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Contro l. catilina vol. iii




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CONTRO L. CATILINA vol. III




Capitolo I



È lo Stato, Quiriti, è la vita di voi tutti, sono i beni, le proprietà, le vostre mogli e i vostri figli, è la capitale di un impero al culmine della gloria, è Roma, città che gode della massima fortuna e prosperità, è tutto questo che, oggi, vedete strappato al fuoco e al ferro, quasi alle fauci di un destino funesto, che vedete salvo e a voi restituito grazie alla suprema benevolenza che gli dèi immortali vi concedono e grazie ai miei sforzi, alle mie iniziative, ai pericoli che ho affrontato.

E se il giorno in cui abbiamo salva la vita non ci è meno caro e prezioso del giorno in cui nasciamo, perché è certa la gioia della salvezza, ma incerta la condizione del nascere, e perché nasciamo senza averne consapevolezza, ma ci salviamo con soddisfazione, dal momento che, per riconoscenza, abbiamo elevato al rango degli dèi immortali il fondatore di questa città, sarà doveroso, per voi e i vostri posteri, onorare chi ha salvato questa stessa città, una città che è cresciuta dai tempi della sua fondazione. Avevano quasi ormai appiccato i fuochi tutt'intorno a Roma, nei templi, nei santuari, nelle case, alle mura: li abbiamo spenti. Avevano sguainato le spade contro lo Stato: le abbiamo respinte. Avevano puntato i pugnali alla vostra gola: li abbiamo abbattuti.

Io ho scoperto, messo in luce, illustrato ogni cosa in Senato. Ora, non mi resta che esporvi brevemente i fatti: voi, che ne siete all'oscuro e desiderate esserne informati, potrete così valutarne l'entità, l'evidenza e in che modo siano stati investigati e controllati. Per prima cosa, non appena Catilina, pochi giorni fa, è sparito lasciando a Roma i complici della sua azione criminale, i capi più feroci di questa guerra nefasta, io, Quiriti, ho sempre vigilato e provveduto alla nostra salvezza, pur tra insidie tremende e oscure.



Capitolo II




Infatti, quando cercavo di esiliare Catilina (non temo più di suscitare disapprovazione nel dire «esiliare»; anzi, mi rimprovero che Catilina se ne sia andato vivo), dunque, quando volevo bandirlo, pensavo che tutto il gruppo dei congiurati lo avrebbe seguito oppure che chi rimaneva in città, senza di lui, avrebbe perso forza e sicurezza.

Ma, non appena ho visto che stavano in mezzo a noi, che erano rimasti a Roma gli individui più fanatici e più violenti, come sapevo bene, ho trascorso giorni e notti a spiare cosa facessero, cosa preparassero. Certo che l'enormità del loro crimine vi avrebbe impedito di credere alle mie parole, ho dovuto coglierli sul fatto perché voi, vedendo con i vostri occhi il loro delitto, avreste finalmente provveduto a salvarvi. Così, non appena sono stato informato che Publio Lentulo aveva cercato di corrompere gli ambasciatori degli Allobrogi perché provocassero una guerra al di là delle Alpi e dei tumulti in Gallia Cisalpina; che questi ambasciatori, con lettere e indicazioni a voce, venivano rimandati dal loro popolo in Gallia, sì, ma per la stessa strada che conduce da Catilina; che li accompagnava Tito Volturcio portando con sé lettere per Catilina, ho pensato che mi fosse offerta un'occasione difficilissima a ripetersi, ma che ho sempre chiesto agli dèi immortali: che tutto il complotto fosse colto sul fatto non solo da me, ma anche da voi e dal Senato.

