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La Gallia è, nel suo complesso, divisa in tre parti: la prima la abitano i Belgi, l'altra gli Aquitani, la terza quelli che nella loro lingua prendono il nome di Celti, nella nostra, di Galli. I tre popoli differiscono tra loro per lingua, istituzioni e leggi. Il fiume Garonna divide i Galli dagli Aquitani, la Marna e la Senna li separano dai Belgi. Tra i vari popoli i più forti sono i Belgi, ed eccone i motivi: sono lontanissimi dalla finezza e dalla civiltà della nostra provincia; i mercanti, con i quali hanno scarsissimi contatti, portano ben pochi fra i prodotti che tendono a indebolire gli animi; confinano con i Germani d'oltre Reno e con essi sono continuamente in guerra. Anche gli Elvezi superano in valore gli altri Galli per la stessa ragione: combattono con i Germani quasi ogni giorno, o per tenerli lontani dai propri territori o per attaccarli nei loro. La parte in cui, come si è detto, risiedono i Galli, inizia dal Rodano, è delimitata dalla Garonna, dall'Oceano, dai territori dei Belgi, raggiunge anche il Reno dalla parte dei Sequani e degli Elvezi, è volta a settentrione. La parte dei Belgi inizia dalle più lontane regioni della Gallia, si estende fino al corso inferiore del Reno, guarda a settentrione e a oriente. L'Aquitania, invece, va dalla Garonna fino ai Pirenei e alla parte dell'Oceano che bagna la Spagna, è volta a occidente e a settentrione.
Tra gli Elvezi il più nobile e il più ricco in assoluto fu Orgetorige. Costui, al tempo del consolato di M. Messala e M. Pisone, mosso dal desiderio di regnare, spinse i nobili a fare lega e convinse il popolo a emigrare in massa: sosteneva che avrebbero potuto impadronirsi dell'intera Gallia con estrema facilità, poiché erano più forti di tutti. Li persuase più facilmente perché, da ogni parte, gli Elvezi sono bloccati dalla conformazione naturale della regione: da un lato sono chiusi dal Reno, fiume assai largo e profondo, che divide le loro terre dai Germani; dall'altro incombe su di essi il Giura, un monte altissimo, al confine tra Elvezi e Sequani; dal terzo lato sono chiusi dal lago Lemano e dal Rodano, che li separa dalla nostra provincia. Ne conseguiva che potevano compiere solo brevi spostamenti e attaccare i popoli limitrofi con maggiore difficoltà. Sotto questo aspetto gli Elvezi, gente con la voglia di combattere, erano profondamente scontenti. Inoltre, mi rapporto al loro numero e alla gloria della loro potenza militare, ritenevano di possedere territori troppo piccoli, che si estendevano per duecentoquaranta miglia in lunghezza e centottanta in larghezza.
Spinti da tali motivi e indotti dal prestigio di Orgetorige, gli Elvezi decisero di preparare ciò che serviva per la partenza: comprarono quanti più giumenti e carri fosse possibile, seminarono tutto il grano che gli riuscì di seminare, per averne a sufficienza durante il viaggio, rafforzarono i rapporti di pace e di amicizia con i popoli più vicini. Ritennero che due anni fossero sufficienti per portare a termine i preparativi: con una legge fissarono la partenza al terzo anno. Per eseguire tali operazioni viene scelto Orgetorige, che si assume il compito di recarsi in ambasceria presso gli altri popoli. Durante la sua missione, il sequano Castico, figlio di Catamantalede, che era stato per molti anni signore dei Sequani e aveva ricevuto dal senato del popolo romano il titolo di amico, venne persuaso da Orgetorige a impadronirsi del regno che in precedenza era stato del padre. Allo stesso modo Orgetorige convince ad analoga azione l'eduo Dumnorige, al quale dà in sposa sua figlia. Dumnorige era fratello di Diviziaco, a quel tempo principe degli Edui e amatissimo dal suo popolo. Orgetorige dimostra a Castico e a Dumnorige che è assai facile portare a compimento l'impresa, perché egli stesso sta per prendere il potere: gli Elvezi, senza dubbio, erano i più forti tra tutti i Galli. Assicura che con le sue truppe e con il suo esercito avrebbe procurato loro il regno. Spinti dalle sue parole, si scambiano giuramenti di fedeltà, sperando, una volta ottenuti i rispettivi domini, di potersi impadronire di tutta la Gallia mediante i tre popoli più potenti e più forti.
Un delatore svelò l'accordo agli Elvezi. Secondo la loro usanza, essi costrinsero Orgetorige a discolparsi incatenato: se lo avessero condannato, la pena comportava il rogo. Nel giorno stabilito per il processo, Orgetorige fece venire da ogni parte tutti i suoi familiari e servi, circa diecimila persone, nonché tutti i suoi clienti e debitori, che erano molto numerosi. Grazie a essi riuscì a sottrarsi all'interrogatorio. Mentre il popolo, adirato per l'accaduto, cercava di far valere con le armi il proprio diritto e i magistrati radunavano dalle campagne una grande moltitudine di uomini, Orgetorige morì. Non mancò il sospetto, secondo l'opinione degli Elvezi, che si fosse suicidato.
Dopo la morte di Orgetorige, gli Elvezi cercano ugualmente di attuare il progetto di abbandonare il loro territorio. Quando ritengono di essere ormai pronti per la partenza, incendiano tutte le loro città, una dozzina, i loro villaggi, circa quattrocento, e le singole case private che ancora restavano; danno fuoco a tutto il grano, a eccezione delle scorte che dovevano portare con sé, per essere più pronti ad affrontare tutti i pericoli, una volta privati della speranza di tornare in patria; ordinano che ciascuno porti da casa farina per tre mesi. Persuadono i Rauraci, i Tulingi e i Latobici, con i quali confinavano, a seguire la loro decisione, a incendiare le città e i villaggi e a partire con loro. Accolgono e si aggregano come alleati i Boi, che si erano stabiliti al di là del Reno, erano passati nel Norico e avevano assediato Noreia.
Le strade, attraverso le quali gli Elvezi potevano uscire dal loro territorio, erano in tutto due: la prima, stretta e difficoltosa, attraversava le terre dei Sequani tra il monte Giura e il Rodano e permetteva, a stento, il transito di un carro per volta; inoltre, il Giura incombeva su di essa a precipizio, in modo tale che pochissimi bastavano facilmente a impedire il passaggio; la seconda attraversava la nostra provincia ed era molto più agevole e rapida, perché tra i territori degli Elvezi e degli Allobrogi, da poco pacificati, scorre il Rodano, che in alcuni punti consente il guado. Ginevra è la città degli Allobrogi più settentrionale e confina con i territori degli Elvezi, ai quali è collegata da un ponte. Gli Elvezi, per garantirsi via libera, pensavano di persuadere gli Allobrogi, che non sembravano ancora ben disposti verso i Romani, o di obbligarli con la forza. Ultimati i preparativi per la partenza, stabiliscono la data in cui avrebbero dovuto riunirsi tutti sulla riva del Rodano: cinque giorni prima delle calende di aprile, nell'anno del consolato di L. Pisone e A. Gabinio.
Cesare, appena informato che gli Elvezi si proponevano di attraversare la nostra provincia, affretta la sua partenza da Roma, si dirige a marce forzate, con la massima rapidità, verso la Gallia transalpina e giunge a Ginevra. Ordina che tutta la provincia fornisca il maggior numero possibile di soldati (in Gallia transalpina c'era una sola e unica legione) e dà disposizione di distruggere il ponte che sorgeva nei pressi della città. Gli Elvezi, conosciuto il suo arrivo, gli inviano come ambasciatori i cittadini più nobili, con in testa Nammeio e Veruclezio, incaricati di dirgli che, poiché non esisteva altro cammino, erano intenzionati ad attraversare la provincia senza arrecare danni e gliene chiedevano licenza. Cesare, memore che gli Elvezi avevano ucciso il console L. Cassio e costretto l'esercito romano, dopo averlo sconfitto, a subire l'onta del giogo, non riteneva giusto concedere il permesso; inoltre, era convinto che questa gente dall'animo ostile non si sarebbe astenuta da offese e danni, una volta concessa la facoltà di attraversare la provincia. Tuttavia, per guadagnare tempo fino all'arrivo dei soldati da lui richiesti, risponde agli ambasciatori che si riservava qualche giorno di tempo per decidere: se a loro andava bene, ritornassero alle idi di aprile.
Nel frattempo, impiegando la legione al suo seguito e i soldati giunti dalla provincia, Cesare scava un fossato ed erige un muro lungo diciannove miglia e alto sedici piedi, dal lago Lemano, che sbocca nel Rodano, fino al monte Giura, che divide i territori dei Sequani dagli Elvezi. Ultimata l'opera, dispone presidi e costruisce ridotte per respingere con maggior facilità gli Elvezi, se avessero tentato di passare suo malgrado. Quando giunse il giorno fissato con gli ambasciatori ed essi ritornarono, Cesare disse che, conforme alle tradizioni e ai precedenti del popolo romano, non poteva concedere ad alcuno il transito attraverso la provincia e si dichiarò pronto a impedir loro il passaggio nel caso cercassero di far ricorso alla forza. Gli Elvezi, persa questa speranza, cercarono di aprirsi un varco sia di giorno, sia, più spesso, di notte, o per mezzo di barche legate insieme e di zattere, che avevano costruito in gran numero, o guadando il Rodano nei punti in cui era meno profondo. Respinti dalle fortificazioni e dall'intervento dei nostri soldati, rinunciarono ai loro tentativi.
Agli Elvezi rimaneva solo la strada attraverso le terre dei Sequani; contro il loro volere, però, non avrebbero potuto passare, perché era troppo stretta. Da soli non sarebbero riusciti a persuadere i Sequani, perciò mandarono degli emissari all'eduo Dumnorige, per ottenere via libera grazie alla sua intercessione. Dumnorige era molto potente presso i Sequani per il favore di cui godeva e per le sue elargizioni, ed era amico degli Elvezi perché aveva preso in moglie una elvetica, la figlia di Orgetorige; inoltre, spinto dalla brama di regnare, tendeva a novità politiche e voleva, mediante i benefici resi, tenere legati a sé quanti più popoli possibile. Perciò, si assume l'incarico e ottiene che i Sequani concedano agli Elvezi il permesso di transito e che le due parti si scambino ostaggi: i Sequani per non ostacolare gli Elvezi durante l'attraversamento del paese, gli Elvezi per attraversarlo senza provocare offese o danni.
A Cesare viene riferito il disegno degli Elvezi di attraversare i territori dei Sequani e degli Edui per spingersi nella regione dei Santoni, non lontani dai Tolosati, un popolo stanziato nella nostra provincia. Si rendeva conto che, se ciò fosse accaduto, la presenza di uomini bellicosi e ostili, al confine di quelle zone pianeggianti ed estremamente fertili, avrebbe rappresentato un grave pericolo per la provincia. Di conseguenza, posto il legato T. Labieno a capo delle fortificazioni costruite, si dirige a marce forzate in Italia, dove arruola due legioni e ne mobilita altre tre, che svernavano nei pressi di Aquileia. Con le cinque legioni si dirige nella Gallia transalpina per la via più breve, attraverso le Alpi. Qui i Ceutroni, i Graioceli e i Caturigi, appostatisi sulle alture, tentano di sbarrare la strada al nostro esercito. Respinti questi popoli in una serie di scontri, da Ocelo, la più lontana città della Gallia cisalpina, Cesare dopo sei giorni di marcia giunge nel territorio dei Voconzi, nella Gallia transalpina. Da qui conduce l'esercito nelle terre degli Allobrogi e, poi, dei Segusiavi, il primo popolo fuori della provincia, al di là del Rodano.
Gli Elvezi, oltrepassati con le loro truppe gli impervi territori dei Sequani, erano giunti nella regione degli Edui e ne devastavano i campi. Gli Edui, non essendo in grado di difendere se stessi, né i propri beni, inviano a Cesare un'ambasceria per chiedergli aiuto: in ogni circostanza avevano acquisito meriti presso il popolo romano, perciò non avrebbero dovuto vedere, quasi al cospetto del nostro esercito, i loro campi saccheggiati, i loro figli asserviti, le loro città espugnate. Nello stesso tempo gli Ambarri, affini per razza agli Edui, informano Cesare che i loro campi erano stati devastati e che essi difficilmente avrebbero potuto tenere lontane dalle loro città le forze nemiche. Allo stesso modo gli Allobrogi, che al di là del Rodano avevano villaggi e possedimenti, fuggono e si rifugiano da Cesare, dicendogli che nulla rimaneva loro, se non la terra dei campi. Cesare, spinto da tali notizie, decide di non dover aspettare che gli Elvezi giungano nei territori dei Santoni, dopo aver distrutto tutti i beni degli alleati di Roma.
C'è un fiume, la Saona, che scorre attraverso i territori degli Edui e dei Sequani e si versa nel Rodano con incredibile placidità, tanto che a occhio non è possibile stabilire quale sia il senso della corrente. Gli Elvezi lo stavano attraversando con zattere e imbarcazioni legate. Cesare, non appena fu informato dagli esploratori che i tre quarti degli Elvezi erano già sull'altra sponda e che circa un quarto era rimasto al di qua della Saona, dopo mezzanotte partì dall'accampamento con tre legioni e raggiunse gli Elvezi che non avevano ancora varcato il fiume. Li colse alla sprovvista, mentre erano ancora impacciati dalle salmerie: ne uccise la maggior parte, i superstiti fuggirono e si nascosero nelle selve circostanti. Questa tribù (infatti, il popolo degli Elvezi si divide, nel suo complesso, in quattro tribù) si chiamava dei Tigurini. I Tigurini, all'epoca dei nostri padri, erano stati gli unici a sconfinare, avevano ucciso il console L. Cassio e sottoposto i suoi soldati all'onta del giogo. Così, o per caso o per volontà degli dèi immortali, la prima a pagare le proprie colpe fu proprio la tribù che aveva inferto al popolo romano una memorabile sconfitta. Cesare vendicò non solo le offese pubbliche, ma anche quelle private, perché i Tigurini, nella stessa battaglia in cui era morto Cassio, avevano ucciso il legato L. Pisone, avo di suo suocero L. Pisone.
Dopodiché, per poter raggiungere le rimanenti truppe degli Elvezi, Cesare ordina di costruire un ponte sulla Saona e, così, trasborda sull'altra riva le sue truppe. Gli Elvezi, scossi dal suo arrivo repentino, quando si resero conto che per attraversare il fiume a Cesare era occorso un giorno solo, mentre essi avevano impiegato venti giorni di enormi sforzi, gli mandarono degli ambasciatori. Li guidava Divicone, già capo degli Elvezi all'epoca della guerra di Cassio. Divicone parlò a Cesare in questi termini: se il popolo romano siglava la pace con gli Elvezi, essi si sarebbero recati dove Cesare avesse deciso e voluto, per rimanervi; se, invece, continuava con le operazioni di guerra, si ricordasse sia del precedente rovescio del popolo romano, sia dell'antico eroismo degli Elvezi. Aveva attaccato all'improvviso una sola tribù, quando gli uomini ormai al di là del fiume non potevano soccorrerla: non doveva, dunque, attribuire troppo merito, per la vittoria, al suo grande valore, o disprezzare gli Elvezi, che avevano imparato dai padri e dagli avi a combattere da prodi più che con l'inganno o gli agguati. Perciò, non si esponesse al rischio che il luogo dove si trovavano prendesse il nome e tramandasse alla storia la disfatta del popolo romano e il massacro del suo esercito.
A tali parole Cesare così rispose: tanto meno doveva esitare, perché ciò che gli ambasciatori degli Elvezi avevano ricordato era impresso nella sua mente, e quanto minore era stata la colpa del popolo romano, tanto maggior dolore provava lui per la sconfitta: se i Romani avessero avuto coscienza di qualche torto commesso, facilmente si sarebbero tenuti in guardia; ma non pensavano di aver compiuto qualcosa per cui temere, né di dover temere senza motivo, e questo li aveva traditi. E se anche avesse voluto dimenticare le antiche offese, poteva forse rimuovere dalla mente le recenti? Gli Elvezi, contro il suo volere, non avevano cercato di aprirsi a forza un varco attraverso la provincia, non avevano infierito contro gli Edui, gli Ambarri, gli Allobrogi? Che si gloriassero in modo tanto insolente e si stupissero di aver evitato così a lungo la punizione delle offese inflitte, concorreva a uno stesso scopo: gli dèi immortali, di solito, quando vogliono castigare qualcuno per le sue colpe, gli concedono, ogni tanto, maggior fortuna e un certo periodo di impunità, perché abbia a dolersi ancor di più, quando la sorte cambia. La situazione stava così, ma lui era disposto a far pace: gli Elvezi, però, dovevano consegnargli ostaggi, a garanzia che le promesse le avrebbero mantenute, e risarcire gli Edui, i loro alleati e gli Allobrogi per i danni arrecati. Divicone replicò che gli Elvezi avevano imparato dai loro antenati a ricevere, non a consegnare ostaggi; di ciò il popolo romano era testimone. Detto questo, se ne andò.
Il giorno seguente gli Elvezi tolgono le tende. Lo stesso fa Cesare e, per vedere dove si dirigevano, manda in avanscoperta tutta la cavalleria, di circa quattromila unità, reclutata sia in tutta la provincia, sia tra gli Edui e i loro alleati. I nostri, inseguita con troppo slancio la retroguardia degli Elvezi, si scontrano con la cavalleria nemica in un luogo sfavorevole: pochi dei nostri cadono. Gli Elvezi, esaltati dal successo, poiché con cinquecento cavalieri avevano sbaragliato un numero di nemici così alto, incominciarono a fermarsi, di tanto in tanto, con maggiore audacia e a provocare con la loro retroguardia i nostri. Cesare tratteneva i suoi e si accontentava, per il momento, di impedire al nemico ruberie, foraggiamenti e saccheggi. Proseguirono per circa quindici giorni la marcia, in modo che gli ultimi reparti del nemico e i nostri primi non distassero più di cinque o sei miglia.
Nel frattempo, Cesare ogni giorno chiedeva agli Edui il grano che gli avevano promesso ufficialmente. Infatti, a causa del freddo, dato che la Gallia, come già si è detto, è situata a settentrione, non solo il frumento nei campi non era ancora maturo, ma non c'era neppure una quantità sufficiente di foraggio. Del grano, poi, che aveva fatto portare su nave risalendo la Saona, Cesare non poteva far uso, perché gli Elvezi si erano allontanati dal fiume ed egli non voleva perderne il contatto. Gli Edui rimandavano di giorno in giorno: dicevano che il grano lo stavano raccogliendo, che era già in viaggio, che stava per arrivare. Cesare, quando si rese conto che da troppo tempo si tirava in lungo e che incalzava il giorno della distribuzione ai soldati, convocò i principi degli Edui, presenti in buon numero nell'accampamento; tra di essi c'erano Diviziaco e Lisco. Quest'ultimo era il 'vergobreto' - come lo chiamano gli Edui - ossia il magistrato che riveste la carica più alta, è eletto annualmente e ha potere di vita e di morte sui suoi concittadini. Cesare li accusa duramente: non lo aiutavano proprio quando il grano non poteva né comprarlo, né prenderlo dai campi, in un momento così critico e con il nemico così vicino, tanto più che aveva intrapreso la guerra spinto soprattutto dalle loro preghiere. Perciò, si lamenta ancor più pesantemente di essere stato abbandonato.
Solo allora Lisco, spinto dal discorso di Cesare, espone ciò che in precedenza aveva passato sotto silenzio: c'erano degli individui che godevano di grande prestigio tra il popolo e che, pur non rivestendo cariche pubbliche, avevano da privati più potere dei magistrati stessi. Erano loro a indurre la massa, con discorsi sediziosi e proditori, a non consegnare il grano dovuto: sostenevano che, se gli Edui non erano più capaci di conservare la signoria sul paese, era meglio sopportare il dominio dei Galli piuttosto che dei Romani; i Romani, una volta sconfitti gli Elvezi, avrebbero senza dubbio tolto la libertà agli Edui insieme agli altri Galli. E le stesse persone rivelavano ai nemici i nostri piani e tutto ciò che accadeva nell'accampamento. Lisco non era in grado di tenerle a freno, anzi, adesso che era stato costretto a palesare a Cesare la situazione così critica, si rendeva conto di quale pericolo stesse correndo. Ecco il motivo per cui aveva taciuto il più a lungo possibile.
