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Sotto la denominazione di "dialogi" vanno 10 opere, il "De Ira" composto di tre libri e le rimanenti opere di un solo libro per un totale di 12 libri. Il momento dialogico si riduce al fatto che l'autore si rivolge al dedicatario o ad un interlocutore fittizio per rispondere ad eventuali obiezioni (introdotte da formule quali inquis, inquit: tu dirai, quello poterebbe dire), ciò porta a pensare che il titolo di dialogi a questa serie di opere, a differenza di altre con andamento analogo, sia dovuto non a Seneca, ma a un successivo curatore della raccolta.
Lo stile di Seneca presenta notevoli innovazioni rispetto alla prosa classica dimostrando in questo modo la possibilità di staccarsi dai modelli del passato recente: mirando alla predicazione della filosofia, pur essendo cosciente del fatto che una ricerca rigorosa della verità etica esigerebbe una prosa tutta orientata ad esplicitare i contenuti, opta per uno stile che è frutto di un'elaborata ricerca espressiva, il che lo farà accusare di contraddizione tra teoria e pratica. La sua ricerca espressiva, infatti, si sviluppò in due direzioni: l'elaborazione di un linguaggio adeguato a esprimere l'analisi dell'interiorità e l'elaborazione di metodi di persuasione per una filosofia che entrasse nelle coscienze: è perciò cosciente di dovere ricercare i mezzi più adeguati per rivelare la verità imprimendola indelebilmente nel lettore, con il ricorso alle tecniche della retorica e della poesia. Le opere filosofiche di Seneca sono assimilabili alla modalità "diatribica" in quanto si presentano quasi sempre come interventi che vogliono condizionare la volontà di un interlocutore ideale: le obiezioni di questo sono quelle che l'autore ritiene gli possano essere rivolte dai lettori e alle quali risponde. Quella di Seneca è una forma di diatriba nobilitata sul piano dell'elaborazione concettuale e della cura dello stile in quanto il pubblico cui si rivolge è costituito dai membri delle classi alte di Roma, né filosofi specialisti né popolari. Ciò fa si che l'argomentazione possa procedere per linee alquanto libere di aggregazione delle idee e degli sviluppi di pensiero e che su un fondo stoico si innestino venature ciniche ed epicuree. [diatriba: un atteggiarsi della filosofia come discorso teso a influenzare un ascoltatore non specialista, e perciò caratterizzato da largo ricorso agli strumenti di retorica di forte e facile effetto]
Il nuovo tipo di prosa, nervosa, scattante, teso ad evidenziare contraddizioni, paradossi posti da situazioni estreme costruite ad arte o reali, proprio del nuovo "asianesimo" trova in Seneca il primo interprete che facesse di questo stile la forma artistica per esprimere una realtà di vita sperimentata concretamente come nodo di contraddizioni tormentose e insanabili.
Lo stile di Seneca è caratterizzato da frasi brevi che si pongono in serie paratattiche, con marcati parallelismi e antitesi o in un gioco martellante dell'anafora, per sottolineare un concetto, per farlo apparire certo e inconfutabile attraverso una suggestione emotiva che si fonda anche sulle ricorrenze foniche; cerca poi di fissare in frasi ad effetto il nucleo di insegnamento direttamente applicabile nella prassi o nell'atteggiamento mentale del lettore: queste sententiae costituiscono il punto di incontro tra tradizioni formali della diatriba, ragioni di fondo dell'atteggiamento morale di Seneca e il gusto e le tendenze stilistiche della nuova retorica.
Nella predicazione si ha anche un'analisi della condizione spirituale dell'interlocutore e di se stesso e nello stile si riproducono agitazioni e ambiguità di un'interiorità che si sente assediata dai falsi valori.
CONSOLATIONES
Tre opere di questa raccolta costituiscono le prime vere e proprie consolazioni che ci sono pervenute, anche se il genere era già praticato in Grecia e dai latini dell'ultima età repubblicana, tra cui Cicerone. In questo genere Seneca si affida alla forza persuasiva della retorica, con il rischio di cadere nell'enfasi e nell'ovvietà, poiché sono ben pochi gli argomenti in grado di consolare chi è colpito da disgrazia, e poiché la filosofia antica era ritenuta medicina dell'anima in quanto insegnava a dominare i dolori e le passioni con la regione per conseguire la tranquillità dell'animo, considerata la sola condizione di felicità. La struttura consolatoria presenta in tutte e tre le opere motivi comuni. Ad un'ammissione iniziale dell'inevitabilità del dolore segue il richiamo alle ragioni razionali per cui lo si deve accettare: la morte come condizione necessaria della natura umana, la vita come fonte di dolore e la morte come liberazione da esso, l'esempio di persone illustri, il fatto che dobbiamo ringraziare la sorte per quello che ci ha concesso e non lamentarci per quello che ci ha tolto, che non era nostro, la necessità di conseguire il distacco dalle cose della vita proprio del sapiens, attaccato esclusivamente a ciò che è buono, onesto e giusto.