Così, ieri ho convocato i pretori Lucio Flacco e Caio Pomptino, uomini di provato valore e della massima devozione allo Stato. Ho esposto loro la situazione. Li ho messi al corrente del mio piano. Subito, senza indugio, senza alcuna obiezione, perché nutrono per lo Stato i sentimenti più nobili, hanno accettato l'incarico e, sul far della sera, si sono recati segretamente al ponte Milvio. Lì, nascondendosi nelle case vicine, si sono divisi in due gruppi in modo da avere in mezzo il Tevere e il ponte. Senza generare il minimo sospetto, avevano portato con sé molti uomini intrepidi ed io avevo inviato dalla prefettura di Rieti un gruppo di giovani armati, ragazzi scelti della cui opera mi avvalgo spesso per difendere lo Stato.

Erano quasi le tre del mattino, quand'ecco arrivare al ponte Milvio gli ambasciatori degli Allobrogi, con grande seguito, e Volturcio. Vengono subito attaccati. Da entrambe le parti si snudano le spade. Solo i pretori erano al corrente di tutta la vicenda, gli altri la ignoravano.



Capitolo III




Allora, per intervento di Pomptino e Flacco, cessa lo scontro [che era iniziato]. Tutte le lettere trovate in possesso degli uomini del seguito sono consegnate ai pretori con i sigilli intatti. Gli arrestati vengono condotti da me all'alba. Io mando a chiamare immediatamente il perverso ideatore di tutti questi crimini, Cimbro Gabinio, che non sospettava nulla. Poi convoco anche Lucio Statilio e, dopo di lui, Cetego. Per ultimo viene Lentulo forse perché, la notte prima, diversamente dalle sue abitudini, era stato sveglio per scrivere la sua lettera.

Al mattino, i più autorevoli esponenti della nostra città, venuti a conoscenza dell'accaduto, accorrono numerosi a casa mia e mi consigliano di aprire le lettere prima di portarle in Senato: se non avessero rivelato nulla di importante, avremmo evitato di creare inutili agitazioni in città. Mi sono rifiutato: era mio dovere, in una situazione di pericolo pubblico, rimettere la faccenda impregiudicata al Senato. E infatti, Quiriti, anche se non si fosse rivelato esatto quanto mi era stato riferito, ritenevo di non dover temere l'accusa di eccessiva scrupolosità trattandosi di seri pericoli per lo Stato. Ho convocato subito una seduta del Senato che, come avete visto, è stata affollata.

Nel contempo, su consiglio degli Allobrogi, ho mandato in casa di Cetego il pretore Caio Sulpicio, uomo di una certa tempra, a sequestrare le armi che avesse trovato. Ha requisito pugnali e spade a non finire.



Capitolo IV




Introduco Volturcio senza i Galli. Col permesso del Senato, gli garantisco l'impunità. Lo esorto a rivelare senza paura quanto sa. Allora lui, riprendendosi a stento da una gran paura, dice di aver ricevuto da Publio Lentulo delle indicazioni e una lettera per Catilina in cui gli si diceva di ricorrere agli schiavi e dirigersi al più presto a Roma con l'esercito. La loro intenzione era di incendiare la città in ogni zona, come era stato stabilito in partenza, e di procedere al massacro della cittadinanza intera: Catilina doveva trovarsi sul posto per catturare i fuggiaschi e unirsi ai capi rimasti a Roma.

Dopo Volturcio è la volta dei Galli. Affermano che Publio Lentulo, Cetego e Statilio avevano prestato giuramento e consegnato loro delle lettere indirizzate al popolo allobrogico. Insieme a Lucio Cassio chiedevano ai Galli di inviare al più presto la cavalleria in Italia; la fanteria non sarebbe mancata. Lentulo, poi, aveva assicurato che, secondo gli oracoli sibillini e i responsi degli aruspici, era lui il terzo Cornelio destinato ad avere il supremo potere civile e militare su Roma: prima era toccato a Cinna e a Silla. Lentulo aveva pure aggiunto che, nell'anno in corso, il decimo dall'assoluzione delle Vestali e il ventesimo dall'incendio del Campidoglio, si sarebbe consumata l'ineluttabile caduta di Roma e dell'impero.