Cesare intuiva che il discorso alludeva a Dumnorige, fratello di Diviziaco, ma non voleva trattare l'argomento di fronte a troppa gente; così, si affretta a sciogliere l'assemblea, ma trattiene Lisco. A tu per tu gli chiede delucidazioni su ciò che aveva detto durante la riunione. Lisco parla con maggior libertà e minor timore. Cesare, poi, prende segretamente informazioni anche da altre fonti e scopre che era vero: si trattava proprio di Dumnorige, un individuo di estrema audacia, di gran credito presso il popolo per la sua liberalità e avido di rivolgimenti. Per parecchi anni aveva ottenuto a basso prezzo l'appalto delle dogane e di tutte le altre imposte, perché nessuno osava fare concorrenza alle sue offerte. In questo modo aveva aumentato il patrimonio familiare e si era procurato ingenti mezzi per fare delle elargizioni. A sue spese finanziava costantemente un gran numero di cavalieri, che aveva sempre intorno a sé; inoltre, non solo in patria, ma anche tra le genti confinanti godeva di molta autorità e, per aumentarla, aveva dato in sposa sua madre a un uomo molto nobile e potente della tribù dei Biturigi, aveva preso in moglie una donna degli Elvezi, aveva fatto maritare una sua sorella dal lato materno e altre sue parenti con uomini che appartenevano ad altri popoli. Favoriva gli Elvezi ed era ben disposto nei loro confronti per ragioni di parentela; nutriva anche un odio personale nei confronti di Cesare e dei Romani, perché con il loro arrivo il suo potere era diminuito e suo fratello Diviziaco aveva riacquistato la precedente posizione di influenza e di onore. Nel caso di una sconfitta dei Romani aveva forti speranze di ottenere il regno con l'appoggio degli Elvezi; sotto il dominio del popolo romano non poteva nutrire speranze non solo di regnare, ma neppure di mantenere l'influenza che aveva. Cesare, continuando nella sua indagine, veniva anche a sapere che nel malaugurato scontro di cavalleria di recente avvenuto, il primo a fuggire era stato Dumnorige con i suoi (infatti, era lui il comandante della cavalleria che gli Edui avevano mandato di rinforzo a Cesare): la loro fuga aveva seminato il panico tra gli altri cavalieri.
Cesare, una volta appurato tutto ciò, poiché ai sospetti si aggiungevano dati di assoluta certezza (Dumnorige aveva fatto passare gli Elvezi attraverso i territori dei Sequani; aveva promosso lo scambio degli ostaggi; aveva agito sempre senza ricevere ordini da Cesare o dal suo popolo, anzi a loro insaputa; era, infine, accusato dal magistrato degli Edui), riteneva che vi fossero motivi sufficienti per procedere personalmente contro Dumnorige o per invitare il suo popolo a punirlo. A tutte le precedenti considerazioni, una sola si opponeva: Cesare aveva conosciuto l'eccezionale devozione verso il popolo romano, la disposizione davvero buona nei propri confronti, la straordinaria fedeltà, giustizia e misura di Diviziaco, fratello di Dumnorige. Intervenendo contro quest'ultimo, quindi, temeva di offendere i sentimenti di Diviziaco. Perciò, prima di muoversi contro Dumnorige, convocò Diviziaco: allontanati i soliti interpreti, utilizzò, per il colloquio, C. Valerio Trocillo, principe della provincia della Gallia, suo parente, nel quale riponeva la massima fiducia. Cesare inizia subito col ricordare a Diviziaco tutto ciò che in sua presenza era stato detto su Dumnorige durante l'assemblea dei Galli e lo mette al corrente delle informazioni che ciascuno, singolarmente, gli aveva dato sul conto del fratello. Gli chiede, anzi lo prega di non offendersi, se lui stesso, aperta un'inchiesta contro Dumnorige, emetterà un giudizio o inviterà gli Edui a emetterlo.
Diviziaco abbracciò Cesare e scoppiò in lacrime: incominciò a implorarlo di non prendere provvedimenti troppo gravi nei confronti del fratello. Diceva di sapere che era vero, ma ne era addolorato più di chiunque altro, perché a rendere potente Dumnorige era stato proprio lui, Diviziaco, quando era molto influente in patria e nel resto della Gallia, mentre suo fratello non lo era affatto a causa della sua giovane età. Dumnorige, però, si era servito delle risorse e delle forze acquisite, finendo non solo per diminuire il favore di cui godeva suo fratello, ma quasi per rovinare se stesso. Tuttavia, Diviziaco diceva di essere mosso sia dall'affetto fraterno, sia dall'opinione della sua gente. Se Cesare condannava Dumnorige a una pena grave, nessuno avrebbe creduto all'estraneità di Diviziaco, che aveva una posizione di privilegio, come amico di Cesare, ragion per cui egli avrebbe perso l'appoggio di tutti i Galli. Piangendo, continuava a rivolgergli parole di supplica. Cesare, prendendogli la destra, lo consola, gli chiede di non aggiungere altro e gli dichiara che la sua influenza contava per lui tanto, che avrebbe sacrificato al suo desiderio e alle sue preghiere sia l'offesa arrecata alla repubblica, sia il proprio risentimento. Alla presenza del fratello convoca Dumnorige, gli espone gli addebiti da muovergli, le cose che aveva capito e quelle di cui il suo popolo si lamentava. Lo ammonisce a evitare in futuro tutti i sospetti e gli dice che gli perdonava il passato in virtù di suo fratello Diviziaco. Lo mette, però, sotto sorveglianza per poter sapere che cosa facesse e con chi parlasse.
Nello stesso giorno Cesare venne informato dagli esploratori che i nemici si erano fermati alle pendici di un monte a otto miglia dal suo accampamento. Mandò allora ad accertare quale fosse la conformazione del monte e se c'era una via d'accesso. Gli riferirono che vi si poteva salire con facilità. Ordina a T. Labieno, legato propretore, di salire dopo mezzanotte sulla sommità del monte con due legioni, avvalendosi delle guide che avevano effettuato il sopralluogo, e gli chiarisce il suo piano. Lui stesso, dopo le tre di notte, per la stessa via percorsa dal nemico, muove contro gli Elvezi, mandando avanti tutta la cavalleria. In avanscoperta, con gli esploratori, viene spedito P. Considio, che aveva fama di soldato espertissimo per avere servito prima nell'esercito di L. Silla e, poi, in quello di M. Crasso.
All'alba, mentre Labieno teneva la sommità del monte e Cesare non distava più di millecinquecento passi dall'accampamento dei nemici, ignari, come si seppe in seguito dai prigionieri, sia del suo arrivo, sia della presenza di Labieno, Considio a briglia sciolta si precipita da Cesare e gli comunica che il monte, di cui Labieno doveva impadronirsi, era nelle mani dei nemici: lo aveva capito dalle armi e dalle insegne galliche. Cesare comanda alle sue truppe di ritirarsi sul colle più vicino e le schiera a battaglia. Labieno aveva ricevuto ordine di non attaccare finché non avesse visto nei pressi dell'accampamento nemico le truppe di Cesare: lo scopo era di sferrare l'assalto contemporaneamente da tutti i lati. Labieno, perciò, teneva la sommità del monte e aspettava i nostri, senza attaccare. Solo a giorno già inoltrato Cesare seppe dagli esploratori che il monte era in mano ai suoi, che gli Elvezi avevano spostato l'accampamento e che Considio, in preda al panico, aveva riferito di avere visto ciò che, in realtà, non aveva visto. Quel giorno Cesare segue i nemici alla solita distanza e si ferma a tre miglia dalle loro posizioni.
L'indomani, considerando che mancavano solo due giorni alla distribuzione di grano e che Bibracte, la città degli Edui più grande e più ricca in assoluto, non distava più di diciotto miglia, Cesare pensò di dover provvedere ai rifornimenti. Smette di seguire gli Elvezi e si affretta verso Bibracte. Alcuni schiavi, fuggiti dalla cavalleria gallica del decurione L. Emilio, riferiscono al nemico la faccenda. Gli Elvezi, o perché pensavano che i Romani si allontanassero per paura, tanto più che il giorno precedente non avevano attaccato pur occupando le alture, o perché contavano di poter impedire ai nostri l'approvvigionamento di grano, modificarono i loro piani, invertirono il senso di marcia e incominciarono a inseguire e a provocare la nostra retroguardia.
Cesare, quando se ne accorse, ritirò le sue truppe sul colle più vicino e mandò la cavalleria a fronteggiare l'attacco nemico. Nel frattempo, a metà del colle dispose, su tre linee, le quattro legioni di veterani, mentre in cima piazzò le due legioni da lui appena arruolate nella Gallia cisalpina e tutti gli ausiliari, riempiendo di uomini tutto il monte. Ordinò, frattanto, che le salmerie venissero ammassate in un sol luogo e che lo difendessero le truppe schierate più in alto. Gli Elvezi, che venivano dietro con tutti i loro carri, raccolsero in un unico posto i bagagli, si schierarono in formazione serratissima, respinsero la nostra cavalleria, formarono la falange e avanzarono contro la nostra prima linea.
Cesare ordinò di allontanare e nascondere prima il suo cavallo, poi quelli degli altri: voleva rendere il pericolo uguale per tutti e togliere a ognuno la speranza della fuga. Spronati i soldati, attaccò. I nostri riuscirono con facilità a spezzare la falange nemica lanciando dall'alto i giavellotti; una volta disunita la falange, sguainarono le spade e si gettarono all'assalto. I Galli combattevano con grande difficoltà: molti dei loro scudi erano stati trafitti e inchiodati da un solo lancio di giavellotti; i giavellotti si erano piegati, per cui essi non riuscivano né a svellerli, né a lottare nel modo migliore con la mano sinistra impedita. Molti, dopo avere a lungo agitato il braccio, preferirono gettare a terra gli scudi e combattere a corpo scoperto. Alla fine, spossati per le ferite, incominciarono a ritirarsi e a cercar riparo su un monte, che si trovava a circa un miglio di distanza; lì si attestarono. Mentre i nostri si spingevano sotto, i Boi e i Tulingi, che con circa quindicimila uomini chiudevano lo schieramento nemico e proteggevano la retroguardia, aggirarono i nostri e li assalirono dal fianco scoperto. Vedendo ciò, gli Elvezi che si erano rifugiati sul monte incominciarono a premere di nuovo e a riaccendere lo scontro. I Romani operarono una conversione e attaccarono su due fronti: la prima e la seconda linea per tener testa agli Elvezi già vinti e respinti, la terza per reggere all'urto dei nuovi arrivati.
Così, si combatté su due fronti a lungo e con accanimento. Alla fine, quando non poterono più sostenere l'attacco dei nostri, parte degli Elvezi, come aveva già fatto prima, si mise al sicuro sul monte, parte si ritirò là dove avevano ammassato i bagagli e i carri. A dire il vero, per tutto il tempo della battaglia, durata dall'una del pomeriggio fino al tramonto, nessuno poté vedere un solo nemico in fuga. Nei pressi delle salmerie si lottò addirittura fino a notte inoltrata, perché gli Elvezi avevano disposto i carri come una trincea e dall'alto scagliavano frecce sui nostri che attaccavano. Alcuni, appostati tra i carri e le ruote, lanciavano matare e tragule, colpendo i nostri. Dopo una lunga lotta, i soldati romani si impadronirono dell'accampamento e delle salmerie. Qui vennero catturati la figlia di Orgetorige e uno dei figli. Sopravvissero allo scontro centotrentamila Elvezi e per tutta la notte marciarono ininterrottamente. Senza fermarsi mai neppure nelle notti seguenti, dopo tre giorni giunsero nei territori dei Lingoni. I nostri, invece, sia per curare le ferite riportate dai soldati, sia per dare sepoltura ai morti, si attardarono per tre giorni e non poterono incalzarli. Cesare inviò ai Lingoni una lettera e dei messaggeri per proibir loro di fornire grano o altro agli Elvezi: in caso contrario, li avrebbe trattati alla stessa stregua. Al quarto giorno riprese a inseguire gli Elvezi con tutte le truppe.
Agli Elvezi mancava tutto il necessario per proseguire la guerra, perciò inviarono degli ambasciatori a offrire la resa. Cesare era ancora in marcia quando gli si fecero incontro; si gettarono ai suoi piedi e gli chiesero pace, piangendo e supplicando. Cesare ordinò agli Elvezi di aspettarlo dove adesso si trovavano, ed essi obbedirono. Appena giunto, chiese la consegna degli ostaggi, delle armi e degli schiavi fuggiti. Mentre gli Elvezi stavano ancora provvedendo alla ricerca e alla raccolta, scese la notte, nelle prime ore della quale circa seimila uomini della tribù dei Verbigeni lasciarono l'accampamento degli Elvezi e si diressero verso il Reno e i territori dei Germani: forse temevano di essere uccisi, una volta consegnate le armi, oppure speravano di salvarsi, pensando che in mezzo a tanta gente che si era arresa la loro fuga potesse rimanere nascosta o passare del tutto inosservata.
Cesare, appena lo seppe, ordinò ai popoli, attraverso i cui territori erano passati i Verbigeni, di cercarli e di riportarglieli, se volevano essere giustificati ai suoi occhi. Trattò come nemici i Verbigeni catturati, mentre accettò la resa degli Elvezi che gli consegnarono ostaggi, armi e fuggiaschi. Comandò agli Elvezi, ai Tulingi e ai Latobici di ritornare nei territori dai quali erano partiti e, poiché in patria erano andati perduti tutti i raccolti e non avevano più nulla con cui sfamarsi, diede disposizione agli Allobrogi di rifornirli di grano. Ordinò agli Elvezi di ricostruire le città e i villaggi incendiati. La sua intenzione era, soprattutto, di non lasciare spopolate le zone dalle quali gli Elvezi si erano mossi: non voleva che i Germani d'oltre Reno passassero nei territori degli Elvezi, più fertili, venendo a confinare con la provincia della Gallia e con gli Allobrogi. I Boi, che avevano dato prova di grande valore, ottennero il permesso di stabilirsi nei territori degli Edui, che lo avevano richiesto. Ai Boi gli Edui diedero campi da coltivare e, in seguito. concessero parità di diritti e la stessa condizione di libertà di cui essi stessi godevano.
Nell'accampamento degli Elvezi vennero trovate e consegnate a Cesare delle tavolette scritte in caratteri greci. Si trattava di un elenco nominativo degli uomini in grado di combattere che avevano lasciato i loro territori; c'era anche, a parte, una lista riguardante i bambini, i vecchi e le donne. La somma dei due elenchi contava duecentosessantatremila Elvezi, trentaseimila Tulingi, quattordicimila Latobici, ventitremila Rauraci, trentaduemila Boi. Circa novantaduemila erano, tra di essi, gli uomini in grado di portare armi. Il totale ammontava a trecentosessantottomila. Si tenne, per ordine di Cesare, un censimento generale degli Elvezi che rientravano in patria: risultarono centodiecimila.
Terminata la guerra con gli Elvezi, da quasi tutta la Gallia vennero a congratularsi con Cesare, in veste di ambasciatori, i più autorevoli cittadini dei vari popoli. Si rendevano conto che Cesare, con questa guerra, aveva punito gli Elvezi per le vecchie offese da essi inflitte al popolo romano, ma ne aveva tratto vantaggio la Gallia non meno di Roma: gli Elvezi, pur godendo di grandissima prosperità, avevano abbandonato la loro terra per portare guerra a tutta la Gallia, conquistarla e scegliersi per insediamento, tra tutte le regioni del paese, la zona che avessero giudicato più vantaggiosa e fertile, assoggettando gli altri popoli con un tributo. Chiesero a Cesare il permesso di fissare una data per una riunione generale dei Galli: volevano presentargli delle richieste, sulle quali c'era completo accordo. Cesare acconsentì e tutti giurarono solennemente di non rivelare gli argomenti trattati, se non su incarico dell'assemblea stessa.
Dopo che l'assemblea fu sciolta, si ripresentarono a Cesare i principi delle varie popolazioni, gli stessi che già erano venuti da lui. Gli chiesero di poter trattare con lui, segretamente, di questioni che riguardavano non solo loro, ma la salvezza comune. Ottenuto il permesso, si gettarono tutti ai suoi piedi, supplicandolo: desideravano e si preoccupavano di non fare trapelare nulla del loro colloquio tanto quanto di vedere esaudite le proprie richieste, perché erano certi che avrebbero subito i peggiori tormenti, se la cosa si fosse risaputa. Parlò a nome di tutti l'eduo Diviziaco: tutta la Gallia era divisa in due fazioni con a capo, rispettivamente, gli Edui e gli Arverni. I due popoli si erano contesi tenacemente la supremazia per molti anni, fino a che gli Arverni e i Sequani non erano ricorsi all'aiuto dei Germani, assoldandoli. In un primo tempo, avevano passato il Reno circa quindicimila Germani; quando, però, questa gente rozza e barbara aveva incominciato ad apprezzare i campi, la civiltà e le ricchezze dei Galli, il loro numero era aumentato: adesso, in Gallia, ammontavano a circa centoventimila. Gli Edui e i popoli loro soggetti li avevano affrontati più di una volta, ma avevano subito una grave disfatta, perdendo tutti i nobili, tutti i senatori, tutti i cavalieri. In passato, gli Edui detenevano il potere assoluto in Gallia sia per il loro valore, sia per l'ospitalità e l'amicizia che li legava al popolo romano; adesso, invece, prostrati dalle battaglie e dalle calamità, erano stati costretti dai Sequani a consegnare in ostaggio i cittadini più insigni e a vincolare il popolo con il giuramento di non chiedere la restituzione degli ostaggi, di non implorare l'aiuto del popolo romano e di non ribellarsi mai alla loro autorità. Ma lui, Diviziaco, non erano riusciti a costringerlo: tra tutti gli Edui, era l'unico a non aver giurato, né consegnato i propri figli in ostaggio. Era fuggito dalla sua terra ed era venuto a Roma dal senato per chiedere aiuto, proprio perché solo lui non era vincolato da giuramenti o da ostaggi. Ma ai Sequani vincitori era toccata sorte peggiore che agli Edui vinti: Ariovisto, re dei Germani, si era stabilito nei territori dei Sequani e aveva occupato un terzo delle loro campagne, le più fertili dell'intera Gallia; adesso ordinava ai Sequani di evacuarne un altro terzo, perché pochi mesi prima lo avevano raggiunto circa ventimila Arudi e a essi voleva trovare una regione in cui potessero stanziarsi. In pochi anni tutti i Galli sarebbero stati scacciati dai loro territori e tutti i Germani avrebbero oltrepassato il Reno. Non c'era paragone, infatti, tra le campagne dei Galli e dei Germani, né tra il loro tenore di vita. Ariovisto, poi, da quando aveva vinto l'esercito dei Galli ad Admagetobriga, regnava con superbia e crudeltà, chiedeva in ostaggio i figli di tutti i più nobili e riservava loro ogni specie di punizione e di tortura, se non eseguivano gli ordini secondo il suo cenno e volere. Era un uomo barbaro, iracondo e temerario. Non era possibile sopportare più a lungo le sue prepotenze. Se non avessero trovato aiuto in Cesare e nel popolo romano, a tutti i Galli non restava che seguire la decisione degli Elvezi: emigrare dalla patria, cercarsi altra dimora, altre sedi lontane dai Germani e tentare la sorte, qualunque cosa accadesse. Ma se Ariovisto avesse avuto notizia di tutto questo, senza dubbio avrebbe inflitto terribili supplizi agli ostaggi in sua mano. Cesare, avvalendosi del prestigio suo e dell'esercito oppure sfruttando la recente vittoria o il nome del popolo romano, poteva impedire che aumentasse il numero dei Germani in Gallia e difendere tutto il paese dai torti di Ariovisto.
Quando Diviziaco ebbe finito il suo discorso, tutti i presenti, tra grandi pianti, iniziarono a chiedere aiuto a Cesare, il quale notò che solo i Sequani non si comportavano per nulla come gli altri, ma, senza alzare lo sguardo da terra, tenevano la testa bassa, tristi. Stupito, ne chiese loro il motivo. I Sequani non risposero, continuando a rimanere in silenzio, nello stesso atteggiamento di tristezza. Più volte Cesare ripeté la sua domanda, senza ottenere la benché minima risposta. Intervenne ancora Diviziaco: la sorte dei Sequani era molto più misera e pesante di quella degli altri perché non osavano, neppure in una riunione segreta, lamentarsi e implorare aiuto e rabbrividivano per la crudeltà di Ariovisto come se fosse lì presente, anche se era lontano. E poi, perché gli altri, almeno, avevano la possibilità di fuggire; essi, invece, che avevano accolto Ariovisto nei loro territori e avevano visto le loro città cadere nelle sue mani, dovevano sopportare tormenti d'ogni sorta.
