimorso dunque, era già preparata e pronta a tutto. Dopo colazione avrebbe scritto la lettera, a sera sarebbe uscita per impostarla di persona e poi non sarebbe più tornata. Ormai anche il "come" era deciso: si sarebbe annegata oppure lanciata sotto le ruote di un treno. Marat quel giorno fu dolcissima con la madre e la sorella, dopo colazione annunziò alla madre che avrebbe scritto al marito. Nel pomeriggio il cielo si incupì ancora di più, un tuono violentissimo scosse Marta che molto nervosa scoppiò in lacrime decise che non poteva scrivere al marito in quello stato, che avrebbe scritto il giorno seguente. Pensò a lei che si lanciava dalla scogliera in un mare torbido e scuro, ma poi si trovò a ridere con Maria e sua madre della sua paura. Mentre cenavano sentirono il campanello suonare forte, era donna Maria Juè, che entrando in preda alla disperazione: la sua inquilina stava morendo, e lei e suo marito andavano a vegliarla magari tutta la notte, ma doveva avere dei parenti che si potessero occupare dei funerali. Allora la signora Agata le disse che aveva un figlio, a quel punto donna Maria le chiese di scrivergli perché la sera quella povera donna avrebbe ricevuto i sacramenti. Marta ad un tratto disse che sarebbe andata anche lei a vegliare quella poveretta. La madre non si oppose, anzi ammirò la figlia che rispondeva con un così grande atto di generosità al male che il marito gli aveva fatto. Appena fuori sulla via Marta sentì al furia del vento. Appena arrivate la donna estrasse dalla tasca l'enorme chiave aprì al porta, il vento aveva aperto le finestre e corsero imprecando a chiuderle. La candela della camera da letto si era spenta, e li in mezzo al buio rantolava moribonda Fana Pentàgora. Il vento aveva rotto i vetri richiuse le imposte il rantolo mortale divenne nel silenzio insopportabile. Marta ai avvicinò nel buio alla moribonda, e la chiamò addirittura "mamma".,ma solo un rantolo angoscioso le rispose, e lei continuò dicendo che era la moglie di Rocco. Appena la padrona di casa accese il lume, Marta prese ad osservare con un certo ribrezzo la moribonda, che era pallidissima con la testa affondata nei guanciali, era abbandonata sul letto sporco quanto la camicia aperta sul seno ossuto e orribile da vedere. La moribonda sussurrò a fatica il nome del figlio. Marat disse che bisognava scrivergli di venire subito. Sulla scrivania un bicchiere di mistura verdastra emanava un odore insopportabile era sicuramente veleno che la padrona buttò in cucina. Marat scrisse due righe al marito. Appena arrivò Fifo, il marito della padrona di casa, andò al telegrafo per fare un telegramma a Rocco. Tornò dopo mezz'ora, sia la moribonda che su moglie dormivano. Nel silenzio Marta pensò che se si sarebbe fatta trovare lì suo marito avrebbe pensato che lei volesse accettare la sua proposta, giunse a conclusione che il giorno seguente sarebbe andata via prima che lui arrivasse, ma poi pensò che doveva parlargli perché dopo il suo sacrificio aiutasse sua madre, sarebbe rimasta e gli avrebbe detto tutto. Finalmente spuntò il giorno. Si svegliarono anche donna Maria e suo marito. Lei toccando la moribonda prese a strillare, era fredda si doveva subito chiamare un prete e mandò suo marito a trovarne uno. Mentre rasentavano la camera Marta pensò che il Signore sarebbe andato a benedire la moribonda e che lei, come aveva già fatto Anna Veronica, poteva chiederle perdono per i suoi peccati, ma scacciò subito questo pensiero. All'arrivo del prete la morente non diede nessun segno di cambiamento, e tutti si inginocchiarono intorno al letto per pregare e Marta pianse in silenzio per la suocera.