AD MARCIAM
È indirizzata alla figlia di Cremuzio Cordo, storico di ispirazione repubblicana, costretto al suicidio da Seiano nel 25 d.C., che era riuscita a conservare la sua opera e a farla ripubblicare sotto Caligola, e che ora soffriva per la morte, avvenuta tre anni prima, di un figlio. Proprio questo ritardo porta a pensare che lo scopo sia quello di rendere omaggio a Cremuzio Cordo e di dare incoraggiamento a Caligola sulla via della Libertas.
Introduce a fini consolatori il ricordo della forza d'animo del padre, la sublime consapevolezza della vanità delle cose umane raggiunta dal figlio, l'incombere della morte su tutto il cosmo (Ekpyrosis) e sulle stesse anime dei trapassati che si dissolveranno negli elementi primordiali per rifondersi in un nuovo ciclo cosmico.
AD HELVIAM MATREM
Scritto durante il periodo dell'esilio in Corsica per confortare la madre Elvia del dolore per il suo esilio, questo testo, scritto dalla stessa persona che è l'oggetto del compianto, rappresenta una novità letteraria e una prova di forza morale. Esso svolge una funzione consolatoria , autoconsolatoria e pubblicistica di auto difesa.
L'opera si costruisce intorno alla figura del saggio stoico autosufficiente (Autarkeia), che si contenta di ciò che basta per la sopravvivenza fisica (Epicureismo) e che in situazioni estreme sa trovare la felicità in sé stesso, non essendo turbato dalle circostanze esterne: anche la madre è invitata a rifarsi a questo modello spirituale. La tematica consolatoria per il lutto ben si adatta all'esilio: esso non è un male, risponde anzi alla legge cosmica sul mutamento di luogo cui sottostanno i corpi celesti, i popoli e gli individui.
AD POLYBIUM
Indirizzata ad un potente liberto di Claudio, Polibio, per la morte del fratello, questa consolazione segna per Seneca il fallimento: il saggio stoico che era in lui non era ancora abbastanza forte per reggere un distacco così lungo e difficile, e la consolazione si trasforma in supplica e adulazione sia del liberto sia dell'imperatore.
DE IRA
Dall'analisi filosofica delle passioni sorgeva i problema se l'ira fosse da condannare incondizionatamente in quanto passione irrazionale (posizione stoica), o se in certe situazioni fosse apprezzabile (scuola aristotelica): con questo trattato Seneca proclama l'inaccettabilità dell'ira e la necessità di operare sempre secondo ragione. Dopo l'analisi dell'ira e dei suoi effetti nel I e nella prima parte del II libro, si passa a dare molte indicazioni pratiche di tipo preventivo. Il vivace movimento dello stile rappresenta il carattere di originalità dell'opera, la cui linea argomentativa appare a volte poco nitida, in particolare nel III libro riprende in breve i vari motivi dei libri precedenti: l'incoerenza compositiva è attribuita a una retorica di tipo "emozionale".
DE BREVITATE VITAE
Probabilmente scritta dopo il rientro a Roma di Seneca dall'esilio (49 d.C.), l'opera rientra nel genere protrettico, cioè di esortazione alla filosofia.
Il tema è quello dell'uso del tempo: il nostro compito è quello della ricerca della virtù, la vita è sufficiente a perseguire tale scopo, e, perciò, non dobbiamo lamentarci della sua brevità quando noi stessi la abbreviamo sprecando il nostro tempo in occupazioni inutili per ritrovarci dopo anni di vita ad averne vissuto solo pochi giorni. Ne risulta svalutato l'ideale romano dell'impegno civile. Le attività destinate a scopi pratici e l'otium rappresentano una perdita di tempo, solo la contemplazione filosofica consente all'uomo di superare i limiti della temporalità, nella concretezza del presente anche la memoria del passato e la previsione del futuro.