I Galli riferiscono anche di una discussione sorta tra Cetego e gli altri congiurati: questi ultimi e Lentulo proponevano di fissare il massacro e l'incendio della città per i Saturnali, Cetego trovava questa data troppo lontana.



Capitolo V




Per non dilungarmi troppo, Quiriti, facciamo portare le tavolette che ciascun congiurato avrebbe scritto. Il primo a cui mostriamo il sigillo è Cetego: lo riconosce. Tagliamo lo spago, leggiamo. Aveva scritto di sua mano al Senato e al popolo degli Allobrogi che avrebbe mantenuto le promesse fatte agli ambasciatori; chiedeva agli Allobrogi di adempiere, a loro volta, agli obblighi presi dai loro rappresentanti. Allora Cetego, che sino a poco prima era riuscito a fornire spiegazioni sul rinvenimento in casa sua di spade e di pugnali, dichiarando di essere sempre stato un collezionista di armi pregiate, non appena leggiamo la sua lettera, tace di colpo, schiacciato, stroncato dalla consapevolezza del suo crimine. Viene introdotto Statilio che riconosce il suo sigillo e la sua scrittura. Gli sono lette le tavolette che presentano quasi il medesimo contenuto delle precedenti. Confessa. Allora mostro le tavolette a Lentulo e gli chiedo se riconosce il sigillo. Annuisce. «Lo riconosci certamente», gli dico. «Presenta l'effigie del tuo avo, uomo di grande valore che amò unicamente la patria e i suoi concittadini. Anche muta, questa effigie avrebbe dovuto trattenerti da un crimine così mostruoso!».

Gli viene letta la lettera, di analoga ispirazione, rivolta al Senato e al popolo degli Allobrogi. Gli concedo di parlare, se intende aggiungere qualcosa. Dapprima risponde di no, ma, poco dopo, quando la deposizione viene messa a verbale e letta, si alza in piedi. Chiede ai Galli di chiarire quali legami intercorressero tra di loro e perché fossero venuti a casa sua. Lo stesso fa con Volturcio. I Galli gli rispondono con brevità e con decisione, rivelando il nome di chi li aveva condotti da lui e il numero degli incontri. Gli chiedono, a loro volta, se non abbia niente da dire a proposito degli oracoli sibillini. Allora Lentulo, di colpo, perde la testa di fronte al suo crimine, mostrando quanto sia devastante averne coscienza. Poteva negare l'accusa. Invece confessa, all'improvviso, contro l'opinione di tutti. Così, non solo gli venne a mancare l'acume e l'abilità oratoria, da sempre suoi punti di forza, ma, per la gravità e l'evidenza del suo crimine, lo abbandonarono anche quella protervia e quella mancanza di scrupoli che lo rendevano unico.

A un tratto Volturcio ci chiede di portare la lettera che Lentulo gli avrebbe consegnato per Catilina e di aprirla. Lentulo, anche se profondamente sconvolto, riconosce il suo sigillo e la sua scrittura. La lettera non recava nomi, ma diceva così: «Saprai chi sono da chi ti ho inviato. Cerca di essere uomo e considera sino a che punto ti sei spinto. Ti è chiaro ormai cosa devi fare. Assicùrati l'appoggio di tutti, anche dei più umili». Poi viene convocato Gabinio, che inizia a rispondere con arroganza, ma alla fine non nega nessuna delle accuse dei Galli.

Del resto, Quiriti, se tavolette, sigilli, scritture e infine la confessione di ciascuno mi sembravano prove inconfutabili, molto più lo erano il pallore, gli occhi, l'espressione, il silenzio di questi uomini. Erano così sbalorditi, gli occhi piantati a terra, gli sguardi furtivi da uno all'altro, che le accuse sembravano muovere da loro stessi più che dagli altri.



Capitolo VI


Messe a verbale e lette le deposizioni, Quiriti, ho chiesto al Senato che decisioni intendesse prendere nell'interesse dello Stato. I primi a intervenire si sono espressi con la massima durezza e la loro posizione è stata approvata all'unanimità dal Senato. Dal momento che non è stato ancora redatto il verbale, Quiriti, vi riporterò a memoria come si è svolta la seduta.

