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Traduzione dei capitoli da 82 a 90 del libro terzo del de bello civili di cesare ( la sconfitta di pompeo )




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TRADUZIONE DEI CAPITOLI DA 82 A 90 DEL LIBRO TERZO DEL DE BELLO CIVILI DI CESARE  ( LA SCONFITTA DI POMPEO )




Pompeo giunge in Tessaglia pochi giorni dopo e, tenuto un discorso davanti a tutto l'esercito, ringrazia i suoi ed esorta i soldati di Scipione, dal momento che la vittoria era già assicurata, a essere partecipi della preda e dei premi e, dopo avere riunito in un solo campo tutte le legioni, divide con Scipione l'onore del comando e ordina che anche per lui squillino le trombe e che per lui venga allestita una seconda tenda pretoria. Aumentate le truppe di Pompeo e congiuntisi due grandi eserciti, viene confermata la precedente opinione di tutti e cresce la speranza di vittoria, così che ogni momento che passava sembrava ritardare il ritorno in Italia e se talora Pompeo agiva troppo lentamente o ponderatamente, dicevano che il compimento della guerra non richiedeva che un giorno solo, ma che egli si compiaceva del comando e che teneva in conto di schiavi gli ex consoli e pretori. E già da tempo apertamente contendevano fra loro ricompense civili e cariche religiose e stabilivano i consolati per gli anni successivi; altri richiedevano le case e i beni dei Cesariani. In un consiglio vi fu tra di loro una grande controversia se fosse opportuno tenere conto, nei prossimi comizi pretori, della candidatura di Lucilio Irro, che era assente in quanto mandato da Pompeo presso i Parti; i suoi amici imploravano la lealtà di Pompeo, che mantenesse ciò che gli aveva

promesso alla sua partenza, perché non sembrasse essere stato ingannato per mezzo della sua autorità; gli altri non volevano che uno solo venisse preferito a tutti, quando uguali erano fatiche e pericoli.



Ben presto Domizio, Scipione e Lentulo Spintere, nelle quotidiane

discussioni sulla successione al pontificato di Cesare, giunsero

pubblicamente a gravissime ingiurie verbali: Lentulo ostentava il

privilegio dell'età, Domizio vantava il favore e l'autorità di cui godeva a Roma, Scipione confidava nella parentela con Pompeo. Acuzio Rufo inoltre accusò, presso Pompeo, L. Afranio del tradimento dell'esercito, che diceva essere accaduto in Spagna. E L. Domizio in consiglio disse che era favorevole a che, una volta terminata la guerra, ai senatori che avevano partecipato con loro alla guerra venissero distribuite tre tavolette di voto, per esprimere singoli giudizi su chi era rimasto a Roma o chi, trovandosi nelle terre occupate da Pompeo, non aveva combattuto: una sarebbe stata la tavoletta per assolvere da ogni imputazione; un'altra per condannare a morte, la terza per infliggere multe. In una parola tutti discutevano o delle proprie cariche o delle ricompense in denaro o dei nemici da perseguire e pensavano non in che modo vincere, ma come mettere a frutto la vittoria.



Provveduto al vettovagliamento e rincuorati i soldati, lasciato trascorrere dalla battaglia di Durazzo il tempo necessario per conoscere a sufficienza l'animo dei soldati, Cesare giudicò opportuno di saggiare l'intenzione e la volontà di Pompeo di combattere. E così condusse fuori dal campo l'esercito e lo schierò a battaglia, dapprima in posizioni favorevoli e alquanto lontano dal campo di Pompeo, poi, nei giorni seguenti, allontanandosi dal suo campo e schierando le truppe ai piedi dei colli occupati dai Pompeiani. La qual cosa rafforzava di giorno in giorno il morale del suo esercito. Tuttavia manteneva, per la cavalleria, la medesima disposizione di cui abbiamo detto: poiché i suoi cavalieri erano molto inferiori per numero ordinò che giovani e soldati armati alla leggera, scelti tra gli antesignani, con armi adatte alla velocità, combattessero in mezzo ad essi, affinché con un esercizio quotidiano acquisissero esperienza anche di questo genere di combattimento. Il risultato di ciò fu che un migliaio di cavalieri, impadronitisi della pratica, erano in grado, anche in campo aperto, di sostenere l'impeto di settemila pompeiani senza facilmente spaventarsi per la loro grande superiorità numerica. E infatti in quei giorni combatté con successo una battaglia equestre, uccidendo con alcuni altri Eco, uno dei due Allobrogi, che, come sopra abbiamo detto, si erano rifugiati presso Pompeo.