Cesare, sapute queste cose, rinfrancò i Galli con le sue parole e la promessa che avrebbe preso a cuore la faccenda: aveva fondate speranze che Ariovisto, in considerazione dei benefici ricevuti e del prestigio di Cesare, avrebbe posto fine ai suoi torti. Detto ciò, sciolse l'assemblea. Molte considerazioni, oltre alle precedenti, lo spingevano a ritenere che fosse necessario riflettere sulla situazione e occuparsene: primo, vedeva che gli Edui, più volte definiti dal senato fratelli e consanguinei, si trovavano sotto il dominio e la schiavitù dei Germani e capiva che loro ostaggi si trovavano nelle mani di Ariovisto e dei Sequani, cosa che giudicava una vergogna per sé e per la repubblica, data la potenza del popolo romano; secondo, riteneva pericoloso per Roma che, a poco a poco, i Germani prendessero l'abitudine di oltrepassare il Reno e di stanziarsi in Gallia in numero molto elevato. Infatti, stimava che questa gente, rozza e barbara, una volta occupata tutta la Gallia, non avrebbe fatto a meno di passare nella nostra provincia e di dirigersi verso l'Italia, come un tempo i Cimbri ed i Teutoni, soprattutto tenendo conto che solo il Rodano divide la nostra provincia dalla regione dei Sequani. Stimava, dunque, di doversi occupare al più presto del problema. Ariovisto stesso, poi, aveva assunto una superbia e una arroganza tale, che non lo si poteva più sopportare.
Perciò, Cesare decise di mandare ad Ariovisto degli ambasciatori, incaricati di chiedergli che scegliesse un luogo per un colloquio, a metà strada tra loro: voleva trattare di questioni politiche della massima importanza per entrambi. Agli ambasciatori Ariovisto così rispose: se gli serviva qualcosa da Cesare, si sarebbe recato di persona da lui; ma se era Cesare a volere qualcosa, toccava a lui andare da Ariovisto. Inoltre, non osava recarsi senza esercito nelle zone della Gallia possedute da Cesare, né era possibile radunare l'esercito senza ingenti scorte di viveri e grandi sforzi. Del resto, si domandava con meraviglia che cosa Cesare o, in generale, il popolo romano avessero a che fare nella sua parte di Gallia, da lui vinta in guerra.
Ricevuta tale risposta, Cesare manda di nuovo ad Ariovisto degli ambasciatori, coi compito di comunicargli quanto segue: durante il consolato di Cesare, il senato e il popolo romano lo avevano definito re e amico. Adesso, poiché così dimostrava a Cesare e al popolo romano la sua gratitudine, rifiutandosi di venire a colloquio benché invitato e ritenendo di non dover discutere o conoscere questioni di interesse comune, Cesare, allora, gli notificava le proprie richieste: primo, di non far più passare in Gallia altri Germani; secondo, di restituire gli ostaggi ricevuti dagli Edui e di permettere ai Sequani di rendere quelli che detenevano per ordine suo; infine, di non provocare ingiustamente gli Edui e di non muovere guerra né a essi, né ai loro alleati. Regolandosi così, Ariovisto si sarebbe garantito per sempre il favore e l'amicizia del popolo romano. Cesare, invece, se non avesse ottenuto quanto chiedeva, non sarebbe rimasto indifferente alle offese inflitte agli Edui, perché sotto il consolato di M. Messala e M. Pisone il senato aveva stabilito che il governatore della Gallia transalpina doveva difendere gli Edui e gli altri amici del popolo romano, per quanto ciò rispondesse agli interessi di Roma.
Ariovisto replicò così: il diritto di guerra permetteva ai vincitori di dominare i vinti a proprio piacimento; allo stesso modo il popolo romano era abituato a governare i vinti non secondo le imposizioni altrui, ma a proprio arbitrio. Se Ariovisto non dava ordini ai Romani su come esercitare il loro diritto, non c'era ragione che i Romani ponessero ostacoli a lui, quando applicava il suo. Gli Edui avevano tentato la sorte in guerra, avevano combattuto ed erano usciti sconfitti; perciò, li aveva resi suoi tributari. Era Cesare a fargli un grave torto, perché con il suo arrivo erano diminuiti i versamenti dei popoli sottomessi. Non avrebbe restituito gli ostaggi agli Edui, ma neppure avrebbe mosso guerra a essi, né ai loro alleati, se rispettavano gli obblighi assunti, pagando ogni anno i tributi. In caso contrario, poco sarebbe servito loro il titolo di fratelli del popolo romano. Se Cesare lo aveva avvertito che non avrebbe lasciato impunite le offese inferte agli Edui, gli rispondeva che nessuno aveva combattuto contro Ariovisto senza subire una disfatta. Attaccasse pure quando voleva: si sarebbe reso conto del valore degli invitti Germani, che erano addestratissimi e per quattordici anni non avevano mai avuto bisogno di un tetto.
Nel momento stesso in cui a Cesare veniva riferita la risposta di Ariovisto, giungevano emissari da parte degli Edui e dei Treveri. Gli Edui si lamentavano che gli Arudi, da poco trasferitisi in Gallia, devastavano il loro territorio: neppure la consegna degli ostaggi era valsa a ottenere la pace da Ariovisto. I Treveri, invece, dicevano che le cento tribù degli Svevi si erano stabilite lungo le rive del Reno e tentavano di attraversarlo; li guidavano i fratelli Nasua e Cimberio. Cesare, fortemente scosso dalle notizie, pensò di dover stringere i tempi per evitare di incontrare maggiore resistenza, se il nuovo gruppo degli Svevi si fosse aggiunto alle precedenti truppe di Ariovisto. Perciò, fatta al più presto provvista di grano, mosse contro Ariovisto forzando le tappe.
Dopo tre giorni di marcia gli riferirono che Ariovisto era partito dai suoi territori già da tre giorni e si dirigeva con tutte le truppe verso Vesonzione, la più grande città dei Sequani, per occuparla. Cesare giudicò di dover impedire a ogni costo che Vesonzione cadesse. Infatti, nella città si trovava, in abbondanza, tutto ciò che serve in guerra; inoltre, era così protetta dalla conformazione naturale, da permettere con facilità le operazioni belliche: il fiume Doubs la circonda quasi completamente, come se il suo corso fosse stato tracciato con un compasso; dove non scorre il fiume, in una zona che si estende per non più di milleseicento piedi, sorge un monte molto elevato, la cui base tocca da entrambi i lati le sponde del Doubs. Un muro circonda il monte, lo unisce alla città e ne fa una roccaforte. Cesare qui si diresse, a marce forzate di giorno e di notte. occupò la città e vi pose un presidio.
Nei pochi giorni in cui Cesare si trattenne a Vesonzione per rifornirsi di grano e di viveri, i Galli e i mercanti, interrogati dai nostri soldati, andavano dicendo che i Germani erano uomini dal fisico imponente, incredibilmente valorosi e avvezzi al combattimento; spesso li avevano affrontati, ma non erano neppure riusciti a sostenerne l'aspetto e lo sguardo. Di colpo, in seguito a tali voci, un timore così grande si impadronì dei nostri, da sconvolgere profondamente le menti e gli animi di tutti. Dapprima, si manifestò tra i tribuni militari, i prefetti e gli altri privi di grande esperienza militare, che avevano seguito Cesare da Roma per ragioni di amicizia. Tutti adducevano scuse, chi l'una, chi l'altra, sostenendo di avere dei motivi che li costringevano a partire, e ne chiedevano a Cesare il permesso. Alcuni, trattenuti dalla vergogna, rimanevano, per non destare sospetti di timore, ma non potevano contraffare l'espressione del volto, né talora trattenere le lacrime; al sicuro, nelle loro tende, si lamentavano del loro destino o compiangevano con i loro amici il comune pericolo. In ogni angolo dell'accampamento si facevano testamenti. I discorsi e la paura di questa gente, a poco a poco, impressionavano anche le persone provviste di grande esperienza militare: legionari, centurioni e capi della cavalleria. Chi voleva apparire meno pusillanime diceva di paventare non tanto il nemico, quanto la strada molto stretta e l'estensione delle foreste che li dividevano da Ariovisto, oppure di avere paura che il frumento non potesse essere trasportato tanto facilmente. Alcuni avevano addirittura riferito a Cesare che, all'ordine di togliere le tende e di avanzare, i soldati non avrebbero obbedito, né levato il campo, terrorizzati com'erano.
Cesare, messo in allarme, riunì il consiglio di guerra e convocò anche i centurioni di ogni grado. Li rimproverò aspramente, perché, soprattutto, avevano la presunzione di chiedersi e di rimuginare dove li portasse e con quali intenzioni. Sotto il suo consolato, Ariovisto aveva ricercato con molta ansia l'amicizia del popolo romano: chi poteva immaginarsi che sarebbe venuto meno ai propri doveri così avventatamente? Dal canto suo, era convinto che Ariovisto, conosciute le richieste e constatata l'equità dei patti proposti, non avrebbe respinto l'appoggio di Cesare e del popolo romano. E se, spinto da un demenziale impulso, avesse mosso guerra ai Romani, che cosa mai dovevano temere? Che motivo c'era di non aver più fiducia nel valore dei soldati o nella sua efficienza di generale? Ai tempi dei loro padri avevano già affrontato il pericolo rappresentato da quei nemici, quando i Cimbri e i Teutoni erano stati sconfitti da C. Mario e l'esercito si era meritato non meno gloria del comandante stesso; un pericolo simile lo avevano corso, e non erano passati molti anni, anche in Italia con la rivolta degli schiavi, che però si erano avvalsi della pratica e della disciplina imparate dai Romani. Tali esempi permettevano di giudicare come sia positiva in sé la fermezza d'animo: proprio il nemico, temuto a lungo e senza motivo quando era privo d'armi, lo avevano successivamente sconfitto quando era armato e già vincitore. Infine, i Germani erano lo stesso popolo con il quale gli Elvezi si erano più volte scontrati, non solo nei propri territori, ma anche nei loro, riportando la vittoria nella maggior parte dei casi. E gli Elvezi non erano riusciti a tener testa all'esercito romano. Chi era rimasto scosso perché i Galli erano stati sconfitti e messi in fuga, avrebbe scoperto, se si fosse informato, che Ariovisto aveva logorato i suoi avversari con una guerra di attesa, tenendosi per molti mesi in un accampamento tra le paludi, senza esporsi mai. Poi, quando ormai i Galli disperavano di poter combattere e si erano disuniti, li aveva assaliti, riuscendo, così, a sconfiggerli grazie ai suoi calcoli e ai suoi piani più che al suo valore. Ma se c'era spazio per questi calcoli contro dei barbari privi di esperienza militare, neppure Ariovisto stesso si illudeva di poter così sorprendere il nostro esercito. Chi esprimeva il proprio timore, fingendo di essere preoccupato per le scorte di grano e per la strada molto stretta, era un insolente, perché osava negare il senso del dovere del comandante o addirittura voleva impartirgli delle direttive. I suoi compiti di comandante erano di indurre i Sequani, i Leuci e i Lingoni a fornire il grano, ormai maturo nei campi; quanto alla strada, avrebbero giudicato tra breve essi stessi. Se si mormorava che i soldati non avrebbero eseguito gli ordini, né levato il campo, non se ne curava affatto: conosceva, infatti, casi di disobbedienza da parte delle truppe, ma si trattava di comandanti che avevano fallito un'impresa ed erano stati abbandonati dalla fortuna dei quali era stato scoperto qualche misfatto e dimostrata l'avidità. Ma tutta la sua vita comprovava la sua onestà, la guerra contro gli Elvezi la sua fortuna. Perciò, avrebbe dato subito l'ordine che voleva rimandare a più tardi: avrebbe levato le tende la notte successiva, dopo le tre, per accertarsi al più presto se in loro prevaleva la vergogna, unita al senso del dovere, oppure la paura. E se, poi, nessuno lo avesse seguito, si sarebbe messo in marcia, comunque, con la sola decima legione, su cui non aveva dubbi: sarebbe stata la sua coorte pretoria. Nei confronti della decima legione Cesare aveva avuto una benevolenza particolare e in essa riponeva la massima fiducia per il suo valore.
Dopo il discorso di Cesare, lo stato d'animo di tutti mutò in modo sorprendente e in ognuno nacque una gran voglia di agire, un gran desiderio di combattere. Per prima la decima legione, attraverso i tribuni militari, lo ringraziò per lo straordinario apprezzamento ricevuto e confermò di essere prontissima a scendere in campo. Poi le altre legioni, con i tribuni militari e i centurioni più alti in grado, provvidero a scusarsi con Cesare: non avevano mai nutrito dubbi o timori, né avevano pensato che la valutazione delle scelte strategiche spettasse a loro, ma al comandante. Cesare ne accettò le scuse e a Diviziaco, l'unico a cui riservava la massima fiducia tra i Galli, chiese l'itinerario da seguirsi per portare l'esercito in luoghi aperti compiendo un giro di oltre cinquanta miglia. Come aveva preannunziato, dopo le tre di notte partì. Il settimo giorno di marcia ininterrotta fu informato dagli esploratori che le truppe di Ariovisto distavano dai nostri ventiquattro miglia.
Ariovisto, informato dell'arrivo di Cesare, gli manda degli ambasciatori: il colloquio sollecitato in precedenza poteva, per quanto lo riguardava, aver luogo, perché Cesare si era avvicinato ed egli stimava di non correre pericolo. Cesare non respinge la proposta, perché riteneva ormai che Ariovisto avesse riacquistato il buon senso, visto che offriva spontaneamente ciò che prima aveva negato, quando ne era stato richiesto. Inoltre, Cesare nutriva grandi speranze che Ariovisto, in considerazione dei grandi benefici ricevuti da lui e dal popolo romano, avrebbe deposto la sua ostinazione, una volta conosciuto che cosa si voleva da lui. Il colloquio fu fissato da lì a cinque giorni. Nel periodo di tempo che lo precedette, si ebbe un'intensa attività diplomatica. Ariovisto pose come condizione che Cesare non portasse al colloquio truppe di fanteria, perché temeva di cadere in un'imboscata: entrambi sarebbero giunti con la cavalleria, altrimenti non si sarebbe presentato. Cesare non voleva che, per il frapporsi di un pretesto, il colloquio saltasse, ma neppure osava mettersi nelle mani della cavalleria dei Galli; decise, perciò, che la cosa più conveniente era lasciare a terra i cavalieri Galli e mettere in sella i soldati della decima legione, nella quale riponeva la massima fiducia, per avere, se c'era bisogno di agire, la scorta più leale possibile. Mentre veniva eseguita l'operazione, uno dei soldati della decima legione, non senza spirito, disse che Cesare aveva fatto per loro più di quanto avesse promesso: aveva detto che li avrebbe presi come coorte pretoria, adesso li faceva passare addirittura al rango equestre.
C'era un'ampia pianura, con un rialzo di terra abbastanza grande, all'incirca a pari distanza dagli accampamenti di Ariovisto e di Cesare. Qui, come stabilito, si incontrarono per il colloquio. A duecento passi dal rialzo, Cesare fermò i legionari che lo seguivano a cavallo. Anche i cavalieri di Ariovisto si fermarono alla stessa distanza. Ariovisto chiese che si parlasse senza scendere da cavallo e che ciascuno portasse con sé dieci uomini. Quando giunsero sul posto, Cesare iniziò il suo discorso ricordando i benefici resi ad Ariovisto da lui e dal senato: era stato definito re e amico, gli erano stati inviati doni in abbondanza. Onori del genere toccavano a poche persone ed i Romani, di solito, li concedevano in considerazione di servigi eccezionali; Ariovisto, invece, pur non avendo né titoli, né motivo per pretendere simili privilegi, li aveva ottenuti grazie al favore e alla liberalità di Cesare e del senato. E gli illustrava anche quanto fossero antiche e giuste le ragioni dei legami che intercorrevano tra i Romani e gli Edui, quante e quali onorifiche disposizioni il senato avesse preso nei loro riguardi, come gli Edui avessero sempre detenuto l'egemonia su tutta la Gallia, ancor prima di cercare la nostra amicizia. Il popolo romano voleva, per consuetudine, che gli alleati e gli amici non solo non perdessero nulla del potere acquisito, ma vedessero crescere il favore, la dignità, l'onore di cui godevano: chi poteva, dunque, tollerare che venisse tolto agli Edui ciò che avevano offerto all'amicizia del popolo romano? Ribadì, poi, le stesse richieste presentate dai suoi ambasciatori: che Ariovisto non muovesse guerra né agli Edui, né ai loro alleati, restituisse gli ostaggi e, se non poteva rimandare indietro nessuno dei Germani ormai presenti in Gallia, almeno non permettesse che altri oltrepassassero il Reno.
Ariovisto dedicò poche parole alle richieste di Cesare, ma molte ne spese per elencare i propri meriti: aveva passato il Reno non per volontà sua, ma su richiesta e invito dei Galli; non aveva certo lasciato la patria e i congiunti senza viva speranza di forti ricompense; in Gallia occupava sedi che gli erano state concesse; gli ostaggi gli erano stati consegnati spontaneamente; percepiva tributi secondo il diritto di guerra, che i vincitori sono soliti imporre ai vinti. Non era stato lui ad aggredire i Galli, ma i Galli lui; tutti i popoli della Gallia si erano mossi ed erano scesi in campo contro di lui; li aveva respinti e sconfitti, tutti, in una sola battaglia. Se i Galli intendevano riprovarci, era pronto a battersi di nuovo, ma, se desideravano la pace, non era giusto che si rifiutassero di pagare il tributo fino ad allora versato volontariamente. L'amicizia del popolo romano doveva essere per lui non un danno, ma un vanto e una protezione, e con questa speranza l'aveva richiesta. Se a causa del popolo romano doveva rimetterci i tributi e restituire i prigionieri, avrebbe rinunciato all'amicizia di Roma con lo stesso piacere con cui l'aveva cercata. Se faceva passare al di qua del Reno molti Germani, era per difendersi, non per assalire la Gallia: lo testimoniava il fatto che era venuto solo perché lo avevano chiamato e non aveva mosso guerra, ma si era difeso. Era giunto in Gallia prima del popolo romano, il cui esercito, in precedenza, non era mai uscito dai confini della provincia della Gallia. Che cosa cercava Cesare, come mai entrava nei possedimenti di Ariovisto? Questa parte di Gallia era sua, così come l'altra era nostra. Come non era ammissibile che i Romani cedessero, se i Germani avessero attaccato il nostro territorio, così noi, allo stesso modo, eravamo in torto a interferire nel suo diritto. Se Cesare dichiarava che gli Edui avevano ricevuto il titolo di amici dal senato, gli rispondeva che non era così barbaro, né sprovveduto da ignorare che gli Edui non avevano aiutato i Romani nel recente conflitto con gli Allobrogi, né si erano avvalsi del sostegno del popolo romano nella lotta contro di lui e i Sequani. Doveva sospettare che Cesare simulasse questa amicizia e tenesse in Gallia un esercito con il solo scopo di sopraffarlo. Se Cesare non si ritirava con le sue truppe dalle regioni in questione, lo avrebbe considerato non un amico, ma un nemico. E se lo avesse ucciso, avrebbe fatto cosa gradita a molti nobili e capi del popolo romano; lo aveva saputo da loro emissari: con la morte di Cesare poteva guadagnarsi il favore e l'amicizia di tutti loro. Ma se Cesare si allontanava e gli concedeva il libero possesso della Gallia, lo avrebbe ricompensato ampiamente e gli avrebbe consentito di muovere qualsiasi guerra volesse, senza travaglio o pericolo alcuno.
Cesare, in risposta, spiegò lungamente ad Ariovisto perché non poteva venir meno all'impegno preso: né lui, né il popolo romano avevano l'abitudine di abbandonare gli alleati molto benemeriti; inoltre, non riteneva che la Gallia spettasse ad Ariovisto più che al popolo romano. Q. Fabio Massimo aveva sconfitto gli Arverni e i Ruteni; il popolo romano li aveva perdonati, non aveva ridotto a provincia i loro territori, né imposto tributi. Se occorreva riandare ai tempi più antichi, il dominio del popolo romano in Gallia era il più giusto; se bisognava rispettare il decreto del senato, la Gallia doveva rimanere libera, perché, vinta in guerra da Roma, aveva voluto mantenere le proprie leggi.