Per prima cosa, mi vengono rivolti i più vivi ringraziamenti perché con coraggio, intelligenza e lungimiranza ho liberato lo Stato da pericoli gravissimi. Ricevono meritate lodi anche i pretori Lucio Flacco e Caio Pomptino per aver collaborato alla mia azione con forza e lealtà. Si elogia anche il mio eccellente collega, per aver troncato ogni rapporto pubblico e privato con i congiurati. Si decide inoltre di mettere agli arresti domiciliari Publio Lentulo, dimessosi dalla carica di pretore, e pure Caio Cetego, Lucio Statilio e Publio Gabinio, che erano tutti presenti. Lo stesso provvedimento è deciso per Lucio Cassio, che si era assunto l'incarico di incendiare la città; per Marco Cepario, accusato di aver ricevuto il compito di portare alla rivolta i pastori della Puglia; per Publio Furio, uno dei coloni insediati da Silla nelle terre di Fiesole; per Quinto Annio Chilone, che, insieme a Furio, si era sempre prodigato nella collusione con gli Allobrogi; per Publio Umbreno, il liberto, che per la prima volta avrebbe accompagnato i Galli da Gabinio. Il Senato ha agito con indulgenza, Quiriti. Ha ritenuto infatti che condannare solo i nove uomini più corrotti, quando la congiura è così estesa e i nemici interni così numerosi, avrebbe potuto far ricredere tutti gli altri, una volta assicurata la salvezza dello Stato.

E, in mio onore, è stata anche decretata una cerimonia di ringraziamento agli dèi immortali per il loro aiuto decisivo: è la prima volta dalla fondazione di Roma che viene tributata a un civile. La motivazione è la seguente: «Per aver salvato la città dall'incendio, i cittadini dal massacro, l'Italia dalla guerra». Se confrontiamo questo ringraziamento con quelli del passato, la differenza è che gli altri vennero decretati per vittorie militari, questo, ed è l'unico, per la salvezza dello Stato. È stato fatto quello che prima di tutto bisognava fare. Publio Lentulo, benché, a seguito di prove inconfutabili, della sua confessione e della sentenza del Senato, avesse già perso non solo la carica di pretore, ma anche i diritti civili, si è dimesso. Ci siamo liberati così, nel punirlo come privato cittadino, di quello scrupolo che non aveva comunque impedito al glorioso Caio Mario di uccidere un pretore, Caio Glaucia, contro il quale non era stata pronunciata nessuna sentenza.



Capitolo VII




Ora che avete catturato e messo agli arresti gli ignobili capi della più scellerata e pericolosa delle guerre, potete convincervi, Quiriti, che tutte le truppe di Catilina, tutte le sue speranze e risorse sono crollate, una volta rimossi questi pericoli della città. Quando lo cacciavo da Roma, prevedevo, Quiriti, che con Catilina lontano non avrei dovuto temere quell'infingardo di Lentulo o quel grassone di Cassio o quel pazzo temerario di Cetego. Tra tutti questi solo Catilina dovevamo temere, ma finché fosse rimasto dentro le mura cittadine. Conosceva tutto. Si insinuava ovunque. Sapeva chiamare a sé, tentare, corrompere e osava farlo. Per indole era portato al male e all'indole univa la forza e l'eloquenza. Disponeva di uomini fidati, selezionati per missioni speciali. Se affidava un incarico ad altri, lo considerava come non attuato: non c'era niente cui non intervenisse direttamente, cui non fosse presente, cui non vigilasse senza risparmio. Sapeva sopportare il freddo, la sete, la fame.