Pompeo, che aveva il campo sul colle, schierava l'esercito ai piedi di esso, aspettando sempre, come sembrava, che Cesare si esponesse in posizione sfavorevole. Cesare, ritenendo che in nessun modo Pompeo potesse essere trascinato a battaglia, giudicò essere questa per sé la migliore tattica di guerra: muovere il campo da quel posto e stare sempre in marcia, con questi obiettivi: usufruire delle migliori occasioni di approvvigionamento spostando il campo e toccando luoghi diversi e, contemporaneamente, durante la marcia, trovare qualche opportunità di combattimento e, con quotidiane marce, sfinire l'esercito di Pompeo, non abituato alla fatica. Stabilito ciò, dato già il segnale della partenza e smontate le tende, ci si accorse che poco prima, contrariamente alla abitudine di ogni giorno, la schiera di Pompeo si era allontanata un po' troppo dal vallo, così che sembrava che si potesse combattere in posizione non sfavorevole. Allora Cesare, quando già la schiera in ordine di marcia era alle porte, disse ai suoi: 'Dobbiamo rimandare al momento la marcia e pensare al combattimento, come abbiamo sempre desiderato. Siamo pronti a combattere; non facilmente in seguito troveremo l'occasione'. E subito conduce fuori le truppe pronte a combattere.



Anche Pompeo, come poi si venne a sapere, su esortazione di tutti i suoi, aveva stabilito di venire a battaglia. E infatti, anche nel consiglio di guerra, nei giorni precedenti aveva detto che l'esercito di Cesare sarebbe stato annientato prima che le schiere si scontrassero. Essendosi molti meravigliati di questa affermazione, disse: 'So di promettere una cosa quasi incredibile, ma sentite il piano che ho ideato, affinché andiate alla battaglia con animo più saldo. Ho consigliato ai nostri cavalieri, e mi hanno dato assicurazione che lo avrebbero fatto, di dare l'assalto, quando si sia arrivati molto vicini, all'ala destra di Cesare, ossia dalla parte scoperta, e, una volta aggirata la schiera alle spalle, di mettere in fuga l'esercito disorientato prima che dai nostri venga scagliata una freccia contro il nemico. E così senza pericolo per le legioni e quasi

senza spargimento di sangue concluderemo la guerra. La cosa inoltre non è difficile dal momento che siamo tanto più forti nella cavalleria'. Contemporaneamente li ammonì di stare pronti per il giorno successivo e, poiché vi era possibilità di combattere, come spesso avevano chiesto, di non deludere né la sua né l'altrui aspettativa.



Dopo di lui parlò Labieno e, disprezzando le milizie di Cesare, esaltando con somme lodi il piano di Pompeo, disse: 'Non credere, o Pompeo, che questo sia l'esercito che ha vinto la Gallia e la Germania. Io fui presente a tutte le battaglie e non dico sconsideratamente cose non conosciute. Sopravvive una piccolissima parte di quell'esercito; il grosso è andato perduto, il che doveva necessariamente accadere in tante battaglie; molti li ha distrutti in Italia la pestilenza dell'autunno, molti sono tornati a casa, molti sono rimasti nel continente. Forse non avete sentito dire che fra quelli rimasti per motivi di salute sono state formate coorti a Brindisi? Queste milizie che vedete sono state formate con le leve fatte in questi anni nella Gallia Citeriore e la maggiore parte proviene dalle colonie transpadane. Del resto quella che era la sua forza si è perduta nelle due battaglie di Durazzo'. Dopo avere detto ciò, giurò di non fare ritorno al campo se non da vincitore e esortò gli altri a fare lo stesso. Pompeo, lodando questo proposito, fece lo stesso giuramento; e invero fra gli altri non ci fu nessuno che esitò a giurare. Fatto questo nel consiglio di guerra, tutti si allontanarono con grande speranza e gioia; e già pregustavano nel pensiero la vittoria, poiché sembrava che nulla potesse essere garantito invano da parte di un comandante tanto esperto a proposito di un fatto così importante.