Capitolo XV
Man mano che le ore passavano l'ansia di Marta cresceva, finalmente nelle prime ore del pomeriggio arrivo Rocco Pentàgora. Era molto dimagrito a causa della malattia che gli aveva lasciato parecchi segni, tuttavia il suo sguardo era ridente, quasi infantile e dopo un silenzio brevissimo la chiamò. Turbata dalla vista del marito così trasfigurato e ingentilito dalla malattia, ma soprattutto sorpresa da quel saluto appassionato del marito, lo ammonì con un cenno del capo, indicandogli il letto della madre morente. Subito l'uomo si avvicinò al letto della madre e sussurrandole parole dolci le bacio la fronte, ma la donna con le sue ultime forze le disse che moriva, allora lui le disse che non era così, e facendo avvicinare questa al letto, disse alla madre che c'erano lui e Marta. Costei trattenendo a stento le lacrime andò dall'altra parte del letto. A questo punto, con lo sguardo perso nel vuoto e sospirando, con uno sforzo grandissimo prese la mano del figlio e quella della nuora e le congiunse. E poco dopo ricadde in uno stato di sonno inspiegabile. Marta ritrasse la sua mano da quella del marito. La signora Juè, che niente aveva capito, disse che lei e il marito approfittavano di quel momento di apparente calma per andare a casa a riposare, e disse che avrebbe pensato a tutto lei, e così lasciarono soli Marta e il marito, questa era estremamente agitata poiché il momento dell'estrema confessione si avvicinava ad ogni respiro. Lui, rimasti soli, aprì le braccia chiamandola a sé, ma lei fece segno di andare in un'altra stanza. Subito le disse se lo perdonava, ma lei le disse che lui sapeva, anche se puoi vedendo la profonda cicatrice sul volto di lui, riportata nel duello con l'Alvignani si sentì mancare e si strinse il volto tra le mani. Allora lui abbracciandola in tono amorevole le chiedeva perdono, ma Marta disse che colpa sua il padre era morto lasciando tre donne sole contro tutto il paese che le infamava, lui sicuro le chiese e disse che avrebbero vissuto tutti insieme come una grande famiglia. a quel punto lei tra i singhiozzi disse che lui doveva pensare alla madre e alla sorella perché lei l'avrebbe lasciato libero, si sarebbe tolta di mezzo. Lui non capendo disse che accettava qualsiasi compromesso purché tornassero insieme, ma lei disse che doveva implorare prima quel perdono, ora lei doveva morire perché a causa sua era divenuta ciò che la gente l'aveva creduta, ciò che la gente la credeva e ciò che la gente continuava a crederla se avesse accettato il suo perdono. Era sempre stata sola e indifesa e comunque avevano continuato a perseguitarla. A quel punto lui le strappò le mani dal viso e in preda all'ira le disse che dunque era vero, ma lei le rispose che non era come pensava lui, era colpa loro, loro l'avevano con le loro infamie, con le ingiurie l'avevano spinta ad accettare il suo aiuto, sapeva bene ciò che voleva, era caduta sotto la loro guerra ed ora doveva pagare per questo, pagare con la morte, ma le stava a cuore sapere chi si sarebbe preso cura di loro che da lei vivevano, gli disse anche che poteva tacere e ingannarlo, invece era stata sincera e in cambio voleva solo che lui si prendesse cura della sua famiglia. Marta corse nella stanza della morente, e lui la seguì e con tono di scherno le chiese perché doveva morire, perché non andava a Roma con colui che l'aveva tanto aiutata, poteva aiutarla ancora. Marat non rispose e gli chiese di non dire certe cose per rispetto della madre che era ancora viva, anche se per poco. Egli tacque e dentro sé si materializzò l'idea di morta manifestata da Marta, sentiva i passi di lui nell'altra stanza e sapeva che con il pensiero stava rivivendo i fatti degli anni passati, lei si aspettava dal marito giustizia per la madre e per la sorella niente di più. Arrivarono gli Juè, poi Marta impaurita suono acuto e lungo emesso dalla donna chiamò il marito, lui accorse ed entrambi si chinarono sul letto, Marta teneva le mani della donna come se volesse confortarla, a un tratto donna Juè chiamò il Pentàgora, ma lui piangeva chiamando al madre, allora il signor Juè così lo portò con sé in un'altra stanza e le due donne vestirono la morta e accesero ai quattro angoli del letto una torcia. Restarono sedute per parecchie ore, poi a un cenno del marito donna Juè disse a Marta che loro andavano e le chiese di fare attenzione alle torce, Marta chiese a sua volta di dire a sua madre di non andare, sarebbero rimasti lei e figlio a vegliare la morta. Rimasti soli, intorno si sentiva solo il silenzio, pensava che non gli importava più niente di lei, era arrivata ora di andare, gli aveva detto tutto tranne del figlio quello era suo, come suo era quello che tanto tempo prima le morì a causa sua. Cadde in ginocchio e scoppiò a piangere sfogando il profondo dolore, stette a piangere fino a che il marito non arrivò nella stanza, a quel puntò si rialzo prese lo scialle e fece per andare. Lui la trattene per un braccio, le chiese dove andava, ma lei non rispose, allora le prese anche l'altra mano e le chiese dove andava. In un impeto di commozione misto a paura avvicinò il suo volta a quello di lei e le disse di non abbandonarlo, lei tentò di allontanarsi, ma non riuscì a sciogliere il suo abbraccio, gli disse che purtroppo quella era la sua fine. Lui urlando le chiese perché e lei rispose che era perché non l'aveva più voluta, ma lui in preda alla passione le disse che ora la voleva. Marta continuava a ripetergli che non era possibile, allora lui le chiese se lo amava ancora lei tra le lacrime disse che mai l'aveva amato e si lasciò cadere su di lui che, la sorresse e guardando la madre le chiese di vegliarla insieme a lui.