Era così risoluto, temerario, spregiudicato, astuto, prudente nei delitti e cauto nelle azioni disperate che, se non lo avessi tenuto lontano dagli intrighi interni e costretto a una guerra da banditi (sarò sincero, Quiriti), difficilmente avrei allontanato dal vostro capo una tal mole di mali! Lui non ci avrebbe condannati per il giorno dei Saturnali, non avrebbe reso nota con tanto anticipo la data della fine dello Stato, non avrebbe fatto cadere in mano nostra sigilli e lettere a prova inconfutabile del suo crimine! Ora che non è qui, la crisi è stata controllata in modo tale che in una casa privata non abbiamo mai scoperto un furto con tanta evidenza come è stata scoperta e colta in flagrante questa pericolosa congiura contro lo Stato. Se Catilina fosse rimasto a Roma sino a oggi, benché io sia intervenuto a oppormi a tutti i suoi piani, finché era qui, avremmo dovuto comunque affrontarlo, a dir poco, e non avremmo liberato lo Stato da enormi pericoli con tanta tranquillità, calma, silenzio, avendolo come nemico dentro la città.



Capitolo VIII




Eppure, Quiriti, da come ho condotto la vicenda sembra che siano intervenuti gli dèi immortali a disporla e a risolverla con la loro volontà e saggezza. Se ci riflettiamo possiamo convincercene, perché sembra davvero difficile che la mente umana sia in grado di governare fatti tanto complessi. Ma gli dèi, standoci accanto in tali circostanze, ci hanno offerto aiuto e protezione al punto che potevamo quasi vederli con i nostri occhi. Non intendo parlarvi di fenomeni come meteore apparse di notte a illuminare a occidente il cielo; non voglio ricordare fulmini e terremoti, né parlare di altri fatti che si sono verificati con frequenza durante il mio consolato e che sembravano quasi il preannuncio divino degli eventi capitati ora. Un episodio, Quiriti, non va taciuto né dimenticato. Ve lo racconto.

Ricordate sicuramente che, durante il consolato di Cotta e di Torquato, alcuni fulmini hanno colpito vari monumenti sul Campidoglio, le immagini degli dèi sono state rovesciate, le statue degli antichi eroi abbattute, le tavole bronzee delle leggi fuse ed è stata danneggiata, sul Campidoglio, anche la stuata d'oro del fondatore della nostra città, Romolo, che, come rammentate, è raffigurato bambino mentre tende le labbra alle mammelle della lupa. In quell'occasione gli aruspici, fatti venire dall'intera Etruria, ci dissero che stavano per verificarsi stragi, incendi, la fine delle leggi, una guerra civile, la caduta di Roma e dell'impero, a meno che gli dèi immortali, placati in ogni modo, non avessero interceduto a piegare con la loro potenza quasi il destino stesso.

In seguito alle loro profezie, abbiamo celebrato giochi per dieci giorni senza trascurare niente che potesse placare gli dèi. Gli aruspici ci consigliarono anche di costruire una statua di Giove di dimensioni maggiori e di collocarla in alto e, contrariamente al passato, di volgerla a oriente. Speravano che se la statua, che vedete, avesse guardato verso il sorgere del sole, verso il Foro e la Curia, le manovre ordite nell'ombra contro Roma e l'impero sarebbero state messe in luce così chiaramente da risultar visibili al Senato e al popolo di Roma. Quei consoli hanno disposto così l'erezione della nuova statua, ma i lavori sono stati così lenti che essa non è stata collocata né dai consoli che mi hanno preceduto né da me prima di oggi.



Capitolo IX




Chi dunque, Quiriti, può essere tanto lontano dal vero, tanto sconsiderato, tanto insensato da negare che tutto ciò che cade sotto la nostra vista e in particolare Roma siano governati dalla volontà, dalla potenza degli dèi immortali? Quando, infatti, si prediceva che venivano preparate stragi, incendi, la fine della repubblica, e questo per iniziativa di cittadini, ad alcuni tali crimini apparivano troppo grandi per essere credibili. Ma ora avete appurato che tali delitti sono stati non solo ideati da cittadini esecrabili, ma addirittura messi in opera! E non è un segno così evidente, da sembrare un'espressione della volontà di Giove Ottimo Massimo, il fatto che questa mattina, mentre i congiurati e i loro accusatori venivano tradotti al tempio della Concordia per il Foro, come avevo ordinato, in quel momento veniva posta la statua? Non appena è stata collocata e rivolta verso di voi e il Senato, avete visto che tutti gli intrighi orditi contro il bene della collettività sono stati scoperti e messi in luce.