Mentre il colloquio andava svolgendosi in questo modo, a Cesare venne riferito che i cavalieri di Ariovisto si avvicinavano al rialzo e si dirigevano contro i nostri, scagliando pietre e frecce. Allora interruppe il discorso, raggiunse i suoi e diede ordine tassativo di non rispondere ai nemici neanche con un dardo. Infatti, anche se nello scontro con la cavalleria nemica non prevedeva alcun pericolo per la sua legione prediletta, tuttavia non ritenne opportuno ingaggiar battaglia, perché i nemici, battuti, non potessero sostenere di essere caduti vittima di un tradimento di Cesare, durante il colloquio. Quando tra le nostre truppe si sparse la voce, dappertutto, del tono di arroganza assunto da Ariovisto, che aveva interdetto ai Romani tutta la Gallia, e di come i suoi cavalieri avessero assalito i nostri, causando l'interruzione del colloquio, nell'esercito si destò un ardore e un desiderio di combattere ancor più vivo.
Due giorni dopo, Ariovisto inviò a Cesare un'ambasceria: voleva trattare delle questioni di cui avevano cominciato a discutere senza giungere a una conclusione: perciò, gli chiedeva di scegliere un giorno per un nuovo incontro o, se preferiva, di mandare uno dei suoi in veste di legato. Cesare non vedeva motivo di riprendere il colloquio, tanto più che il giorno precedente i Germani non avevano saputo trattenersi dal lanciare frecce contro i nostri. Riteneva che mandare uno dei suoi in veste di legato, mettendolo nelle mani di quegli uomini rozzi, fosse molto pericoloso. La cosa più utile gli sembrò inviare C. Valerio Procillo, un giovane di notevolissimo valore e civiltà, figlio di C. Valerio Caburo, il quale aveva ricevuto la cittadinanza romana da C. Valerio Flacco: gli dava piena fiducia, conosceva la lingua gallica, che Ariovisto parlava piuttosto bene per lunga consuetudine e, infine, i Germani non avevano motivo di essere scorretti nei riguardi di C. Valerio Procillo. Con lui inviò M. Mezio, che aveva con Ariovisto vincoli di ospitalità. Cesare li incaricò di sentire le proposte e di riferirgliele. Ma quando Ariovisto li vide nel suo accampamento, alla presenza del suo esercito cominciò a gridare: cosa venivano a fare da lui? Volevano spiarlo? I due tentarono di rispondere, ma Ariovisto li obbligò a tacere e li fece gettare in catene.
Quel giorno stesso Ariovisto si spostò in avanti e si stabilì ai piedi di un monte, a sei miglia dall'accampamento di Cesare. L'indomani transitò con le sue truppe davanti al campo romano, lo oltrepassò e pose le tende a due miglia di distanza, con l'intento di impedire a Cesare di ricevere il grano e i viveri che venivano forniti dai Sequani e dagli Edui. Da quel momento, per cinque giorni consecutivi, Cesare condusse le sue truppe davanti al campo, in formazione da combattimento, per dare ad Ariovisto la possibilità di misurarsi con lui, se lo voleva. Ma Ariovisto, per tutti e cinque i giorni, tenne bloccato il suo esercito nell'accampamento, limitandosi quotidianamente a semplici scaramucce di cavalleria. I Germani erano addestrati in questa tecnica militare disponevano di seimila cavalieri e di altrettanti fanti molto veloci e forti; ciascun cavaliere aveva scelto tra tutta la truppa, a propria tutela, un fante, insieme al quale entrava nella mischia. I cavalieri si riparavano presso i fanti, che, se c'era qualche pericolo, si precipitavano; se il cavaliere veniva ferito piuttosto gravemente e cadeva da cavallo, lo attorniavano; se dovevano spingersi più lontano o ripiegare più alla svelta, si erano garantiti con l'esercizio una tale rapidità, da reggere all'andatura dei cavalli, tenendosi aggrappati alla criniera.
Constatato che Ariovisto rimaneva nel suo accampamento, Cesare, per non vedersi tagliati i rifornimenti, scelse una zona adatta per porre le tende, al di là del posto in cui si erano stabiliti i Germani, a una distanza di circa seicento passi da essi. Schierato l'esercito su tre linee, giunse al luogo prescelto e ordinò che le prime due linee rimanessero in armi e che la terza fortificasse l'accampamento. Il luogo distava, come già si è detto, circa seicento passi dal nemico. Ariovisto vi inviò circa sedicimila uomini senza bagagli e tutta la cavalleria, per atterrire i nostri e impedire l'opera di fortificazione. Cesare, non di meno, come aveva in precedenza stabilito, ordinò alle prime due linee di respingere il nemico e alla terza di portare a termine i lavori. Fortificato il sito, con una parte delle truppe ausiliarie lasciò due legioni e ricondusse nel campo maggiore le quattro rimanenti.
Il giorno successivo, secondo la sua abitudine, Cesare fece uscire le sue truppe dai due accampamenti, le schierò a battaglia non molto lontano dal campo maggiore e diede al nemico la possibilità di combattere. Quando si rese conto che neppure allora i nemici si sarebbero fatti avanti, verso mezzogiorno ordinò ai suoi soldati di rientrare negli accampamenti. Solo allora Ariovisto inviò una parte delle sue truppe ad assalire il campo minore. Fino a sera si combatté con accanimento da ambo le parti. Al tramonto Ariovisto richiamò le sue truppe, che avevano inflitto ai nostri molte perdite, ma molte ne avevano subite. Cesare chiese ai prigionieri per quale motivo Ariovisto non accettasse lo scontro aperto e ne scoprì la causa: presso i Germani era consuetudine che le madri di famiglia, consultando le sorti e i vaticini, dichiarassero se era vantaggioso combattere o no. In questo caso, il responso era stato il seguente: il destino è avverso alla vittoria dei Germani, se combatteranno prima della luna nuova.
Il giorno successivo Cesare lasciò in entrambi gli accampamenti un presidio a suo parere sufficiente e dispiegò tutte le truppe degli alleati davanti all'accampamento minore, ben visibili, sfruttandole per ingannare il nemico, dato che i legionari erano inferiori ai Germani, dal punto di vista numerico; sistemato l'esercito su tre linee, avanzò fino all'accampamento dei nemici. Solo allora i Germani furono costretti a condurre fuori le loro truppe e si disposero secondo le varie tribù, a pari distanza le une dalle altre: gli Arudi, i Marcomanni, i Triboci, i Vangioni, i Nemeti, i Sedusi, gli Svevi. Tutto intorno collocarono carri e carriaggi, per togliere a chiunque la speranza di fuggire. Sui carri fecero salire le loro donne, che, mentre essi partivano per combattere, piangevano e con le mani protese li imploravano di non renderle schiave dei Romani.
Cesare mise a capo di ciascuna legione i rispettivi legati e il questore, perché ognuno li avesse a testimoni del proprio valore; egli stesso guidò l'attacco alla testa dell'ala destra, perché si era accorto che da quella parte lo schieramento nemico era molto debole. Al segnale, i nostri attaccarono con tale veemenza e i nemici si slanciarono in avanti così all'improvviso e con tale rapidità, che non si ebbe il tempo di lanciare i giavellotti. Ci si sbarazzò di essi e si combatté corpo a corpo, con le spade. I Germani formarono rapidamente, secondo la loro abitudine, delle falangi e ressero all'assalto condotto con le spade. Si videro molti soldati romani salire sopra le varie falangi, strappare via con le mani gli scudi dei nemici e colpire dall'alto. Mentre l'ala sinistra dello schieramento nemico veniva respinta e messa in fuga, l'ala destra con la sua massa premeva violentemente sui nostri. Il giovane P. Crasso, comandante della cavalleria, essendo nei movimenti più libero di chi combatteva nel folto dello schieramento, se ne accorse e mandò la terza linea in aiuto dei nostri in difficoltà.
Questa mossa salvò le sorti della battaglia: i nemici volsero tutti le spalle e non si fermarono prima di aver raggiunto il Reno, che distava circa cinque miglia dal luogo dello scontro. Qui, pochissimi o cercarono di attraversare il fiume a nuoto, confidando nelle proprie forze, o scovarono delle imbarcazioni e si misero in salvo. Tra di loro ci fu Ariovisto, il quale trovò legata alla riva una piccola barca che gli servì per fuggire; tutti gli altri Germani furono inseguiti dalla nostra cavalleria e uccisi. Ariovisto aveva due mogli: una sveva, che si era portato da casa, l'altra norica, sorella del re Voccione, che gli era stata inviata dal fratello stesso e che Ariovisto aveva sposato in Gallia. Entrambe morirono nella rotta. Delle due figlie, una fu uccisa, l'altra catturata. C. Valerio Procillo, mentre durante la fuga veniva portato via dai suoi guardiani legato con triplice catena, si imbatté proprio in Cesare, che con la cavalleria stava inseguendo i nemici. Ciò procurò a Cesare una gioia non minore della vittoria stessa, perché si vedeva restituito, strappato alle mani del nemico, l'uomo più onesto della provincia della Gallia, suo amico e ospite: la Fortuna non aveva voluto togliere nulla alla sua grande gioia e contentezza e aveva impedito la morte di C. Valerio Procillo. Il giovane raccontava che, in sua presenza, erano state consultate tre volte le sorti per decidere se doveva essere arso sul rogo subito o in un secondo tempo: era vivo per beneficio delle sorti. Anche M. Mezio fu ritrovato e riportato a Cesare.
Quando al di là del Reno si ebbe notizia della battaglia, gli Svevi, che erano giunti alle rive del fiume, incominciarono a ritornare in patria. Non appena gli Ubi, che abitano nei pressi del Reno, si accorsero che gli Svevi erano in preda al panico, li inseguirono e ne uccisero un gran numero. Cesare, che in una sola campagna aveva concluso due grandissime guerre, tradusse l'esercito negli accampamenti invernali, nelle terre dei Sequani, un po' prima di quanto non richiedesse la stagione. Qui lasciò Labieno come comandante e si recò in Gallia cisalpina, per tenervi le sessioni giudiziarie.
LIBRO SECONDO
Mentre Cesare si trovava in Gallia cisalpina e le legioni erano state dislocate - lo si è visto sopra - negli accampamenti invernali, di frequente gli giungevano delle voci, confermate anche da una lettera di Labieno: tutti i Belgi, che rappresentano, come abbiamo detto, una delle tre parti della Gallia, stavano formando una lega contro il popolo romano e si scambiavano ostaggi. I motivi dell'alleanza erano i seguenti. Primo, temevano che il nostro esercito, una volta sottomessa la Gallia, li attaccasse. Secondo, ricevevano le pressioni intanto di parecchi Galli (c'era chi non aveva voluto la presenza dei Germani in Gallia e, naturalmente, mal sopportava che l'esercito romano svernasse e si impiantasse nel loro paese e c'era chi, instabile e volubile d'animo, auspicava rivolgimenti politici) e poi di molti altri: in tutta la Gallia generalmente i regni erano nelle mani di chi aveva più potere e disponeva dei mezzi per assoldare un esercito, e costoro, sotto il nostro dominio, non riuscivano così facilmente a raggiungere i loro scopi.
Le notizie e la lettera di Labieno spinsero Cesare ad arruolare in Gallia cisalpina due nuove legioni, e il legato Q. Pedio, all'inizio dell'estate, ricevette l'incarico di condurle in Gallia transalpina. Cesare stesso raggiunse l'esercito non appena cominciò a esservi foraggio a sufficienza. Ai Senoni e agli altri Galli confinanti con i Belgi diede incarico di informarsi e di comunicargli che cosa i Belgi stessero preparando. Tutti, concordemente, gli riferirono che erano in corso reclutamenti e che le truppe venivano concentrate in un sol luogo. Solo allora Cesare ritenne che non c'era da esitare a muovere contro di loro. Preparate le scorte di grano, toglie le tende e in circa quindici giorni giunge nella regione dei Belgi.
Il suo arrivo fu improvviso e più rapido di ogni previsione. I Remi, il popolo belga più vicino alla Gallia, gli inviarono in veste di ambasciatori Iccio e Andocumborio, i più insigni tra i cittadini: si ponevano con tutti i loro beni sotto la protezione e l'autorità del popolo romano; non avevano condiviso i sentimenti degli altri Belgi, né aderito alla lega contro Roma; erano pronti a consegnare ostaggi, a eseguire gli ordini, ad accogliere i soldati romani nelle loro città. a rifornirli di grano e di tutto il necessario; gli altri Belgi erano già in armi e a essi si erano uniti i Germani stanziati al di qua dei Reno; li aveva presi tutti una smania e follia tale, che i Remi non erano riusciti a dissuadere neanche i Suessioni, dei fratelli, dei consanguinei: eppure avevano in comune leggi e diritto, dipendevano da un unico comandante militare e magistrato civile.
Cesare chiese ai Remi quanti e quali popoli si trovassero in armi e quanto valessero in guerra. Ecco che cosa seppe: la maggior parte dei Belgi discendeva dai Germani; anticamente avevano varcato il Reno attratti dalla fertilità della regione e l'avevano occupata, scacciando i Galli che l'abitavano; all'epoca dei nostri padri erano stati gli unici a impedire ai Cimbri e ai Teutoni, che avevano messo a ferro e fuoco tutta la Gallia, di penetrare nei loro territori; perciò, memori di tale impresa, i Belgi si attribuivano un'enorme importanza ed erano molto fieri della loro forza militare. Circa il numero dei partecipanti alla lega, i Remi sostenevano di avere tutti dati sicuri, perché grazie ai legami di vicinanza e parentela sapevano quanti uomini ciascun popolo avesse promesso per la guerra nell'assemblea generale dei Belgi. I più potenti per valore, prestigio e numero erano i Bellovaci, in grado di mettere insieme un esercito di centomila uomini; ne avevano promessi sessantamila scelti e chiedevano il comando supremo delle operazioni. Loro confinanti erano i Suessioni, che possedevano territori molto estesi e fertili. Fu loro re, anche ai nostri giorni, Diviziaco, il sovrano più potente di tutta la Gallia, sotto il cui dominio erano cadute molte regioni del paese e, addirittura, la Britannia; ora regnava Galba: a lui, uomo giusto e saggio, era stato conferito il comando supremo per unanime consenso; le loro città erano dodici ed essi si erano impegnati a fornire cinquantamila uomini, come pure i Nervi, che tra i Belgi erano i più lontani e avevano fama di essere i più indomiti; gli Atrebati ne avevano promesso quindicimila, gli Ambiani diecimila, i Morini venticinquemila, i Menapi settemila, i Caleti diecimila, altrettanti i Veliocassi e i Viromandui, gli Atuatuci diciannovemila; inoltre, si pensava che i Condrusi, gli Eburoni, i Cerosi e i Pemani, complessivamente designati con il nome di Germani, avrebbero fornito circa quarantamila soldati.
Cesare incoraggiò i Remi e rivolse loro parole di benevolenza. Ordinò che tutti i senatori si recassero da lui e che gli fossero consegnati in ostaggio i figli dei più nobili. Tutte le sue disposizioni vennero puntualmente eseguite nel giorno fissato. Cesare moltiplicò le pressioni sull'eduo Diviziaco, spiegandogli quanto fosse vitale, per la repubblica e l'interesse di tutti, tenere divise le forze nemiche, per non dover affrontare in un solo scontro un esercito così numeroso. E ciò era possibile se gli Edui avessero invaso i territori dei Bellovaci, incominciando a devastarli. Affidatogli tale incarico, lo congedò. Quando vide che tutte le truppe dei Belgi, concentrate in un unico luogo, muovevano contro di lui e apprese, su informazione dei Remi e degli esploratori inviati, che i nemici erano ormai vicini, si affrettò a tradurre l'esercito al di là del fiume Aisne, che si trova nei più lontani territori dei Remi, e qui si attestò. Così difendeva un lato dell'accampamento per mezzo della riva del fiume, metteva al riparo dai nemici la zona alle sue spalle e garantiva la sicurezza dei rifornimenti inviati dai Remi e dagli altri popoli. Sul fiume c'era un ponte. Su una sponda pone un presidio e lascia, sull'altra, il legato Q. Titurio Sabino con sei coorti. Dà ordine di fortificare l'accampamento con un vallo di dodici piedi d'altezza e una fossa larga diciotto.
A otto miglia di distanza dall'accampamento sorgeva una città dei Remi, chiamata Bibrax. Appena giunti sul posto, i Belgi cominciarono a stringerla d'assedio con accanimento. Per quel giorno la città, a stento, resistette. I Belgi usano la stessa tecnica di assedio dei Galli: circondano il perimetro delle mura con un gran numero di uomini e da ogni parte iniziano a lanciare pietre, costringendo i difensori ad abbandonare i propri posti; poi formano la testuggine, incendiano le porte e abbattono le mura. E a Bibrax una tale tecnica era facilmente attuabile: gli attaccanti che scagliavano pietre e dardi erano così numerosi, che nessuno dei difensori poteva rimanere sulle mura. L'arrivo della notte costrinse i Belgi a interrompere l'assedio. Il Remo Iccio, persona di nobilissima stirpe, che godeva di molta influenza tra i suoi e all'epoca era capo della città, inviò a Cesare un messo, uno degli ambasciatori già mandati per chiedere la pace: se non gli pervenivano aiuti da Cesare, non era in grado di resistere più a lungo.
Cesare, nel cuore della notte, di rinforzo agli abitanti manda truppe della Numidia, arcieri cretesi e frombolieri delle Baleari, sotto la guida dei messi inviati da Iccio. L'arrivo dei Romani riaccese le speranze dei difensori e la loro voglia di combattere, mentre per lo stesso motivo gli assedianti disperarono di poter prendere Bibrax. Perciò, rimasero per un certo periodo nei pressi della città, devastando i campi dei Remi e incendiando tutti i villaggi e gli edifici che avevano potuto raggiungere, poi, al gran completo, puntarono sul campo di Cesare e posero le tende a meno di due miglia di distanza. Il loro accampamento, a giudicare dal fumo e dai fuochi accesi, si estendeva per più di otto miglia.
In un primo tempo, considerando sia il numero dei nemici, sia la loro fama di soldati estremamente valorosi, Cesare decise di evitare lo scontro aperto. Ogni giorno, però, con attacchi di cavalleria saggiava il valore dei nemici e il coraggio dei Romani. Si rese conto che i nostri non erano inferiori. Il terreno di fronte all'accampamento era vantaggioso e adatto per schierare l'esercito, perché il colle su cui si trovava il nostro campo sovrastava leggermente la pianura, si estendeva per uno spazio equivalente a quello che poteva occupare l'esercito in formazione da combattimento, aveva entrambi i fianchi scoscesi e la cima arrotondata, che digradava dolcemente verso la pianura. Perciò ordinò di scavare, alla base di entrambi i fianchi del colle, due fosse trasversali di circa quattrocento passi, in cima alle quali comandò di costruire ridotte e collocare macchine da lancio: voleva evitare che, una volta dispiegate le truppe, i nostri durante la battaglia venissero aggirati dal nemico, che era così numeroso. Attuate tali disposizioni, lasciò nell'accampamento, pronte a intervenire in caso di necessità, le due legioni arruolate per ultime e schierò di fronte al campo le altre sei. Allo stesso modo i nemici fecero uscire le loro truppe e le disposero per lo scontro.
Tra il nostro esercito e il nemico c'era una palude non molto estesa. I Belgi aspettavano i Romani al varco; i nostri, invece, si tenevano armati, pronti ad assalire il nemico in difficoltà, se avesse tentato per primo il passaggio. Nel frattempo, le cavallerie dei due eserciti si scontravano. Nessuno osò attraversare per primo il fiume, perciò, dopo che i nostri cavalieri ebbero la meglio, Cesare ricondusse i suoi nell'accampamento. I nemici si diressero immediatamente al fiume Aisne, che scorreva - lo si è già detto - dietro il nostro campo. Trovati alcuni guadi, tentarono di tradurre sull'altra sponda parte delle truppe. La loro intenzione era, nel migliore dei casi, di espugnare la ridotta comandata dal legato Q. Titurio e di distruggere il ponte, altrimenti di devastare i campi dei Remi, che per noi erano di vitale importanza al fine di proseguire la guerra, e di tagliarci i rifornimenti.
Cesare, informato della situazione da Titurio, portò tutta la cavalleria, i Numidi armati alla leggera, i frombolieri e gli arcieri al di là del ponte e marciò contro il nemico. Lo scontro fu violento. I nostri li assalirono mentre stavano attraversando il fiume ed erano in difficoltà. Ne uccisero la maggior parte e respinsero con un nugolo di frecce gli altri che, con estrema audacia, tentavano di passare sui corpi dei caduti, circondarono con la cavalleria e uccisero i primi giunti sull'altra sponda. I nemici si resero conto di non aver più speranze di espugnare la città, né di attraversare il fiume e videro che i nostri non avanzavano, per dare battaglia, su un terreno sfavorevole. Perciò, dato che anche le loro scorte di grano incominciavano a scarseggiare, convocarono l'assemblea e decisero che la cosa migliore era tornare tutti in patria. Sarebbero accorsi in difesa del primo popolo attaccato dai Romani: così avrebbero combattuto nei propri territori, non in quelli altrui, e si sarebbero serviti delle scorte di grano che avevano in patria. Giunsero a tale decisione, tra l'altro, perché avevano saputo che Diviziaco e gli Edui si stavano avvicinando ai territori dei Bellovaci. E non si poteva convincere questi ultimi ad attardarsi e a non soccorrere i loro.