l'intreccio: L'intreccio e la fabula coincidono, nel romanzo sono presenti dei brevissimi flashback come quello in cui Rocco pensa alla reazione del padre di Marta (capitolo II); o quello in cui Marta ricorda il ritrovamento della lettera, della reazione del marito e della sua corrispondenza (capitolo IV); oppure quello in cu viene ricordata la storia di Anna Veronica (capitolo V).
delineare il profilo psico-socio-economico dei personaggi:
Marta:è la protagonista del romanzo, viene descritta come una donna molto bella, e dal forte carattere. Prima dello scandalo ( del tutto infondato) del suo tradimento era una donna felice. Di ricca famiglia e sposata a sua volta con un uomo ricco, che le viene imposta dai genitori come suo sposo. Da questa imposizione nasceranno le sue prime ostilità nei confronti della vita, del marito e della società. Dopo un anno di matrimonio viene accusata di tradimento e viene cacciata da casa dal marito, chiede allora asilo nella casa paterna, ma il padre la condanna ciecamente e si rifiuta di renderle giustizia. Marta aspetta un bambino, che però purtroppo nasce morto, e anche lei resta per più di tre mesi tra la vita e la morte. Quando non si e ancora ripresa dalla malattia il suocero e il marito le scatenano contro tutta l'opinione pubblica umiliandola pubblicamente. E una donna particolarmente forte che ha una grande stima di se stessa e spinta della voglia di riscatto e dalla miseria che opprime la sua famiglia studia e vince il concorso di maestra, ma i suoi compaesani che la considerano una persona poco per bene, fanno di tutto per toglierle il posto. A questo punto viene trasferita a Palermo, ma ormai disfatta dalle prove della vita smette di lottare pensando che non potrà mai tornare a vivere la vita di prima dal momento che troppe cose in lei erano cambiate si sentiva esclusa per sempre dalla sua società, nella quale per anni aveva vissuto, e che ora la respingeva la puniva per qualcosa che non aveva fatto. Cerca di lottare per riemergere dalla miseria in cui la società l'aveva gettata, ma viene stritolata dalla stessa, e cade nella colpa di cui tutti, in precedenza, l'avevano accusata. Rimane incinta del suo amante, che però non lo era propriamente in quanto non poteva da lei essere amato perché ormai priva di sentimenti e speranze. Pensa più volte alla morte, si considerava viva per far vivere gli altri, in quanto rappresentava l'unico sostentamento per la madre e la sorella. Nel libro il Pirandello la vuole rappresentare come l'incarnazione degli uomini nella società, questi tentano di misurarsi con questa, ma vengono stritolati da questa. Marta alla fine cede al marito riconciliandosi con lui, infatti dinnanzi al letto di morte di sua suocera viene da questo perdonata.