Ecco perché meritano ancor più l'odio e la morte questi individui che non solo hanno cercato di appiccare fiamme empie e funeste alle vostre case, alle vostre abitazioni, ma anche ai templi, ai santuari degli dèi. Se dicessi di averli fermati io, sarei presuntuoso, atteggiamento imperdonabile. È stato Giove a fermarli, lui solo! Giove ha voluto salvare il Campidoglio, i templi, la città intera, voi tutti! Guidato dagli dèi immortali, io mi sono limitato a prendere decisioni e sono arrivato a disporre di prove schiaccianti. In verità, la corruzione degli Allobrogi non sarebbe stata tentata, né Lentulo e gli altri nemici dello Stato avrebbero dato con tanta sconsideratezza informazioni della massima importanza a degli sconosciuti, a dei barbari, e consegnato loro delle lettere, se gli dèi immortali non avessero privato del senno uomini così temerari. Che dire di più? Se dei Galli appartenenti a un popolo non del tutto sottomesso (l'unico rimasto che è forse in grado di dichiarare guerra ai Romani e non sembra escluderlo) hanno rinunciato a sperare nell'indipendenza e in altri considerevoli vantaggi offerti loro dai patrizi e hanno anteposto la vostra salvezza ai loro interessi, ebbene, non credete forse che questo sia avvenuto per volontà divina, quando invece avrebbero potuto vincerci senza combattere, solo tacendo?



Capitolo X




E allora, Quiriti, festeggiate questi giorni con le vostre mogli e i vostri figli, dal momento che sono state decise cerimonie di ringraziamento in ogni tempio! Spesso abbiamo tributato onoranze agli dèi immortali, giustamente, sì, ma mai come ora. Infatti, siete stati strappati alla fine più crudele e più orribile, strappati senza morti, senza sangue, senza eserciti, senza combattimenti. Con la toga avete vinto, grazie a uno solo, a me, comandante in toga.

Ricordate infatti, Quiriti, tutte le guerre civili, non solo quelle di cui avete sentito parlare, ma anche quelle di cui voi stessi serbate memoria e cui avete assistito. Lucio Silla uccise Publio Sulpicio, [cacciò da Roma] Caio Mario, il difensore di Roma, molti uomini valorosi in parte li bandì e in parte li eliminò. Il console Cneo Ottavio espulse dalla città, con la forza delle armi, il suo collega; tutto lo spazio che avete sotto gli occhi fu pieno di cadaveri ammassati uno sull'altro e del sangue dei cittadini. Poi Cinna ebbe il potere con Mario; allora, davvero, furono eliminati gli uomini più in vista, furono spente le luci della città. In seguito Silla si vendicò della ferocia di questa vittoria. Non starò a dire con quante perdite tra i cittadini e con quanta rovina per lo Stato. Marco Lepido entrò in conflitto con Quinto Catulo, uomo che si distingueva per fama e valore; non fu tanto la sua morte ad arrecar dolore allo Stato, quanto quella dei suoi.

Eppure, tutte queste lotte non miravano a distruggere lo Stato, ma a cambiarlo. Non si voleva abbatterlo, ma primeggiare in uno Stato vivo, non si voleva dare alle fiamme Roma, ma distinguersi in Roma. [E tutte queste lotte, di cui nessuna intendeva annientare lo Stato, furono tali da risolversi non con il ristabilimento della concordia sociale, ma con l'uccisione dei cittadini.] Invece, in questa guerra, l'unica a memoria d'uomo ad essere così vasta e feroce e tale che nessun popolo barbaro l'ha mai mossa contro la sua gente, una guerra in cui Lentulo, Catilina, Cetego e Cassio hanno stabilito di annoverare tra i nemici tutti gli uomini la cui salvezza avrebbe consentito di salvare lo Stato, ebbene, Quiriti, in questa guerra io mi sono mosso per assicurare a voi tutti la salvezza. E anche se i vostri nemici pensavano che sarebbero sopravvissuti solo quei cittadini che fossero scampati a una strage infinita e quella parte di città che si fosse sottratta alle fiamme, io ho salvato Roma, io ho salvato la cittadinanza!