Presa la decisione, prima di mezzanotte i Belgi lasciarono l'accampamento con grande strepito e tumulto, senza seguire ordini precisi o comandanti. Ognuno voleva raggiungere la testa della colonna e si affrettava a rientrare in patria, tanto che la loro partenza sembrava piuttosto una fuga. Gli osservatori riferirono immediatamente il fatto a Cesare, ma egli, temendo una trappola, poiché non aveva ancora capito il motivo della loro partenza, trattenne l'esercito e la cavalleria nell'accampamento. All'alba, quando gli esploratori confermarono la notizia, Cesare mandò in avanti tutta la cavalleria agli ordini dei legati Q. Pedio e L. Aurunculeio Cotta, col compito di ostacolare la retroguardia nemica. Ordinò al legato T. Labieno di seguirli con tre legioni. I soldati romani assalirono la retroguardia avversaria e protrassero l'inseguimento per molte miglia, facendo strage dei Belgi in fuga. Gli ultimi della colonna nemica, raggiunti, si fermarono e ressero con vigore all'urto dei nostri; i primi, invece, ritenendosi fuori pericolo e non essendo trattenuti né dalla necessità, né da comandanti, non appena udirono i clamori della battaglia, ruppero l'ordine di marcia e si diedero tutti alla fuga, cercando di salvarsi. Così, senza correre alcun pericolo, i nostri uccisero tanti nemici, quanti ne consentì la durata del giorno. Al tramonto posero fine al loro inseguimento e, secondo gli ordini ricevuti, rientrarono all'accampamento.
L'indomani, prima che i nemici potessero riaversi dal terrore e dallo scompiglio della fuga, Cesare condusse l'esercito nei territori dei Suessioni, al confine con i Remi, giungendo a marce forzate alla città di Novioduno. Appena giunto sul posto, tentò di espugnarla, perché si diceva che era sguarnita, ma la larghezza del fossato e l'altezza delle mura non gli permisero di impadronirsene, nonostante che i difensori fossero realmente pochi. Forfificato l'accampamento, provvide a spingere in avanti le vinee e a preparare tutto ciò che serve ad un assedio. Nel frattempo, la notte successiva rientrarono in città tutti i Suessioni che si erano dati alla fuga. Vedendo che i Romani rapidamente accostavano le vinee, innalzavano un terrapieno e costruivano delle torri, i Suessioni, scossi sia dall'imponenza delle opere costruite, mai viste o di cui non avevano mai sentito parlare prima, sia dalla rapidità dei Romani, mandano a Cesare un'ambasceria per offrire la resa. Su richiesta dei Remi, ottengono salva la vita.
Cesare, ricevuti in ostaggio i cittadini più nobili, tra cui due figli del re Galba stesso, dopo la consegna di tutte le armi che vi erano in città, accettò la resa dei Suessioni e guidò l'esercito contro i Bellovaci, asserragliati con tutti i loro beni nella città di Bratuspanzio. Quando Cesare e le sue legioni distavano circa cinque miglia, tutti i più anziani uscirono dalla città e iniziarono a esprimere, a parole e con le mani protese verso Cesare, l'intenzione di porsi sotto la sua protezione e autorità e di non combattere contro il popolo romano. Allo stesso modo, quando Cesare si era avvicinato alla città e poneva le tende, dall'alto delle mura i bambini e le donne, con le mani protese, secondo il loro costume, chiedevano pace ai Romani.
In loro favore parlò Diviziaco, che dopo la ritirata dei Belgi aveva rimandato in patria le truppe edue e raggiunto Cesare: i Bellovaci in ogni circostanza si erano dimostrati alleati e amici degli Edui; a spingere il popolo erano stati i capi con i loro discorsi, sostenendo che gli Edui, ridotti in servitù da Cesare, subivano umiliazioni e offese di ogni sorta; perciò, si erano staccati dagli Edui e avevano dichiarato guerra al popolo romano. I responsabili della decisione, consapevoli del danno provocato alla loro gente, erano fuggiti in Britannia. Alle preghiere dei Bellovaci, che chiedevano a Cesare clemenza e generosità, si aggiungeva l'intercessione degli Edui. E se Cesare avesse risparmiato i Bellovaci, avrebbe accresciuto l'autorità degli Edui presso tutti i Belgi, che erano soliti fornire, in caso di guerra, truppe e mezzi per farvi fronte.
Cesare disse che, per aumentare il prestigio di Diviziaco e degli Edui, avrebbe accolto e tenuto sotto la sua protezione i Bellovaci. Poiché erano un popolo di grande autorità tra i Belgi e molto numerosi, chiese seicento ostaggi. Gli furono consegnati insieme a tutte le armi della città. Da lì passò nella regione degli Ambiani, che senza indugio si posero con tutti i loro beni sotto la sua autorità. Gli Ambiani confinavano con i Nervi. Cesare prese informazioni sul carattere e sui costumi di quest'ultimi e seppe quanto segue: i mercanti non avevano alcun accesso e i Nervi non permettevano che si introducessero vino o altri prodotti di lusso, perché ritenevano che indebolissero gli animi e diminuissero la loro forza; gente rude e molto valorosa, accusavano duramente gli altri Belgi di essersi arresi al popolo romano e di aver rinnegato la virtù dei padri; assicuravano che non avrebbero inviato ambascerie. né accettato la pace, a nessuna condizione.
Cesare, dopo tre giorni di marcia nella regione dei Nervi, veniva a sapere dai prigionieri che il fiume Sambre non distava più di dieci miglia dal suo accampamento: al di là del fiume si erano attestati tutti i Nervi e aspettavano l'arrivo dei Romani insieme agli Atrebati e ai Viromandui, loro confinanti (li avevano persuasi, infatti, a tentare la stessa sorte in guerra); attendevano anche le truppe degli Atuatuci, che erano in marcia; le donne e chi, per ragioni d'età, non poteva essere impiegato in guerra, erano stati ammassati in un luogo che le paludi rendevano inaccessibile a un esercito.
Avute tali informazioni, mandò in avanscoperta alcuni esploratori e centurioni con l'incarico di scegliere una zona adatta per accamparsi. Al seguito di Cesare c'erano parecchi Belgi che avevano giurato sottomissione e altri Galli. Alcuni di essi, come si seppe in seguito dai prigionieri, dopo aver osservato l'ordine di marcia fin lì tenuto dal nostro esercito, di notte raggiunsero i Nervi e riferirono che tra le singole legioni procedeva un gran numero di salmerie, per cui non era affatto difficile assalire la prima legione non appena fosse giunta al campo, mentre le altre erano lontane e i soldati ancora impacciati dagli zaini. Una volta messa in fuga la prima legione e saccheggiate le salmerie, le rimanenti legioni non avrebbero osato opporre resistenza. Un altro elemento giocava a favore del piano degli informatori: fin dai tempi più antichi i Nervi non avevano contingenti di cavalleria (neppure ai giorni nostri si preoccupano di averne, ma tutta la loro forza risiede nella fanteria); così, per ostacolare, in caso di razzia, i cavalieri dei popoli limitrofi, incidevano gli alberi ancora giovani e li piegavano, costringendo i rami a crescere, fitti, in senso orizzontale; tra gli alberi, poi, piantavano rovi e arbusti spinosi in modo che le siepi formassero una barriera simile a un muro, impedendo non solo il passaggio, ma anche la vista. Dato che il nostro esercito avrebbe trovato sulla sua strada tali ostacoli, i Nervi ritennero di non dover scartare il piano proposto.
La conformazione naturale del luogo, scelto dai nostri per l'accampamento, era la seguente: un colle, che digradava in modo uniforme, scendeva fino alla Sambre, fiume di cui abbiamo già fatto cenno. Sulla riva opposta, proprio di fronte, sorgeva un altro colle che aveva identica pendenza: in basso, per un tratto di circa duecento passi, era brullo, mentre sulla cima aveva fitti boschi, impenetrabili alla vista. Qui i nemici si tenevano nascosti; nella zona senza vegetazione, lungo il fiume, si vedevano poche squadre di cavalleria. La profondità del fiume era di circa tre piedi.
Cesare, mandata in avanti la cavalleria, la seguiva con tutte le truppe. La disposizione e l'ordine di marcia, però, erano diversi da quelli che i Belgi avevano riferito ai Nervi. Infatti, trovandosi in prossimità del nemico, Cesare, secondo la sua abitudine, faceva avanzare libere da carichi le sei legioni, ponendo dietro di esse i bagagli di tutto l'esercito; le due legioni di recente arruolate chiudevano lo schieramento e presidiavano le salmerie. La nostra cavalleria, insieme ai frombolieri e agli arcieri, attraversò il fiume e si scontrò con i cavalieri avversari. I nemici sistematicamente si ritiravano nei boschi presso i loro e, da lì, attaccavano i nostri, che non osavano inseguire i fuggitivi oltre il limite segnato dalla zona pianeggiante e senza vegetazione. Nel frattempo, le sei legioni che erano in testa, tracciato lo spazio, iniziarono a fortificare il campo. I nemici, nascosti nelle selve, avevano già formato le linee di attacco e le file, spronandosi alla lotta: non appena videro i primi carri del nostro esercito - era il segnale convenuto per l'attacco - in massa si lanciarono in avanti e puntarono contro i nostri cavalieri. Li volsero in fuga e dispersero con facilità, poi scesero di corsa verso il fiume, velocissimi: sembrava quasi che fossero, nello stesso istante, sul limitare dei boschi, nel fiume e già addosso ai nostri. Poi, con altrettanta rapidità, salirono il colle opposto dirigendosi contro il nostro accampamento e i legionari intenti ai lavori di fortificazione.
Cesare si trovò a dover far tutto contemporaneamente: inalberare il vessillo, con cui si dava l'avviso di correre alle armi, ordinare gli squilli di tromba, richiamare i soldati dai lavori, comandare il rientro ai legionari che si erano un po' allontanati in cerca di materiale, formare la linea di combattimento, esortare i soldati e dare il segnale d'attacco. La mancanza di tempo e l'incalzare dei nemici impedivano di eseguire la maggior parte delle suddette operazioni. A fronte di tali difficoltà due fattori erano d'aiuto: primo, la perizia e l'esperienza dei nostri soldati, che, addestrati dalle precedenti battaglie, erano in grado di imporsi da soli la condotta necessaria non meno tranquillamente che se avessero ricevuto precise istruzioni da altri; secondo, l'obbligo imposto da Cesare ai vari legati di non allontanarsi dalla propria legione prima del termine dei lavori. I legati, vista la vicinanza e la rapidità dei nemici, non stettero ad aspettare ordini da Cesare, ma prendevano personalmente le disposizioni che ritenevano opportune.
Cesare, impartiti gli ordini necessari, corse a spronare i soldati, guidato dal caso: capitò dalla decima legione. Si limitò a incitare i soldati a ricordarsi dell'antico valore, a non lasciarsi turbare, a reggere con vigore all'assalto nemico. Dato che i Nervi erano quasi a tiro e i nostri potevano colpirli con le frecce, diede il segnale d'attacco. E poi si precipitò in un'altra direzione, sempre con lo scopo di incoraggiare i soldati, ma li trovò che stavano già combattendo. Il tempo fu talmente breve e i nemici così risoluti che i nostri non riuscirono non solo ad applicare i fregi, ma neppure a mettersi in testa gli elmi o a togliere le fodere dagli scudi. Chi tornava dai lavori si fermò dove capitava, presso le prime insegne che vide, per non perdere tempo alla ricerca della sua unità di appartenenza.
L'esercito fu schierato tenendo presente non tanto i dettami della tecnica militare, quanto la conformazione naturale del luogo, il pendio del colle e le circostanze. Le legioni, operando separate, resistevano ai nemici in zone diverse. Siepi fittissime, come si è detto in precedenza, erano frapposte e impedivano la vista. Non era possibile predisporre adeguati contingenti di riserva e provvedere alle necessità di ciascun settore, era esclusa l'unità di comando. Perciò, in tanta disparità di situazioni, era inevitabile che la fortuna giocasse ruoli diversi sul campo di battaglia.
I soldati della nona e della decima legione, schierati all'ala sinistra, lanciarono i giavellotti e respinsero rapidamente i nemici che avevano di fronte, gli Atrebati, rimasti senza fiato per la corsa e sfiniti dalle ferite; li costrinsero a retrocedere dall'alto fino al fiume e qui, mentre tentavano il guado e si trovavano in difficoltà, li inseguirono con le spade in pugno e ne fecero strage. Poi senza esitazione attraversarono il fiume e avanzarono, anche se la posizione era sfavorevole; i nemici, a loro volta, opposero resistenza, riaprendo la battaglia, ma i nostri li volsero in fuga. E anche in un altro settore, due legioni, l'undicesima e l'ottava, agendo separatamente, avevano respinto dalla sommità del colle i Viromandui, con i quali si erano scontrate, e combattevano ormai sulla riva del fiume. Ma quasi tutto l'accampamento sulla fronte e sulla sinistra era rimasto sguarnito (la dodicesima legione e, non lontano, la settima avevano preso posto all'ala destra), perciò lì puntarono tutti i Nervi in formazione compatta, sotto la guida di Boduognato, il comandante in capo. Parte di essi iniziò una manovra di aggiramento per sorprendere le legioni dal fianco scoperto, parte si diresse verso la sommità del nostro campo.
In quel mentre, rientravano nell'accampamento i nostri cavalieri e i fanti armati alla leggera, che a essi si erano affiancati (entrambi erano stati messi in fuga, come avevamo detto, al primo assalto dei Nervi). Trovandosi di fronte i nemici, si sbandarono di nuovo, in un'altra direzione. I caloni, invece, che dalla porta decumana e dalla sommità del colle avevano visto i nostri, vittoriosi, portarsi oltre il fiume, uscivano dall'accampamento per far bottino, ma, dopo essersi voltati e aver scorto i nemici nel nostro campo, scapparono precipitosamente. Nello stesso istante si levavano le grida e gli strepiti degli addetti alle salmerie: in preda al panico, si lanciarono dove capitava. Scossi da tale confusione, i cavalieri dei Treveri, che pure rispetto agli altri Galli godono di una fama di straordinario valore e che erano stati mandati dal loro popolo a Cesare come rinforzo, quando videro il campo romano pieno di nemici, le legioni pressate da vicino e quasi circondate, i caloni, i cavalieri, i frombolieri e i Numidi dispersi in fuga disordinata, si diressero in patria, convinti che la nostra situazione fosse disperata; al loro popolo annunciarono che i Romani erano stati sconfitti e debellati e che i nemici si erano impossessati dell'accampamento e delle salmerie.
Cesare, terminato il suo discorso alla decima legione, si diresse verso l'ala destra, dove vide che i suoi erano alle strette e che i soldati della dodicesima legione, vicini l'uno all'altro, si impacciavano a vicenda, perché le insegne erano state raccolte in un sol luogo; tutti i centurioni e un vessillifero della quarta coorte erano caduti, il vessillo perduto, quasi tutti i centurioni delle altre coorti morti o feriti; tra di essi il primipilo P. Sestio Baculo, soldato di grandissimo valore, non riusciva più a reggersi in piedi, sfinito com'era dalle numerose e gravi ferite; gli altri andavano esaurendo le forze e alcuni della retroguardia, rimasti senza comandanti, lasciavano la mischia e si sottraevano ai colpi; il nemico non cessava di avanzare dal basso frontalmente e di premere dai lati. Quando vide che la situazione era critica e che non aveva truppe di rincalzo, prese lo scudo a un soldato della retroguardia (perché era giunto fin lì senza), avanzò in prima linea, si rivolse ai centurioni chiamandoli per nome, uno per uno, arringò i soldati e diede l'ordine di muovere all'attacco e di allargare i manipoli, perché i nostri potessero usare le spade con maggior facilità. Il suo arrivo infuse fiducia nei soldati e restituì loro il coraggio: ciascuno, pur in una situazione di estremo pericolo, voleva dar prova di valore agli occhi del comandante, per cui l'impeto dei nemici per un po' venne frenato.
Cesare, quando si accorse che anche la settima legione, lì a fianco, era in difficoltà, comandò ai tribuni militari di avvicinare gradualmente le due legioni e, operata una conversione, di muovere all'assalto. La manovra permise ai soldati di aiutarsi reciprocamente e i nostri, adesso che non temevano più l'accerchiamento, iniziarono a resistere con maggior coraggio e a combattere con più vigore. Nel frattempo, i soldati delle due legioni della retroguardia, che presidiavano le salmerie, non appena ebbero notizia dello scontro, raggiunsero di corsa la cima del colle e lì apparvero ai nemici. E T. Labieno, conquistato il campo dei Nervi, dopo aver visto dall'alto che cosa stava accadendo nel nostro, mandò in rinforzo la decima legione. Dalla fuga dei cavalieri e dei caloni i soldati si resero conto di come stavano le cose e di quale minaccia incombesse sul campo, sulle legioni e sul comandante e si impegnarono al massimo per arrivare al più presto.
Il loro arrivo capovolse la situazione: perfino i nostri feriti si rialzavano da terra appoggiandosi agli scudi e riprendevano a combattere. I caloni, avendo visto i nemici impauriti, affrontavano anche disarmati chi era armato. I cavalieri, poi, per cancellare la vergogna della fuga con una prova di valore, in tutte le zone dello scontro precedevano i legionari. Ma i nemici, anche ridotti quasi alla disperazione, diedero prova di grandissimo valore, al punto che i soldati delle seconde file salivano sui corpi dei primi caduti e da lì combattevano; abbattuti anch'essi, si formavano mucchi di cadaveri, dai quali i superstiti, come da un tumulo, lanciavano frecce sui nostri e scagliavano indietro i giavellotti da essi intercettati. Non era da ritenersi senza ragione che uomini così valorosi avessero osato attraverso un fiume larghissimo, scalare un monte tanto alto e muovere all'attacco da una posizione assolutamente sfavorevole: il loro eroismo aveva reso facili delle imprese estremamente difficili.
Con la battaglia era pressoché annientata la stirpe e il nome dei Nervi. I più anziani, che con le donne e i bambini, come si era detto, si trovavano negli stagni e nelle paludi, non appena seppero l'esito dello scontro, considerando che nulla avrebbe ostacolato i vincitori o tutelato i vinti, con il consenso di tutti i superstiti mandarono a Cesare dei messi e si arresero. Menzionando la disfatta subita, gli dissero che di seicento senatori tre soli erano sopravvissuti e che di sessantamila uomini in grado di combattere se ne erano salvati a malapena cinquecento. Cesare, per render palese la sua clemenza nei confronti dei miseri e dei supplici, li tutelò con ogni cura, permise ai Nervi di mantenere territori e città, ingiunse ai popoli limitrofi e ai loro alleati di non provocare offese o danni.
Gli Atuatuci - ne abbiamo parlato prima - stavano accorrendo con l'esercito al completo in aiuto dei Nervi, ma, non appena fu loro riferito l'esito dello scontro, senza neppure fermarsi rientrarono in patria. Abbandonata ogni città o torre fortificata, si asserragliarono con tutti i loro beni in una sola roccaforte, molto ben difesa per posizione naturale. Da ogni lato la circondavano altissime rupi, da dove la vista dominava; in un solo punto si apriva un accesso, in lieve pendio, non più largo di duecento passi: lo avevano fortificato con un duplice muro, altissimo, e ora vi collocavano massi enormi e travi molto acuminate. Gli Atuatuci discendevano dai Cimbri e dai Teutoni, i quali all'epoca della loro penetrazione nella nostra provincia e in Italia avevano lasciato al di qua del Reno le salmerie che non si potevano portare dietro, affidandole a seimila dei loro, incaricati di custodirle e proteggerle. Costoro, dopo l'annientamento dei Cimbri e dei Teutoni, per molti anni tormentati dai popoli di confine, sostennero guerre attaccando o difendendosi. Fatta la pace, con il consenso generale delle genti limitrofe, si erano scelti come sede la regione in cui si trovavano.