Cesare, avvicinatosi al campo di Pompeo, si accorse che l'esercito di costui era schierato in questo modo: sull'ala sinistra vi erano le due legioni mandate da Cesare all'inizio della guerra per decreto del senato, di queste una era detta 'prima', l'altra 'terza'; in quella posizione vi era lo stesso Pompeo. Scipione con le legioni siriache occupava il centro dell'esercito. La coorte cilicia, unita alle coorti spagnole che, come dicemmo, furono condotte da Afranio, era stata collocata all'ala destra. Pompeo pensava che queste fossero le coorti più forti. Aveva collocate le altre fra il centro e le ali e aveva completato l'effettivo con centodieci coorti. Vi erano quarantacinquemila uomini; dei veterani richiamati ve ne erano circa duemila che, esonerati dai lavori pesanti, avevano fatto parte dei precedenti eserciti e ora si erano uniti a lui. Pompeo li aveva distribuiti in tutto l'esercito. Aveva dislocato come presidio nel campo e nei vicini fortilizi le rimanenti sette coorti. Un corso d'acqua dalle rive impraticabili difendeva la sua ala destra; per questo motivo aveva collocato tutta la cavalleria, tutti gli arcieri e i frombolieri sull'ala sinistra.



Cesare, mantenendo l'ordine di battaglia del passato, aveva disposto la decima legione sull'ala destra, la nona sulla sinistra, sebbene fosse stata molto ridotta nelle battaglie di Durazzo; e così a questa aggiunse la legione ottava, facendone appena una di due; e aveva dato l'ordine che l'una fosse di sostegno all'altra. Aveva schierate in linea di battaglia ottanta coorti, il cui contingente era di ventiduemila uomini; aveva lasciato di presidio nel campo sette coorti. Aveva preposto all'ala sinistra Antonio, alla destra P. Silla, al centro Cn. Domizio. Egli stesso si pose di fronte a Pompeo. Non appena si rese conto della tattica bellica nemica che abbiamo detto, temendo che l'ala destra venisse circondata dalla moltitudine dei cavalieri, velocemente levò dalla terza schiera una compagnia per legione e con queste formò una quarta fila che oppose alla cavalleria e indicò che cosa voleva che si facesse: avvertì che la vittoria di quel giorno dipendeva dal valore di quelle coorti. Contemporaneamente ordinò alla terza fila [e a tutto l'esercito] di non andare all'assalto senza il suo comando: quando avesse voluto l'assalto, avrebbe dato il segnale col vessillo.



Esortato l'esercito alla battaglia secondo il costume militare e messi in evidenza i propri meriti verso l'esercito in ogni tempo, principalmente rammentò che poteva provare con la testimonianza dei soldati con quanto zelo aveva cercato la pace, quali trattative aveva condotto per mezzo di Vatinio negli abboccamenti, quali per mezzo di Aulo Claudio con Scipione, in che modo si fosse adoperato con Libone presso Orico perché si mandassero ambasciatori. Egli non aveva mai abusato del sangue dei soldati né aveva voluto privare la repubblica dell'uno o dell'altro esercito. Tenuto questo discorso, poiché i soldati lo richiedevano e ardevano dalla brama di combattere, diede con la tromba il segnale.


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