Capitolo XI




A ricompensa della mia opera, Quiriti, non vi chiedo nessun premio al valore, nessuna dimostrazione di onore, nessuna testimonianza di lode, ma solo che sia eterno il ricordo di questa giornata. È dentro il vostro cuore che desidero che siano riposti e conservati i miei trionfi, tutte le attestazioni di onore, le testimonianze di gloria, i riconoscimenti di stima! Nessuna cosa che sia muta, priva di parola può darmi gioia, insomma niente che uomini anche meno degni potrebbero ottenere. Sarà il vostro ricordo, Quiriti, ad alimentare la mia impresa, la parola a farla crescere, le opere letterarie ad accompagnarla negli anni e a renderla grande. Penso che l'esistenza di Roma e il ricordo del mio consolato vivranno insieme per lo stesso tempo, spero per l'eternità. E penso altresì che siano vissuti nel nostro Stato, nella stessa epoca, due uomini dei quali uno ha esteso i confini del vostro impero non sulla terra, ma nelle regioni celesti, l'altro ha salvato la sede dell'impero.



Capitolo XII




Ma dal momento che, dopo tutto quello che ho fatto, la mia posizione è ben diversa da chi ha combattuto all'estero, perché io devo vivere a fianco di coloro che ho vinto e domato e non mi lascio alle spalle nemici morti o ridotti all'impotenza, è vostro dovere, Quiriti, provvedere affinché un domani il mio operato non si ritorca contro di me, quando gli altri traggono profitto dalle loro imprese. Io ho provveduto perché non vi nuocessero i piani scellerati e nefandi degli individui più temerari. Ora sta a voi provvedere alla mia incolumità. È pur vero, Quiriti, che nessuno di costoro è in grado di nuocermi. Perché è grande la protezione che viene dagli onesti: me la garantiranno in ogni momento. Grande è l'autorità dello Stato: tacita, mi difenderà per sempre. Grande è la forza della coscienza: chi la trascurerà volendo nuocermi, denuncerà se stesso.

Non sono abituato a cedere di fronte alla temerarietà di nessuno, Quiriti: al contrario sono io che sfido incessantemente chiunque sia colpevole. E se l'attacco dei nemici interni, che ho stornato da voi, dovesse ricadere su me solo, starà a voi, Quiriti, decidere quale sorte volete riservare a chi si è esposto all'impopolarità e a pericoli di ogni sorta per la vostra salvezza. Quanto a me, quali vantaggi potrei ancora conseguire se nelle cariche pubbliche, che siete voi a concedere, e nella gloria, che dipende dal merito personale, non c'è nulla di più alto cui io possa aspirare?

Il mio obiettivo, Quiriti, quando tornerò ad essere un privato cittadino, sarà di difendere e di consolidare il mio operato di console in modo che se, nel tutelare le istituzioni, mi sono attirato dell'impopolarità, questa ricada sui miei oppositori e arrechi a me gloria. Per finire, la mia condotta politica sarà tesa a non smentire la mia impresa: cercherò di non farla sembrare casuale, ma frutto del mio valore. Cala la notte, Quiriti. Dopo aver pregato Giove, protettore vostro e di questa città, tornate alle vostre case e continuate a difenderle con turni di guardia come la notte passata, anche se il pericolo è ormai scongiurato. Che non dobbiate farlo troppo a lungo e che possiate vivere per sempre in pace, sarà compito mio, Quiriti.


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