In un primo tempo, dopo l'arrivo del nostro esercito, gli Atuatuci effettuavano spesso sortite e si misuravano con i nostri in scaramucce di poco conto; in seguito, quando vennero circondati da un vallo di quindici miglia di perimetro con numerose ridotte, si tenevano entro le mura della città. Le vinee erano già state spinte in avanti e il terrapieno costruito; ma, quando videro che stavamo preparando, lontano, una torre, dalle mura incominciarono subito a deriderci e a gridare perché mai un marchingegno così grande veniva costruito a tanta distanza: su quali mani e quale forza i Romani, piccoletti com'erano (tutti i Galli, infatti, per lo più disprezzano la nostra statura a confronto dell'imponenza del loro fisico), facevano conto per avvicinare alle mura una torre così pesante?
Quando, però, videro che la torre veniva mossa e si avvicinava alle mura, scossi dallo spettacolo, per loro nuovo e inusitato, mandarono a Cesare, per offrire la resa, degli emissari che si espressero nei termini seguenti: erano convinti che i Romani, capaci di muovere tanto rapidamente un marchingegno così alto, dovevano godere, in guerra, dell'aiuto divino, perciò essi si sottomettevano con tutti i propri beni alla loro autorità. Avevano una sola richiesta, una supplica: se mai Cesare avesse deciso di risparmiarli dando ancora prova della clemenza e mitezza di cui avevano sentito parlare, lo pregavano di non essere privati delle armi. Quasi tutti i popoli limitrofi erano loro nemici e invidiavano il loro valore; una volta consegnate le armi, non avrebbero potuto difendersi. Preferivano, se dovevano esserne costretti, subire dal popolo romano qualsiasi punizione anziché morire tra i tormenti per mano di gente su cui erano abituati a comandare.
Alle loro richieste Cesare rispose: avrebbe risparmiato il popolo degli Atuatuci, per proprio costume più che per loro merito, se si fossero arresi prima che l'ariete avesse toccato le mura: ma l'unica condizione di resa era la consegna delle armi. Si sarebbe regolato come con i Nervi, ordinando ai popoli confinanti di non infliggere torti a chi si era arreso al popolo romano. Le parole di Cesare furono riferite e gli Atuatuci si dichiararono disposti a obbedire. Dal muro gettarono nel fosso, che correva davanti alla città, una tale quantità di armi, che il cumulo raggiungeva quasi la sommità del muro e l'altezza del nostro terrapieno: e tuttavia - lo si scoprì in seguito - si erano tenuti e avevano nascosto in città circa un terzo delle armi. Aperte le porte, per quel giorno rimasero tranquilli.
Verso sera Cesare ordinò che le porte venissero chiuse e che i soldati romani lasciassero la città, perché non si verificassero atti di violenza nei confronti della popolazione. Gli Atuatuci, come si capì in seguito, avevano architettato un piano, pensando che i nostri, dopo la resa, avrebbero tolto i presidi o, almeno, avrebbero allentato la sorveglianza. Perciò, con le armi che si erano tenute e avevano nascosto oppure con scudi di corteccia o vimini intrecciati, ricoperti di pelli sul momento, come richiedeva l'esiguo tempo a disposizione, dopo mezzanotte tentarono in massa un'improvvisa sortita, puntando contro le nostre fortificazioni per la via meno erta. Rapidamente, come da ordine precedente di Cesare, furono fatte segnalazioni coi fuochi e dalle ridotte più vicine accorsero i nostri. Il nemico si batté con accanimento, come si addice a guerrieri valorosi che, costretti a lottare, nel momento estremo e in una posizione difficile, contro avversari che scagliavano su di loro frecce dal vallo e dalle torri, ripongono ogni speranza di salvezza solo nel proprio valore. Ne furono uccisi circa quattromila, gli altri vennero ricacciati in città. Il giorno seguente furono abbattute le porte, ormai sguarnite, e i nostri soldati entrarono in città. Cesare vendette all'asta tutto quanto il bottino. I compratori gli riferirono il numero dei prigionieri: cinquantatremila.
Nello stesso tempo P. Crasso, che era stato mandato con una legione nelle terre dei Veneti, degli Unelli, degli Osismi, dei Coriosoliti, degli Esuvi, degli Aulerci e dei Redoni, popoli marittimi che si affacciano sull'Oceano, informò Cesare di averli sottomessi tutti all'autorità e al dominio di Roma.
Portate a termine tali imprese e pacificata la Gallia, si diffuse tra i barbari una tale fama di questa guerra, che i popoli d'oltre Reno inviarono a Cesare ambascerie impegnandosi alla consegna di ostaggi e all'obbedienza. Cesare, che aveva fretta di partire per l'Italia e l'Illirico, invitò i messi delle legazioni a ripresentarsi all'inizio dell'estate successiva. E, condotte le legioni negli accampamenti invernali, nelle terre dei Carnuti, degli Andi, dei Turoni e dei popoli vicini ai luoghi in cui avevano combattuto, se ne partì per l'Italia. In seguito alle sue imprese, comunicate per lettera da Cesare stesso, furono decretati quindici giorni di feste solenni di ringraziamento, onore mai tributato a nessuno prima di allora.
LIBRO TERZO
Cesare, partendo per l'Italia, mandò Servio Galba con la dodicesima legione e parte della cavalleria nei territori dei Nantuati, dei Veragri e dei Seduni, che dalla regione degli Allobrogi, dal lago Lemano e dal Rodano raggiungono la cima delle Alpi. Lo scopo era di aprire la via attraverso le Alpi, che i mercanti di solito percorrevano sottoposti a gravi rischi e pesanti dazi. Cesare diede a Galba il permesso di svernare con la legione in quei luoghi, se lo avesse ritenuto opportuno. Galba riportò alcuni successi in battaglia ed espugnò parecchie fortezze nemiche: tutti i popoli della zona gli mandarono ambascerie. Ricevuti gli ostaggi e conclusa la pace, decise di stanziare nelle terre dei Nantuati due coorti, mentre con le rimanenti pose i quartieri d'inverno in un villaggio dei Veragri, Octoduro, situato in una valle a cui si aggiunge una modesta pianura, chiuso tutt'intorno da monti altissimi. Dato che un fiume divideva il villaggio in due parti, una Galba la concesse ai Galli, perché vi svernassero, ma l'altra ordinò di evacuarla e la riservò alle sue coorti. Fortificò il sito con un vallo e un fossato.
Galba, trascorsi già parecchi giorni nell'accampamento invernale, aveva dato ordine di consegnare le scorte di grano, quando improvvisamente seppe dagli esploratori che, di notte, tutta la popolazione aveva abbandonato la parte di villaggio concessa ai Galli e che i monti sovrastanti erano nelle mani di una massa enorme di Seduni e Veragri. Le cause che avevano spinto i Galli a prendere repentinamente la decisione di riaprire le ostilità e di cogliere di sorpresa la nostra legione erano molteplici: primo, disprezzavano lo scarso numero dei nostri - la legione, in effetti, non era al completo, perché le mancavano due coorti e molti soldati che, a piccoli gruppi, erano stati mandati in cerca di viveri; secondo, ritenevano che i nostri, in posizione svantaggiosa com'erano, non avrebbero potuto reggere neppure al primo assalto, quando essi, scagliando dardi, si fossero lanciati all'attacco dai monti verso valle. A ciò si aggiungeva il risentimento per i loro figli sottratti come ostaggi e la convinzione che i Romani cercassero di occupare le cime delle Alpi non tanto per aprire una via, quanto per prendere definitivamente possesso delle loro regioni, annettendole alla nostra provincia, che con esse confinava.
I lavori e l'opera di fortificazione del campo non erano stati ultimati, né si era provveduto a sufficienti scorte di grano o di viveri, dato che non si vedeva motivo, dopo la resa e la consegna degli ostaggi, di temere una guerra. Galba, messo al corrente della situazione, convocò d'urgenza i membri del consiglio di guerra e chiese il loro parere. Il pericolo, grave e repentino, era giunto contro ogni aspettativa: quasi tutti i monti circostanti, ormai, brulicavano di nemici in armi, lo si vedeva; non potevano pervenire, con le vie di comunicazione tagliate, né rinforzi, né viveri. Perduta, ormai, ogni speranza di salvezza, durante il consiglio alcuni espressero la proposta di lasciare i bagagli e di tentare, con una sortita, di porsi in salvo per la via da cui erano giunti. La maggioranza, però, decise di riservare tale piano in caso di necessità estrema, limitandosi per il momento a valutare come si metteva la faccenda e a difendere campo.
Poco dopo - si ebbe appena il tempo di approntare le cose e di eseguire gli ordini impartiti - i nemici, al segnale di attacco, si slanciarono in avanti da tutte le direzioni, scagliando pietre e gese contro il vallo. In un primo tempo i nostri, quando ancora erano nel pieno delle forze, li contrastarono con vigore: dall'alto nessuna freccia falliva il bersaglio ed essi accorrevano e portavano aiuto dove l'accampamento, sguarnito di difensori, appariva in pericolo. Ma, prolungandosi la battaglia, apparve chiaro in che cosa eravamo inferiori: i nemici stanchi uscivano dalla mischia, lasciando il posto a forze fresche; i nostri, pochi com'erano, non avevano modo di darsi il cambio, anzi, non solo non veniva concesso di allontanarsi dalla battaglia a chi era stanco, ma neppure i feriti avevano la possibilità di abbandonare il proprio posto e di ritirarsi.
Si combatteva, ininterrottamente, ormai da più di sei ore e ai nostri venivano a mancare, oltre alle forze, anche le frecce. I nemici, premendo con impeto ancora maggiore sui legionari, sempre più spossati, avevano iniziato ad abbattere il vallo e a riempire il fossato. La situazione era ormai agli estremi. P. Sestio Baculo, centurione primipilo - abbiamo prima ricordato che, durante la guerra con i Nervi, aveva riportato numerose ferite - e anche C. Voluseno, tribuno militare, uomo di grande saggezza e valore, si precipitano da Galba per dirgli che restava un'unica speranza: tentare una sortita come ultimo rimedio. Così, convocati i centurioni, Galba dà rapidamente ordine ai legionari di sospendere per il momento lo scontro e di limitarsi a evitare i dardi nemici e a riprendere fiato: poi, al segnale, dovevano erompere dall'accampamento e porre ogni speranza di salvezza nel proprio valore.
I legionari eseguono gli ordini e si lanciano immediatamente all'attacco da tutte le porte, senza lasciare al nemico la possibilità di capire che cosa stesse accadendo o di riorganizzarsi. Così, capovolte le sorti, accade che i nemici, già sicuri di aver in pugno l'accampamento romano, vengono invece circondati da ogni parte e uccisi. Degli oltre trentamila uomini (tanti risultavano i barbari che avevano partecipato all'assedio dell'accampamento romano), i nostri ne uccidono più di un terzo, costringendo alla fuga gli altri, in preda al panico, senza permettere loro neppure di attestarsi sulle alture. Così, messe in rotta e private delle armi le forze nemiche, i legionari si ritirano nell'accampamento e nelle fortificazioni. Dopo la battaglia, Galba non voleva mettere ulteriormente alla prova la fortuna, si ricordava di aver posto i quartieri d'inverno con ben altre intenzioni e vedeva di essere incorso in circostanze ben diverse. Perciò, spinto soprattutto dalla mancanza di grano e di viveri, il giorno successivo diede fuoco a tutti gli edifici del villaggio e si incamminò sulla via del ritorno, verso la provincia; senza che il nemico gli sbarrasse la strada o ne rallentasse la marcia, guidò la legione nei territori dei Nantuati e, quindi, degli Allobrogi dove passò l'inverno.
Dopo tali eventi, Cesare aveva tutti i motivi di ritenere la Gallia sottomessa: erano stati battuti i Belgi, scacciati i Germani, vinti i Seduni sulle Alpi. Così, all'inizio dell'inverno, partì per l'Illirico, perché voleva conoscerne i popoli e visitarne le regioni, ma improvvisamente in Gallia scoppiò la guerra. Eccone il motivo: il giovane P. Crasso stava svernando con la settima legione nei pressi dell'Oceano, nella regione degli Andi. Visto che nella zona il frumento scarseggiava, Crasso mandò molti prefetti e tribuni militari presso i popoli limitrofi per procurarsi grano e viveri. Tra di essi T. Terrasidio fu inviato presso gli Esuvi, M. Trebio Gallo presso i Coriosoliti, Q. Velanio con T. Sillio presso i Veneti.
I Veneti sono il popolo che, lungo tutta la costa marittima, gode di maggior prestigio in assoluto, sia perché possiedono molte navi, con le quali, di solito, fanno rotta verso la Britannia, sia in quanto nella scienza e pratica della navigazione superano tutti gli altri, sia ancora perché, in quel mare molto tempestoso e aperto, pochi sono i porti della costa e tutti sottoposti al loro controllo, per cui quasi tutti i naviganti abituali di quelle acque versano loro tributi. I Veneti, per primi, trattengono Sillio e Velanio, convinti di ottenere, mediante uno scambio, la restituzione degli ostaggi consegnati a Crasso. Influenzati dall'autorità dei Veneti, dato che le decisioni dei Galli sono improvvise e repentine, anche i popoli limitrofi trattengono Trebio e Terrasidio con le stesse intenzioni. Vengono stabiliti, rapidamente, dei contatti: i principi stringono patti per non prendere, se non di comune accordo, nessuna iniziativa e per affrontare insieme l'esito della sorte, qualunque fosse. Sollecitano gli altri popoli a difendere la libertà ereditata dai loro padri piuttosto che sopportare la schiavitù dei Romani. Ben presto tutti i popoli della costa ne sposano la causa e mandano un'ambasceria unitaria a P. Crasso: restituisse i loro ostaggi, se voleva riavere i suoi.
Informato della situazione da Crasso, Cesare, trovandosi troppo lontano, si limita a dar ordine, per il momento, di costruire navi da guerra lungo la Loira, un fiume che sfocia nell'Oceano, di arruolare rematori dalla provincia e di procurare marinai e timonieri. Dopo aver rapidamente provveduto a tutto ciò, non appena la stagione lo consentì, raggiunse l'esercito. I Veneti e gli altri popoli, saputo del suo arrivo e rendendosi conto della gravità del proprio operato - avevano trattenuto e gettato in catene degli ambasciatori, il cui nome è da sempre sacro e inviolabile presso tutte le genti - intraprendono preparativi di guerra commisurati a un pericolo così grande, provvedendo in particolare a tutto ciò che serve alla navigazione, con tanta maggior speranza di successo, in quanto confidavano molto sulla conformazione naturale del loro paese. Sapevano, infatti, che le vie di terra erano tagliate dalle maree e che i Romani avevano difficoltà di navigazione, per l'ignoranza dei luoghi e la scarsità degli approdi; inoltre, confidavano che le nostre truppe, per la mancanza di grano, non potessero trattenersi a lungo. E anche ammesso che nessuna delle loro aspettative si fosse realizzata, disponevano di una marina potente, mentre i Romani mancavano di una flotta, non conoscevano neppure i passaggi, gli approdi, le isole delle zone in cui si sarebbe combattuto; infine - lo capivano perfettamente - era ben diverso navigare nell'Oceano, così vasto e aperto, e in un mare chiuso. Prese tali decisioni, fortificano le città, vi ammassano scorte di grano provenienti dalle campagne e concentrano il maggior numero possibile di navi lungo le coste dei Veneti, dove si pensava che Cesare avrebbe iniziato le operazioni di guerra. Si aggregano come alleati gli Osismi, i Lexovii, i Namneti, gli Ambiliati, i Morini, i Diablinti e i Menapi; chiedono aiuti alla Britannia, situata di fronte alle loro regioni.
Abbiamo esposto le difficoltà che la guerra presentava, ma molte erano le ragioni che spingevano Cesare allo scontro: i cavalieri romani trattenuti contro ogni diritto, la rivolta dopo la resa, la defezione a ostaggi consegnati, la coalizione di tante nazioni e, soprattutto, il timore che gli altri popoli ritenessero lecito agire come i Veneti, se egli non fosse intervenuto. A Cesare era ben noto che, per lo più, i Galli amano i rivolgimenti e facilmente e prontamente sono disposti a far guerra (del resto, la natura spinge tutti gli uomini ad amare la libertà e a odiare la condizione di asservimento). Perciò, prima che la cospirazione si estendesse ad altri popoli, ritenne opportuno dividere l'esercito per coprire una zona di territorio più ampia.
Così, manda il legato T. Labieno con la cavalleria nella regione dei Treveri, che abitano lungo il Reno. Gli dà disposizione sia di prendere contatto con i Remi e gli altri Belgi e di tenerli a dovere, sia di ostacolare i Germani (si diceva che i Belgi avessero chiesto il loro aiuto), se, a forza, avessero tentato di attraversare il fiume su navi. Ordina a P. Crasso di partire per l'Aquitania alla testa di dodici coorti della legione e di un buon numero di cavalieri, per evitare che i popoli aquitani inviassero aiuti ai Galli e che nazioni così potenti si unissero. Manda il legato Q. Titurio Sabino, alla testa di tre legioni, nelle terre degli Unelli, dei Coriosoliti e dei Lexovi con l'ordine di tenerne impegnate le forze. Al giovane D. Bruto affida il comando della flotta gallica e delle navi che, dietro suo ordine, erano state fornite dai Pictoni, dai Santoni e dalle altre regioni pacificate. Gli ingiunge di partire alla volta dei Veneti non appena possibile. Cesare vi si dirige con la fanteria.
La posizione delle città dei Veneti era in genere la seguente: situate all'estremità di lingue di terra e di promontori, erano inaccessibili via terra quando si alzava la marea - un fenomeno che si verifica regolarmente nell'arco di dodici ore - ma anche le navi non potevano accostarsi, perché rimanevano incagliate nei bassifondi quando l'acqua si ritirava: entrambi i fattori erano di ostacolo per un assedio. E se mai, grazie a imponenti lavori, si riusciva ad arginare il mare con un terrapieno e con dighe, fino a raggiungere, tramite tali opere, l'altezza delle mura, i nemici, quando incominciavano a sentirsi perduti, facevano approdare un gran numero di navi - ne avevano moltissime - imbarcavano tutti i loro beni e si rifugiavano nelle città vicine, dove nuovamente potevano sfruttare gli stessi vantaggi naturali nella difesa. Per gran parte dell'estate avevano applicato anche più agevolmente la loro tattica, in quanto le nostre navi erano state trattenute da tempeste e nella navigazione trovavano enormi difficoltà, in un mare vasto e aperto, privo di approdi o quasi.
Le navi dei Veneti, poi, erano costruite e attrezzate come segue: le carene erano alquanto più piatte delle nostre, per poter resistere con maggior facilità alle secche e alla bassa marea; le prore erano estremamente alte e così pure le poppe, adatte a sopportare la violenza dei flutti e delle tempeste; le navi erano completamente di rovere, capaci di resistere a qualsiasi urto e offesa; le travi di sostegno, dello spessore di un piede, erano fissate con chiodi di ferro della misura di un pollice; le ancore erano legate non con funi, ma con catene di ferro; al posto delle vele usavano pelli e cuoio sottile e morbido - forse perché non avevano lino o non lo sapevano adoperare oppure, ed è più probabile, perché ritenevano che le vele non potessero agevolmente reggere alle tempeste così violente dell'Oceano, al vento tanto impetuoso e al peso dello scafo. La nostra flotta negli scontri poteva risultare superiore solo per rapidità e impeto dei rematori, ma per il resto le navi nemiche erano ben più adatte alla natura del luogo e alla violenza delle tempeste. In effetti, le nostre non potevano danneggiare con i rostri le navi dei Veneti, tanto erano robuste, né i dardi andavano facilmente a segno, perché erano troppo alte; per l'identica ragione risultava arduo trattenerle con gli arpioni. Inoltre, quando il vento cominciava a infuriare e le navi si abbandonavano alle raffiche, le loro riuscivano con maggior facilità a sopportare le tempeste e a navigare nelle secche, senza temere massi o scogli lasciati scoperti dalla bassa marea, tutti pericoli che le nostre navi dovevano paventare.