Rocco:è il marito di Marta, anche lui viene descritto come un uomo bello. Caccia di casa la moglie gravida dopo averla accusata di adulterio, in base al ritrovamento di una lettera che secondo lui e la prova della sua colpevolezza. Anche lui torna nella casa paterna, dove viene accolto molto calorosamente dal padre di cui è succube. Preoccupato solo del suo onore e non della rovina di sua moglie, prima sfida a duello il presunto amante e poi umilia pubblicamente sua moglie. va su tutte le furie quando scopre che la moglie cerca di diventare maestra e in vari modi cerca di persuaderla sempre per preservare il suo onore. E un tipo molto materialista che non pensa quasi mai hai sentimenti, ma soprattutto non pensa a ciò che le sue azioni possono provocare. Dopo che Marta parte a Palermo si ammala di tifo ed e sul punto di morire. Dopo che si riprende è un uomo totalmente diverso e tenta di riconciliarsi con sua moglie, e la perdona anche quando lei gli confessa di essere stata davvero con un altro. Nella vita può essere paragonato alla capacità di cambiamento.
Antonio Pentàgora:è il padre di Rocco e un uomo testardo. Crede che ogni uomo nasca con un destino già definito e quello della sua famiglia è quello di essere traditi dalle rispettive consorti. Ha una sola prospettiva per il futuro quella di essere ben visto dalla gente. Si oppone alla riconciliazione del figlio con la moglie, può quindi essere considerato l'antagonista della storia.
Agata Ajala:è la madre di Marta, viene descritta come una donna dolcissima incapace di opporsi in qualsiasi situazione. Crede all'innocenza della figlia e fa di tutto per appoggiarla. È un personaggio secondario in quanto non partecipa attivamente allo svolgimento dei fatti principali.
Anna Veronica:è l'unica amica della signora Agata che le rimane fedele anche dopo lo scandalo di Marta. Ha una storia simile a quella della ragazza solo che lei non era sposata e rimase incinta di una sconosciuto. Non partecipa attivamente allo svolgimento dei fatti principali, ma e la rappresentazione di quanto un amico con dei consigli possa aiutare nelle situazioni difficili e che proprio da queste situazioni si riconoscono i veri amici.
Gregorio Alvignani:è l'amante di Marta, tiene veramente a lei tanto che è disposto a portarla con sé a Roma per darle una nuova vita, è descritto come un uomo molto colto e preparato che nelle sue lettere e successivamente nella loro relazione ha saputo cogliere in pieno le qualità di Marta .
Altri personaggi:il testo è ricco di altri personaggi minori.
individuare:
a) lo spazio:la prima parte del libro e ambientata in un paesino siciliano di cui non viene scritto nemmeno il nome, mentre la seconda a Palermo.
b) il tempo:alla fine del 1800, intorno al 1890.
VI. Linguaggio e stile:
Il linguaggio e lo stile sono comuni, e il testo e ricco di discorsi diretti con battute brevi e concise.
VII. Il contesto:
descrivere il contesto storico-ambientale a cui si riferisce il testo:il testo è ambientato in un paesino angusto della Sicilia, dove tutti sanno tutto di tutti, l'ambiente ristretto fa in modo che le persone parlino tanto e che lo scandalo si diffonda. È un periodo nel quale la borghesia conta molto e alcune persone hanno un'influenza molto grande sulle società. Ci sono poi dei precisi riferimenti all'Italia unità.
VIII. Il commento:
formulare un breve commento sulla base della su detta analisi. I questo libro per me molto interessante può essere ricondotto alla parte verista della letteratura pirandelliana, in quanto i personaggi e il contesto sono quelli tipici di questa corrente letteraria. Se a questo romanzo viene data una lettura superficiale e disattenta si ha semplicemente la visione di una storia priva di significato, in quanto potrebbe essere interpretata come la storia di una povera donna che accusata ingiustamente di adulterio, viene cacciata di casa dal marito e vive poi un'esistenza resa impossibile dal pettegolezzo della gente. In realtà in questo se si legge tra le righe si nota la classica posizione pirandelliana che vede la vita, soprattutto quella matrimoniale, in maniera molto negativa. Inoltre la fine del romanzo, cioè il perdono del marito dopo che la donna lo aveva veramente tradito, e tipica dell'umorismo pirandelliano. Possiamo inoltre trovare una morale, che vale anche per i nostri tempi e cioè quella che ci dice che noi tentiamo di cambiare il nostro stato, ma la società in cui viviamo non ce lo permette.
Tonara 6 febbraio 2006
Sulis Martina
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