Dalla distinzione tra tempo veramente vissuto e tempo sprecato in una non- vita e dall'idea che il saggio nella contemplazione supera i limiti del tempo si giunge alla concezione esistenziale del tempo stesso come una realtà rapportata alla esperienza soggettiva: l'estensione del tempo è un fatto qualitativo, non quantitativo.
DE COSTANTIA SAPIENTIS
Dedicata a Anneo Sereno, funzionario equestre amico di Seneca, quest'opera cerca di convincere della verità del paradosso stoico secondo il quale il saggio non può essere toccato da alcun danno né da alcuna offesa: ha nella propria razionalità e virtù un bene inattaccabile. L'imperturbabilità presuppone l'autosufficienza (autarkeia) di cui è esempio Stibone, che, perduti nella guerra averi, patria e figli, poteva dire "omnia mea mecum porto". Seneca concede comunque tempo e gradualità all'uomo per accostarsi al modello ideale, quale è anche Catone.
L'argomentazione impressiona perché sostiene con calore e brillantezza di effetti stilistici la praticabilità di un ideale utopico.
DE TRANQUILLITATE ANIMI
Dedicata a Sereno che appare progredito sulla via dello stoicismo, è l'unica opera che si avvicina alla forma del dialogo, inizia con la contraddizione di Sereno che desidera avvicinarsi alla saggezza stoica e che rimpiange ciò che è costretto a lasciare, l'amico la sostiene e lo rafforza ne cammino filosofico con un discorso privo del rigore degli altri trattati.
Seneca identifica una malattia del secolo con l'analisi dello stato di insoddisfazione di sé, di esasperazione e di abbandono nel languore di una coscienza che aspira alla virtù ma tentata dal lusso si sente incapace di raggiungere la meta. Come soluzione propone qui il bilanciamento tra impegno civile e attività intellettuale: al saggio lo stoicismo richiede di cooperare alla realizzazione della virtù nell'interesse generale: ciò, sul piano della vita reale, lo porta a non ritirarsi dal servizio di Nerone.
DE OTIO
Probabilmente dedicata a Sereno ulteriormente progredito nella saggezza stoica, quest'opera è mutila all'inizio e probabilmente alla fine.
Seneca difende qui con decisione il diritto del saggio al disimpegno e alla pura contemplazione, e rivendica la coerenza di questo principio con la dottrina stoica. Il ritiro contemplativo gli pare ora una scelta di ripiego, cui il saggio può essere costretto da circostanze avverse, ma come scelta di dignità forse superiore, che realizza l'aspetto più alto della natura umana: quello della conoscenza razionale dell'universo e della divinità. Nel ritiro, il saggio può, rivelando nuove verità intellettuali e morali, giovare a una comunità più ampia - l'intera umanità - rispetto a quella, limitata e contingente, cui può giovare con l'impegno politico.
DE VITA BEATA
La vita felice è quella che realizza con pienezza la natura umana: è quella dedita all'esercizio della virtù. Il piacere è un falso valore perché non consente l'autosufficienza e la libertà interiore.
Dopo una celebrazione dell'ideale stoico nei suoi aspetti più rigorosi ed elevati, Seneca ammette di non realizzare l'ideale che professa ma rivendica il dovere di predicare i più alti ideali anche se non riesce a realizzarli nella pratica. All'accusa mossagli per le ricchezze accumulate risponde che il filosofo non deve rifiutare le ricchezze, che saprà utilizzare nel modo migliore, ma non deve nemmeno farsene schiavo.
La contraddizione tra vita e filosofia ha sempre segnato la figura di Seneca, questo contrattacco non cancellando le ombre che lo accompagnano, ha il merito di affrontare direttamente il problema del farsi banditore di un ideale che non si realizza compiutamente.
DE PROVIDENTIA
Dedicato a Lucilio, sostiene che le sventure che colpiscono l'uomo buono sono una prova degli dei per la virtù: il saggio è perciò felice delle sventure che non lo possono toccare e che gli servono per mantenere la sua virtù, e se una prova dovesse risultare troppo ardua al saggio sarà sempre aperta la via del suicidio; similmente che con il "De Costantia Sapientis", la tesi utopica è sostenuta con passione intellettuale e grande forza retorica.
Errore. Il segnalibro non è definito.
Appunti su: lo stile di senca risulta caratterizzato da strutture paratattiche, |
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