Cesare espugnò parecchie città, ma vedendo che tanta fatica era vana e che non poteva impedire ai nemici di fuggire, né danneggiarli, decise di aspettare la flotta. Non appena questa giunse e fu avvistata, circa duecentoventi navi nemiche, assai ben equipaggiate e perfettamente attrezzate, salparono e affrontarono le nostre; Bruto, che comandava la flotta, non sapeva bene che cosa fare o quale tattica adottare, e così pure i tribuni militari e i centurioni a capo di ciascuna imbarcazione. Sapevano che il rostro non danneggiava le navi nemiche; se anche avessero costruito delle torri, non avrebbero comunque raggiunto l'altezza delle poppe delle navi barbare; dal basso era più difficile che le frecce andassero a segno, mentre i dardi scagliati dai Galli risultavano micidiali. L'unica arma di grande efficacia preparata dai nostri erano falci acutissime, fissate a lunghi pali, di forma non dissimile dalle falci murali. Le falci agganciavano le funi che assicuravano i pennoni agli alberi delle navi, e le tiravano fino a spezzarle, quando i nostri marinai aumentavano la spinta sui remi. Troncate le funi, i pennoni inevitabilmente cadevano e così contemporaneamente, dato che tutta la forza delle navi dei Galli consisteva nelle vele e nell'attrezzatura, veniva sottratto alla flotta nemica ogni vantaggio. Il resto dipendeva dal valore e in ciò i nostri avevano facilmente la meglio, tanto più che si combatteva al cospetto di Cesare e di tutto l'esercito, per cui ogni atto di un certo coraggio non poteva rimanere nascosto: tutti i colli e le alture circostanti, infatti, da cui la vista dominava a strapiombo sul mare, erano occupati dal nostro esercito.
Una volta abbattuti, come abbiamo descritto, i pennoni, ciascuna nave nemica veniva circondata da due o tre delle nostre e i soldati romani si lanciavano all'abbordaggio con grande impeto. Quando i barbari se ne accorsero, già molte delle loro navi erano state catturate; non trovando alcun mezzo di difesa contro la tattica romana, cercavano salvezza nella fuga. Avevano già orientato le navi nella direzione in cui soffiava il vento, quando si verificò un'improvvisa, totale bonaccia, che impedì loro di allontanarsi. La cosa fu del tutto favorevole per portare a termine le operazioni: i nostri inseguirono le navi nemiche e le catturarono una a una. Ben poche, di quante erano, riuscirono a prender terra grazie al sopraggiungere della notte. Si era combattuto dalle dieci circa del mattino fino al tramonto.
La battaglia segnò la fine della guerra con i Veneti e i popoli di tutta la costa. Infatti, tutti i giovani e anche tutti gli anziani più assennati e autorevoli si erano là radunati e avevano raccolto in un sol luogo ogni nave disponibile. Perduta la flotta, i superstiti non sapevano dove rifugiarsi, né come difendere le loro città. Perciò, si arresero con tutti i loro beni a Cesare ed egli decise di agire con più rigore nei loro confronti, perché i barbari, per il futuro, imparassero a osservare con maggior scrupolo il diritto che tutela gli ambasciatori. Così, ordinò di mettere a morte tutti i senatori e di vendere come schiavi gli altri.
Mentre accadono tali avvenimenti nella guerra con i Veneti, Q. Titurio Sabino giunge nel territorio degli Unelli con le truppe fornitegli da Cesare. Capo degli Unelli era Viridovice, che deteneva anche il comando supremo di tutti i popoli in rivolta. Tra di essi aveva raccolto un esercito e truppe numerose. In pochi giorni gli Aulerci Eburovici e i Lexovi, uccisi i senatori, che non approvavano la guerra, sbarrarono le porte delle loro città e si allearono con Viridovice: inoltre, da ogni parte della Gallia era giunta una gran quantità di disperati e deliquenti, che avevano lasciato il lavoro dei campi e le occupazioni quotidiane attratti dalla speranza di bottino e dal desiderio di combattere. Sabino si teneva nell'accampamento, in un luogo ottimo da tutti i punti di vista, mentre Viridovice, che si era stanziato lì di fronte, a una distanza di due miglia, schierava ogni giorno le sue truppe a battaglia, offrendo ai Romani la possibilità di combattere. Così, Sabino non solo si procurava il disprezzo dei nemici, ma non veniva risparmiato neppure dai discorsi dei nostri soldati. A tal punto diede l'impressione di aver paura, che i nemici osavano addirittura avanzare fino al vallo dell'accampamento. Il motivo del suo comportamento era il seguente: dinnanzi a tanti nemici, soprattutto in assenza del comandante in capo, riteneva che un legato non dovesse accettare lo scontro, se non su un terreno favorevole o in circostanze vantaggiose.
Sabino, quando l'impressione che avesse timore era ormai radicata, scelse tra le truppe ausiliarie un Gallo adatto ed astuto. Con la promessa di grandi ricompense lo convince a passare dalla parte del nemico e gli illustra il suo piano. Il Gallo, giunto al campo nemico fingendosi un fuggiasco, descrive il timore dei Romani, espone le difficoltà che i Veneti procurano a Cesare e rivela che non più tardi della notte seguente Sabino alla testa dell'esercito avrebbe lasciato di nascosto l'accampamento e si sarebbe diretto da Cesare per portargli aiuto. A queste notizie, tutti gridano che non si deve lasciar perdere una simile occasione: bisogna marciare sul campo romano. Molti elementi spingevano i Galli a decidere in tal senso: l'esitazione di Sabino nei giorni precedenti, la conferma del fuggiasco, le scarse riserve di viveri, cui non avevano provvisto con la dovuta cura, la speranza di una vittoria dei Veneti e il fatto che, in genere, gli uomini sono inclini a credere vero ciò che desiderano. Spinti da tali sentimenti, non permettono a Viridovice e agli altri capi di lasciare l'assemblea prima di ottenere il consenso a prendere le armi e ad assalire l'accampamento romano. Accordato il consenso, lieti come se avessero già la vittoria in pugno, raccolgono fascine e legname per riempire i fossati del campo romano e lì si dirigono.
L'accampamento si trovava in cima a un lieve pendio di circa mille passi. I nemici mossero all'attacco per non dare ai Romani il tempo di radunarsi e di prendere le armi, ma così giunsero senza fiato. Sabino, esortati i suoi, impazienti ormai di combattere, dà il segnale e ordina di piombare repentinamente dalle due porte sui nemici impacciati dal carico delle fascine. Risultò che, per la posizione a noi vantaggiosa, per l'inesperienza e la stanchezza degli avversari, per il valore e l'addestramento dei nostri nelle battaglie precedenti, i nemici non ressero neppure al primo assalto e volsero subito le spalle. I nostri, ancora freschi, li raggiunsero mentre erano in difficoltà e ne fecero strage; i superstiti li inseguirono, i cavalieri e se ne lasciarono sfuggire ben pochi. Così, contemporaneamente, Sabino venne informato della battaglia navale e Cesare della vittoria del suo legato. Immediatamente, tutti gli altri popoli si sottomisero a Titurio. Infatti, lo spirito dei Galli è entusiasta e pronto a dichiarare guerra, ma il loro animo è fragile e privo di fermezza nel sopportare le disgrazie.
All'incirca nello stesso tempo P. Crasso giunse in Aquitania, regione che, come si è visto, deve essere considerata, per estensione e per numero di abitanti, una delle tre parti della Gallia. Crasso, conscio di dover affrontare un conflitto nella regione dove, pochi anni prima, era stato ucciso il legato L. Valerio Preconino e sconfitto il suo esercito e da dove aveva cercato scampo il proconsole L. Manlio, dopo aver perduto le salmerie, si rendeva conto di dover operare con non poca attenzione. Perciò, provvide alle scorte di grano, si procurò contingenti ausiliari e cavalleria, arruolò molti soldati valorosi chiamati individualmente da Tolosa e Narbona, città della limitrofa provincia romana, dopodiché penetrò nella regione dei Soziati. Saputo del suo arrivo, i Soziati, dopo aver radunato ingenti truppe di fanteria e la cavalleria, che costituiva il loro punto di forza, attaccarono il nostro esercito in marcia. Si scontrarono subito le due cavallerie: la loro venne messa in fuga e la nostra si lanciò all'inseguimento. Allora i nemici all'improvviso dispiegarono la fanteria, che avevano piazzato in un vallone per tendere un'imboscata. Si gettarono addosso ai nostri che si erano disuniti e riaccesero la mischia.
La battaglia fu lunga e aspra: i Soziati, forti delle vittorie del passato, ritenevano che dal loro valore dipendesse la salvezza di tutta l'Aquitania; i nostri, invece, volevano mostrare di che cos'erano capaci sotto la guida di un giovane, pur senza il comandante e le altre legioni. Alla fine i nemici, fiaccati dai colpi ricevuti, si ritirarono. Crasso ne fece strage e, appena giunto alla città dei Soziati, la cinse d'assedio. Di fronte all'aspra resistenza dei nemici, ricorse alle vinee e alle torri. I Soziati tentarono prima una sortita, poi provarono a scavare fino al terrapieno e alle vinee cunicoli (specialità in cui gli Aquitani sono i più esperti in assoluto, perché nella loro regione si trovano molte miniere di rame e cave di pietra). Quando, però, si resero conto che i loro sforzi erano vanificati dalla sorveglianza dei nostri, mandano a Crasso un'ambasceria per offrire la resa. La loro richiesta viene accolta ed essi, dietro suo ordine, consegnano le armi.
Ma mentre l'attenzione dei nostri era concentrata sulla consegna delle armi, dalla parte opposta della città tentò una sortita Adiatuano, il capo supremo, insieme a seicento fedelissimi, i solduri, come li chiamano i Galli. La condizione dei solduri è la seguente: fruiscono di tutti gli agi dell'esistenza insieme alle persone alla cui amicizia si sono votati, ma se quest'ultime periscono in modo violento, essi devono affrontare lo stesso destino oppure suicidarsi; finora, a memoria d'uomo, non risulta che nessuno si sia rifiutato di morire, dopo che era stata uccisa la persona a cui si era votato. Adiatuano, dunque, tentò una sortita con i solduri, ma dalla zona fortificata dove si era diretto si levarono grida e i nostri corsero alle armi. La lotta fu accanita: alla fine Adiatuano venne ricacciato in città e tuttavia ottenne da Crasso la resa alle stesse condizioni degli altri.
Ricevute armi e ostaggi, Crasso partì per la regione dei Vocati e dei Tarusati. Allora i barbari, molto scossi per aver saputo che una città ben fornita di difese naturali e fortificazioni era caduta nei pochi giorni successivi all'arrivo dei Romani, iniziarono a mandare ambascerie in tutte le direzioni, a stringere leghe, a scambiarsi ostaggi, a mobilitare truppe. Emissari vengono inviati anche ai popoli della Spagna citeriore, al confine con l'Aquitania: da lì giungono rinforzi e comandanti. Grazie al loro arrivo riescono a intraprendere le operazioni di guerra con molta autorità e molte truppe. Come capi, poi, scelgono gli ufficiali che erano stati sempre al fianco di Q. Sertorio, dotati, si riteneva, di grande esperienza militare. Costoro, secondo la tecnica dei Romani, incominciano a occupare i punti chiave, a fortificare l'accampamento, a tagliare i rifornimenti ai nostri. Crasso, quando si rese conto che non poteva dividere le sue truppe, troppo esigue, mentre il nemico aveva libertà di movimento, presidiava le vie di comunicazione, lasciava nell'accampamento un presidio sufficiente, ostacolava i rifornimenti di grano e di viveri per i Romani e aumentava ogni giorno i suoi effettivi, ritenne di non dover ritardare lo scontro. Riferite le sue intenzioni al consiglio di guerra, quando vide che tutti condividevano il suo parere, fissò il combattimento per il giorno seguente.
All'alba Crasso spiegò le truppe fuori dal campo e le schierò su duplice fila, con al centro gli ausiliari, in attesa delle mosse del nemico. Essi, pur convinti di non correre rischi, vista la loro superiorità numerica, la loro antica gloria militare e le esigue forze dei nostri, tuttavia pensavano ancor più sicuro di ottenere la vittoria, senza colpo ferire, presidiando le vie e tagliando ai nostri i rifornimenti. Se, poi, i Romani, spinti dalla mancanza di grano, avessero tentato la ritirata, si proponevano di assalirli mentre, impacciati dalla marcia e dal peso dei bagagli, erano meno ardimentosi. Tale fu il loro piano, perciò non si mossero quando i capi romani portarono le truppe fuori dall'accampamento. Avendo preso atto della situazione, Crasso, visto che la tattica di attesa dei nemici, scambiata per timore, aveva reso i nostri soldati più animosi (tutti gridavano che non bisognava perdere altro tempo e che si doveva marciare sul campo avversario), esortò i suoi tra il fervore generale e puntò sui nemici.
I nostri, parte riempiendo i fossati, parte lanciando un nugolo di frecce, costrinsero i difensori ad abbandonare il vallo e le fortificazioni. Pure gli ausiliari, sul cui apporto Crasso non faceva troppo affidamento, rifornendo i soldati di pietre e frecce e portando zolle per elevare un terrapieno, davano l'effettiva impressione di combattere. Ma anche il nemico lottava con tenacia e coraggio e i dardi, scagliati dall'alto, non andavano a vuoto. A quel punto i cavalieri, che avevano fatto il giro del campo nemico, riferirono a Crasso che la porta decumana non era altrettanto ben difesa ed era facile penetrarvi.
Crasso, esortati i capi della cavalleria a spronare i loro con la promessa di grandi ricompense, espose il suo piano. Costoro, secondo gli ordini, portarono fuori dal campo le coorti che lo presidiavano, fresche e riposate, compirono una lunga deviazione per non essere visti dall'accampamento nemico e, mentre gli occhi e gli animi di tutti erano intenti alla battaglia, raggiunsero rapidamente le fortificazioni di cui si è parlato, le abbatterono e penetrarono nell'accampamento prima che i nemici potessero scorgerli o capire che cosa stesse accadendo. E quando i nostri sentirono levarsi da lì clamori, ripresero forza, come spesso succede quando si spera di vincere, e iniziarono ad attaccare con maggior vigore. I nemici, circondati da tutti i lati e persa ogni speranza, cercarono di gettarsi giù dalle fortificazioni e di darsi alla fuga. La nostra cavalleria li inseguì nei campi, pianeggianti e privi di vegetazione: di cinquantamila nemici - tali erano stimate le forze provenienti dall'Aquitania e dai Cantabri - appena un quarto si mise in salvo. I nostri cavalieri rientrarono all'accampamento a notte fonda.
L'eco della battaglia spinse ad arrendersi e a consegnare spontaneamente ostaggi a Crasso la maggior parte dei popoli dell'Aquitania. Tra di essi ricordiamo i Tarbelli, i Bigerrioni, i Ptiani, i Vocati, i Tarusati, gli Elusati, i Gati, gli Ausci, i Garunni, i Sibuzati e i Cocosati. Poche genti e le più lontane, confidando nella stagione - l'inverno si stava avvicinando - trascurarono di farlo.
Quasi contemporaneamente Cesare, sebbene l'estate stesse ormai per finire, condusse l'esercito nei territori dei Morini e dei Menapi: era convinto di poter concludere rapidamente le operazioni contro di essi, gli unici due popoli che, in tutta la Gallia ormai pacificata, ancora erano in armi e non gli avevano mai mandato ambascerie per chiedere pace. I nemici adottarono una tattica ben diversa rispetto agli altri Galli. Avevano visto che, in campo aperto, nazioni molto potenti erano state respinte e battute dai Romani; perciò, visto che nei loro territori si trovavano selve e paludi a non finire, vi si radunarono con tutti i loro averi. Cesare giunse sul limitare di quei boschi e cominciò a fortificare il campo senza che si scorgesse l'ombra del nemico. Di colpo, mentre i nostri, sparpagliati, erano intenti ai lavori, i nemici sbucarono da ogni anfratto della foresta e li assalirono. I Romani presero rapidamente le armi e li respinsero nelle boscaglie, uccidendone molti. Ma, protratto eccessivamente l'inseguimento, finirono in luoghi più intricati e subirono perdite di lieve entità.
Nei giorni seguenti Cesare decise di disboscare la zona e, per impedire al nemico di attaccare ai fianchi i nostri, inermi e mentre non se l'aspettavano, dette ordine di ammassare dinnanzi al nemico tutto il legname tagliato e di disporlo come un vallo su entrambi i lati. In pochi giorni, con velocità incredibile, era già stato aperto un grande varco. I nostri tenevano ormai in pugno il bestiame e i primi bagagli dei nemici, che si ritiravano sempre più nel cuore della foresta, quando scoppiarono temporali così violenti, da costringere a sospendere i lavori, e le piogge ininterrotte ci impedirono di tenere più a lungo i soldati sotto le tende. Così, devastati tutti i campi, incendiati i villaggi e le case isolate, Cesare ritirò l'esercito e lo acquartierò per l'inverno nella regione degli Aulerci, dei Lexovi e degli altri popoli che di recente gli avevano mosso guerra.
LIBRO QUARTO
L'inverno successivo, nell'anno di consolato di Cn. Pompeo e M. Crasso, gli Usipeti e pure i Tenteri, popoli germanici, con un gran numero di uomini oltrepassarono il Reno, non lontano dal mare in cui il fiume sfocia. Motivo della loro migrazione fu che, tormentati per molti anni dagli attacchi degli Svevi, si trovavano in difficoltà e non potevano coltivare i loro campi. Gli Svevi, tra tutti i Germani, sono il popolo più numeroso ed agguerrito in assoluto. Si dice che siano formati da cento tribù: ognuna fornisce annualmente mille soldati, che vengono portati a combattere fuori dai loro territori contro i popoli vicini. Chi è rimasto a casa, provvede a mantenere sé e gli altri; l'anno seguente si avvicendano: quest'ultimi vanno a combattere, i primi rimangono in patria. Così non tralasciano né l'agricoltura, né la teoria e la pratica delle armi. E non hanno terreni privati o divisi, nessuno può rimanere più di un anno nello stesso luogo per praticare l'agricoltura. Si nutrono poco di frumento, vivono soprattutto di latte e carne ovina, praticano molto la caccia. Il tipo di alimentazione, l'esercizio quotidiano e la vita libera che conducono (fin da piccoli, infatti, non sono sottoposti ad alcun dovere o disciplina e non fanno assolutamente. nulla contro la propria volontà) accrescono le loro forze e li rendono uomini dal fisico imponente. Sono abituati a lavarsi nei fiumi e a portare come vestito, in quelle regioni freddissime, solo delle pelli che, piccole come sono, lasciano scoperta gran parte del corpo.
Concedono libero accesso ai mercanti, più per aver modo di vendere il loro bottino di guerra che per desiderio di comprare prodotti d'importazione. Anzi, i Germani non fanno uso di puledri importati (al contrario dei Galli, che per essi hanno una vera passione e li acquistano a caro prezzo), ma sfruttano i cavalli della loro regione, piccoli e sgraziati, rendendoli con l'esercizio quotidiano robustissimi animali da fatica. Durante gli scontri di cavalleria spesso smontano da cavallo e combattono a piedi; hanno addestrato a rimanere sul posto i cavalli, presso i quali rapidamente riparano, se necessario; secondo il loro modo di vedere, non c'è niente di più vergognoso o inerte che usare la sella. Così, per quanto pochi siano, osano attaccare qualsiasi gruppo di cavalieri che montino su sella, non importa quanto numeroso. Non permettono assolutamente l'importazione del vino, perché ritengono che indebolisca la capacità di sopportare la fatica e che infiacchisca gli animi.
Reputano vanto principale per la propria nazione che le regioni di confine, per il tratto più ampio possibile, siano disabitate: è segno che moltissimi popoli non sono in grado di resistere alla loro forza militare. A tal proposito corre voce che, in una zona di confine degli Svevi, le campagne siano spopolate per seicento miglia. Un'altra parte del loro territorio confina con gli Ubi, popolo un tempo numeroso e fiorente, per quanto possano esserlo i Germani. Gli Ubi sono un po' più civili rispetto alle altre genti della loro razza perché, vivendo lungo il Reno, sono visitati di frequente dai mercanti e, per ragioni di vicinanza, hanno assorbito i costumi dei Galli. Gli Svevi li avevano spesso affrontati in guerra, ma non erano riusciti a scacciarli dalle loro terre per via del loro numero e della loro importanza; tuttavia, li avevano costretti a versare tributi, rendendoli molto meno potenti e forti.
Nella stessa situazione si trovarono gli Usipeti e i Tenteri, già nominati, che ressero per parecchi anni agli assalti degli Svevi, ma alla fine vennero scacciati dai loro territori e, dopo aver vagato tre anni per molte regioni della Germania, giunsero al Reno, nel paese dei Menapi che possedevano campi, case e villaggi su entrambe le rive del fiume; i Menapi, atterriti dall'arrivo di una massa così numerosa, abbandonarono gli edifici sull'altra sponda del fiume e, disposti presidi al di qua del Reno, cercavano di impedire il passaggio ai Germani. Quest'ultimi, dopo tentativi d'ogni sorta, non potendo combattere perché a corto di navi, né riuscendo a passare di nascosto per la sorveglianza dei Menapi, finsero di rientrare in patria, ma dopo tre giorni di cammino tornarono indietro: in una sola notte la cavalleria coprì tutto il tragitto e piombò inattesa sugli ignari Menapi, che erano rientrati nei loro villaggi d'oltre Reno senza timore, perché i loro esploratori avevano confermato la partenza dei nemici. I Germani fecero strage dei Menapi e, impadronitisi delle loro navi, attraversarono il fiume prima che sull'altra sponda giungesse notizia dell'accaduto; occupati tutti gli edifici dei Menapi, si servirono delle loro provviste per la restante parte dell'inverno.
Informato di tali avvenimenti, Cesare, che temeva la debolezza di carattere dei Galli, volubili nel prendere decisioni e per lo più desiderosi di rivolgimenti, stimò di non doversi assolutamente fidare di essi. I Galli, infatti, hanno la seguente abitudine: costringono, anche loro malgrado, i viandanti a fermarsi e si informano su ciò che ciascuno di essi ha saputo o sentito su qualsiasi argomento; nelle città, la gente attornia i mercanti e li obbliga a dire da dove provengano e che cosa lì abbiano saputo; poi, sulla scorta delle voci e delle notizie udite, spesso decidono su questioni della massima importanza e devono ben presto pentirsene, perché prestano fede a dicerie infondate, in quanto la maggior parte degli interpellati risponde cose non vere pur di compiacerli.
Cesare, che conosceva tale abitudine, per non andare incontro a una guerra troppo pesante, partì alla volta dell'esercito prima del solito. Appena giunto, apprese che i suoi sospetti si erano avverati: parecchi popoli avevano inviato ambascerie ai Germani, chiedendo che varcassero il Reno e promettendo di esaudire ogni loro richiesta. I Germani, attratti da tali speranze, già si stavano spingendo più lontano ed erano pervenuti nelle terre degli Eburoni e dei Condrusi, clienti dei Treveri. Cesare convocò i principi della Gallia, ma ritenne opportuno dissimulare ciò di cui era invece al corrente; li blandì, li rassicurò, chiese i contingenti di cavalleria e prese la risoluzione di muovere guerra ai Germani.
Preparate le scorte di grano e arruolati i cavalieri, marciò verso i territori in cui era segnalata la presenza dei Germani. Cesare si trovava a pochi giorni di distanza, quando gli si presentarono emissari dei Germani che parlarono nei termini seguenti: non erano i Germani a muovere per primi guerra al popolo romano, ma non avrebbero rinunciato allo scontro, se provocati, perché avevano la consuetudine, tramandata dai padri, di difendersi e di non implorare gli aggressori, chiunque essi fossero. Tuttavia precisavano di esser giunti contro il loro volere, scacciati dalla patria; se i Romani volevano il loro sostegno, i Germani avrebbero potuto diventare utili alleati; chiedevano l'assegnazione di nuovi territori oppure il permesso di mantenere le regioni occupate con le armi. Erano inferiori solo agli Svevi, che neppure gli dèi immortali potevano uguagliare; ma di tutti gli altri popoli sulla terra non ce n'era uno che i Germani non potessero superare.
A tali parole Cesare rispose come gli sembrò più opportuno; ma ecco come terminò il suo discorso: non poteva stringere con loro alcuna alleanza, se rimanevano in Gallia; e non era giusto che occupasse le terre altrui chi non era riuscito a difendere le proprie; in Gallia non c'erano regioni libere da poter assegnare - tanto meno a un gruppo così numeroso - senza danneggiare nessuno, ma concedeva loro, se lo volevano, di stabilirsi nei territori degli Ubi, che gli avevano inviato emissari per lamentarsi dei soprusi degli Svevi e per chiedergli aiuto: ne avrebbe dato ordine agli Ubi.
I membri dell'ambasceria dissero che avrebbero riferito e che si sarebbero ripresentati dopo tre giorni con la risposta. Chiesero a Cesare, però, di non avanzare ulteriormente nel frattempo. Cesare dichiarò di non poter concedere neppure questo. Era venuto a conoscenza, infatti, che i Germani, alcuni giorni prima, avevano inviato gran parte della cavalleria al di là della Mosa, nella regione degli Ambivariti, a scopo di razzia e in cerca di grano. Riteneva, dunque, che stessero aspettando i loro cavalieri e che, a tal fine, cercassero di prendere tempo.
La Mosa nasce dai monti Vosgi, nella regione dei Lingoni; a non più di ottanta miglia di distanza dall'Oceano, si getta nel Reno. Il Reno nasce nella regione dei Leponzi, un popolo delle Alpi, scorre vorticoso per lungo tratto nelle terre dei Nantuati, degli Elvezi, dei Sequani, dei Mediomatrici, dei Triboci e dei Treveri; poi, nei pressi dell'Oceano, si divide in diversi rami e forma molte isole di notevoli dimensioni, per la maggior parte abitate da genti incolte e barbare, alcune delle quali si ritiene che vivano di pesci e di uova d'uccelli. Sfocia con molte diramazioni nell'Oceano.
Cesare non distava più di dodici miglia dal nemico, quando i membri dell'ambasceria ritornarono, secondo gli accordi. Gli si presentarono che era in marcia e lo pregavano, invano, di non avanzare ulteriormente. Gli chiedevano, allora, di dar ordine alla cavalleria, posta all'avanguardia, di non aprire le ostilità e gli domandavano il permesso di inviare un'ambasceria agli Ubi: se i capi e il senato degli Ubi avessero fornito garanzie mediante un giuramento solenne, si dichiaravano pronti ad accettare le condizioni proposte da Cesare. Ma, per condurre a termine le operazioni necessarie, chiedevano tre giorni di tempo. Cesare riteneva che la richiesta mirasse sempre a consentire, nei tre giorni di tregua, il rientro dei cavalieri che si erano allontanati; tuttavia, disse che per quel giorno si sarebbe spinto in avanti non oltre le quattro miglia, al solo scopo di rifornirsi d'acqua, ma comandò che l'indomani si presentassero lì nel maggior numero possibile per conoscere la sua risposta. Al tempo stesso, ai prefetti della cavalleria, che precedeva l'esercito, manda dei messi con l'ordine di non provocare a battaglia i nemici e di difendersi, in caso di attacco, fino al suo arrivo con le legioni.
Ma i nemici, non appena videro la nostra cavalleria - benché contasse circa cinquemila unità, mentre essi non erano più di ottocento, non essendo ancora rientrati i cavalieri che avevano varcato la Mosa in cerca di grano - si lanciarono all'attacco e scompaginarono in breve tempo i nostri, che non nutrivano alcun timore, in quanto l'ambasceria dei Germani aveva appena lasciato Cesare chiedendo, per quel giorno, tregua. Quando i nostri riuscirono a opporre resistenza, gli avversari, secondo la loro tecnica abituale, balzarono a terra e, ferendo al ventre i cavalli, disarcionarono molti dei nostri e costrinsero alla fuga i superstiti, premendoli e terrorizzandoli al punto che non cessarono la ritirata se non quando furono in vista del nostro esercito in marcia. Nello scontro perdono la vita settantaquattro nostri cavalieri, tra cui l'aquitano Pisone, uomo di grandissimo valore e di alto lignaggio: un suo avo aveva tenuto la suprema autorità tra la sua gente e ricevuto dal senato di Roma il titolo di amico. Pisone, accorso in aiuto del fratello circondato dai nemici, era riuscito a liberarlo; disarcionato - il suo cavallo era stato colpito - resistette con estremo valore finché ebbe forza: poi, circondato da molti avversari, cadde. Il fratello, che aveva già lasciato la mischia, lo vide da lontano: sferzato il cavallo, si gettò sui nemici e rimase ucciso.
Dopo tale scontro, Cesare ormai non stimava giusto ascoltare gli ambasciatori o accogliere le proposte di un popolo che, dopo aver chiesto pace, aveva deliberatamente aperto le ostilità con agguati e imboscate; d'altro canto, considerava pura follia aspettare che il numero dei nemici aumentasse con il rientro della cavalleria e, ben conoscendo la volubilità dei Galli, intuiva quanto prestigio i Germani avessero già acquisito con una sola battaglia; perciò, riteneva di non dover assolutamente concedere loro il tempo di prendere decisioni. Aveva già assunto tali risoluzioni e informato i legati e il questore che non intendeva differire l'attacco neppure di un giorno, quando si presentò un'occasione veramente favorevole: proprio la mattina seguente i Germani, sempre con la stessa perfida ipocrisia, si presentarono al campo di Cesare, in gran numero, con tutti i principi e i più anziani. Volevano, a detta loro, sia chiedere perdono per l'attacco sferrato il giorno precedente contro gli accordi e le loro stesse richieste, sia ottenere, se possibile, una dilazione: ma il solo scopo era di tendere una trappola. Cesare, lieto che gli si fossero offerti, ordinò di trattenerli, portò fuori dall'accampamento tutte le sue truppe e ordinò alla cavalleria di chiudere lo schieramento, ritenendola ancora scossa per la recente sconfitta.
Disposto l'esercito su tre file, percorse rapidamente otto miglia e piombò sul campo nemico prima che i Germani potessero rendersi conto di cosa stava accadendo. I nemici, atterriti per più di una ragione, dall'arrivo improvviso dei nostri, dall'assenza dei loro, dal non avere il tempo di prendere alcuna decisione, né di correre alle armi, erano incerti se conveniva affrontare i Romani, difendere l'accampamento o darsi alla fuga. I rumori e la confusione davano il segno del timore che regnava tra i nemici; i nostri, irritati dal proditorio attacco del giorno precedente, fecero irruzione nel campo avversario. Qui, chi riuscì ad armarsi in fretta, per un po' oppose resistenza, combattendo tra i carri e le salmerie; gli altri, invece, ossia le donne e i bambini (infatti, avevano abbandonato le loro terre e attraversato il Reno con le famiglie) si diedero a una fuga disordinata. Al loro inseguimento Cesare inviò la cavalleria.
I Germani, uditi i clamori alle spalle, quando videro che i loro venivano massacrati, gettarono le armi, abbandonarono le insegne e fuggirono dall'accampamento. Giunti alla confluenza della Mosa con il Reno, dove non avevano più speranze di fuga, molti vennero uccisi, gli altri si gettarono nel fiume e qui, vinti dalla paura, dalla stanchezza, dalla forte corrente, morirono. I nostri, tutti salvi dal primo all'ultimo, con pochissimi feriti, rientrarono al campo dopo le apprensioni nutrite per uno scontro così rischioso, considerando che il nemico contava quattrocentotrentamila persone. Ai Germani prigionieri nell'accampamento Cesare permise di allontanarsi, ma costoro, temendo atroci supplizi da parte dei Galli di cui avevano saccheggiato i campi, dissero di voler rimanere presso di lui. Cesare concesse loro la libertà.
Terminata la guerra con i Germani, Cesare decise che doveva varcare il Reno, per molte ragioni, di cui una importantissima: vedendo con quale facilità i Germani tendevano a passare in Gallia, voleva che nutrissero timore anche per il proprio paese, quando si fossero resi conto che l'esercito del popolo romano poteva e osava oltrepassare il Reno. Si aggiungeva un'altra considerazione: la parte della cavalleria degli Usipeti e dei Tenteri che, come abbiamo detto, attraversata la Mosa a scopo di razzia e in cerca di grano, non aveva partecipato alla battaglia, dopo la fuga dei suoi si era rifugiata al di là del Reno, nelle terre dei Sigambri, unendosi a essi. Cesare, per chiedere la consegna di chi aveva mosso guerra a lui e alla Gallia, mandò suoi emissari ai Sigambri, che così risposero: il Reno segnava i confini del dominio di Roma; se egli riteneva ingiusto che i Germani, contro il suo volere, passassero in Gallia, perché pretendeva di aver dominio o potere al di là del Reno? Gli Ubi, poi, l'unico popolo d'oltre Reno che avesse inviato a Cesare emissari, stringendo alleanza e consegnando ostaggi, lo scongiuravano di intervenire in loro aiuto perché incombevano su di loro, pesantemente, gli Svevi; oppure, se ne era impedito dagli affari di stato, lo pregavano, almeno, di condurre l'esercito al di là del Reno: sarebbe stato un ausilio sufficiente per il presente e una speranza per il futuro. Il nome e la fama dell'esercito romano, dopo la vittoria su Ariovisto e il recentissimo successo, aveva raggiunto anche le più lontane genti germane: considerati alleati del popolo romano, gli Ubi sarebbero stati al sicuro. Promettevano una flotta numerosa per trasportare l'esercito.
Per i motivi che ho ricordato, Cesare aveva deciso di oltrepassare il Reno, ma riteneva che l'impiego delle navi non fosse abbastanza sicuro e non lo giudicava consono alla dignità sua e del popolo romano. Così, sebbene si presentassero gravi difficoltà per costruire un ponte - come la larghezza e la profondità del fiume, la rapidità della corrente - egli tuttavia stimava necessario adottare tale soluzione oppure rinunciare all'impresa. Ecco come progettò la struttura dei ponte. A distanza di due piedi univa, a due per volta, travi lievemente appuntite in basso, del diametro di un piede e mezzo di altezza commisurata alla profondità del fiume; poi, mediante macchinari le calava in acqua e con battipali le conficcava sul fondo del fiume, non a perpendicolo, come le travi delle palafitte, ma oblique e in pendenza, in modo da inclinare nel senso della corrente; più in basso, alla distanza di quaranta passi e dirimpetto alle prime travi, ne poneva altre, sempre legate a due a due, con inclinazione opposta all'impeto e alla corrente del fiume. Nell'interstizio collocava pali dello spessore di due piedi - pari alla distanza delle travi accoppiate - e, fissandoli con due arpioni, impediva che esse in cima si toccassero; perciò, poggiando su travi separate e ben ribadite in direzione contraria, la struttura del ponte risultava tale, da reggere, per necessità naturale, tanto più saldamente, quanto più impetuosa fosse la corrente. Sui pali venivano disposte, in senso orizzontale, altre travi su cui poggiavano tavole e graticci; inoltre, come sostegno, a valle venivano aggiunti, obliqui, pali fissati al resto della struttura per resistere alla corrente impetuosa; così pure altre travi, a monte, venivano collocate non lontano dal ponte, allo scopo di frenare eventuali tronchi o navi che i barbari avessero lanciato contro la costruzione per distruggerla: l'impatto sarebbe stato attutito e i danni al ponte limitati.
Da quando ebbe inizio la raccolta del materiale, in dieci giorni il lavoro fu portato a termine e l'esercito oltrepassò il fiume. Lasciati saldi presidi su entrambe le sponde, Cesare marciò verso il territorio dei Sigambri. Frattanto gli si presentano ambascerie di parecchie nazioni, alle cui richieste di pace e alleanza egli risponde benevolmente e ordina la consegna di ostaggi. Da quando erano incominciati i lavori per il ponte, i Sigambri, su pressione dei Tenteri e degli Usipeti che erano con loro, avevano preparato la fuga ed evacuato i loro territori, portando con sé tutti i loro beni e rifugiandosi in foreste disabitate.
Cesare si trattenne pochi giorni nella regione dei Sigambri, dove diede alle fiamme tutti i villaggi e le singole abitazioni e distrusse i raccolti, quindi ripiegò nei territori degli Ubi, a cui aveva promesso il suo aiuto in caso di attacco degli Svevi. Dagli Ubi venne a sapere quanto segue: gli Svevi, messi al corrente dai loro esploratori che si costruiva un ponte, tenuta un'assemblea, secondo il loro costume, avevano poi inviato emissari in tutte le direzioni, con l'ordine di evacuare le città e di mettere al sicuro nelle selve i figli, le mogli e ogni loro bene, mentre tutti gli uomini in grado di combattere dovevano radunarsi in un solo luogo, quasi al centro delle regioni controllate dagli Svevi: si era stabilito che lì avrebbero atteso l'arrivo dei Romani e combattuto. Cesare, quando lo seppe, avendo raggiunto gli scopi che lo avevano spinto ad attraversare il Reno (incutere timore ai Germani, punire i Sigambri, liberare gli Ubi dall'oppressione degli Svevi) e ritenendo, inoltre, che i diciotto giorni, in tutto, trascorsi al di là del Reno gli avessero procurato fama e vantaggi sufficienti, rientrò in Gallia e distrusse il ponte.
Non rimaneva che un'esigua parte dell'estate, tuttavia, benché in quelle regioni l'inverno sia precoce, dato che la Gallia è volta a settentrione, Cesare decise di partire per la Britannia, perché capiva che da lì giungevano ai nostri nemici aiuti in quasi tutte le guerre in Gallia; inoltre, anche se la stagione non bastava per le operazioni belliche, riteneva molto utile raggiungere almeno l'isola, vedere che genere di uomini l'abitasse, rendersi conto di luoghi, approdi, accessi, notizie quasi tutte ignorate anche dai Galli. È difficile, infatti, che uno si spinga fin là, a eccezione dei mercanti, e pure essi, all'infuori della costa e delle regioni prospicienti la Gallia, non conoscono altro. Infatti, pur avendo convocato mercanti da ogni parte, Cesare non riuscì a sapere quanto fosse estesa l'isola, quali e quanti popoli l'abitassero, che tecniche di combattimento adottassero, che genere di istituzioni avessero e quali fossero i porti in grado di accogliere una flotta di navi di stazza superiore.
Allo scopo di raccogliere informazioni in proposito, prima di affrontare l'impresa, Cesare manda in avanscoperta una nave da guerra agli ordini di C. Voluseno, ritenendolo adatto per la missione. Lo incarica di rientrare al più presto, una volta terminata la ricognizione. Dal canto suo, con l'esercito al completo si dirige nei territori dei Morini, perché da lì il tragitto verso la Britannia era il più breve. Ordina che qui si radunino le navi provenienti da tutte le regioni limitrofe e la flotta allestita l'estate precedente per la guerra contro i Veneti. Nel frattempo, le sue manovre vengono risapute e i mercanti le riferiscono ai Britanni: da parte di molti popoli dell'isola giungono messi per promettere che avrebbero consegnato ostaggi e si sarebbero sottomessi al dominio del popolo romano. Cesare li ascolta e, esortandoli a non mutare parere, con benevoli promesse li rimanda in patria accompagnati da Commio, che in Britannia godeva di grande autorità: Cesare ne stimava il valore e l'intelligenza e lo riteneva fedele al punto che lo aveva designato re degli Atrebati dopo averli sconfitti in battaglia. A Commio dà ordine di prendere contatti con il maggior numero di popoli per sollecitarli a mettersi sotto la protezione di Roma e per annunciare che presto Cesare sarebbe giunto. Voluseno, compiuta la ricognizione in tutte le zone, per quanto gli fu possibile, dato che non volle correre il rischio di sbarcare e di entrare in contatto con i barbari, raggiunge Cesare quattro giorni dopo e gli riferisce ciò che aveva osservato.
Mentre per preparare la flotta Cesare si attardava nei territori dei Morini, molte tribù della regione gli inviarono emissari per scusarsi della loro condotta passata, quando, barbari e ignari delle nostre consuetudini, avevano mosso guerra al popolo romano: adesso promettevano ubbidienza ai suoi ordini. Cesare la giudicò una circostanza veramente favorevole, perché non voleva lasciarsi un nemico alle spalle e, con l'estate che volgeva al termine, non aveva il tempo di sostenere una guerra; inoltre, stimava di non dover anteporre un problema di così lieve entità alla Britannia; pretese, allora, la consegna di un alto numero di ostaggi. Ricevuti i quali, pose i Morini sotto la propria protezione. Circa ottanta navi da carico, numero che giudicava sufficiente per il trasporto delle legioni, vennero radunate e munite di tolde. Le navi da guerra di cui disponeva vennero suddivise tra il questore, i legati e i prefetti. A esse si aggiungevano altre diciotto navi da carico, che erano a otto miglia di distanza e non riuscivano a raggiungere il porto per via del vento: le riservò alla cavalleria. Ai legati Q. Titurio Sabino e L. Aurunculeio Cotta affidò il resto dell'esercito col compito di guidarlo contro i Menapi e le tribù dei Morini che non avevano inviato ambascerie. Lasciò al legato P. Sulpicio Rufo una guarnigione giudicata sufficiente, con l'ordine di presidiare il porto.
Presi tali provvedimenti, approfittando del tempo favorevole alla navigazione, salpò all'incirca dopo mezzanotte e comandò alla cavalleria di raggiungere il porto successivo per imbarcarsi e seguirlo. I cavalieri eseguirono gli ordini troppo lentamente; Cesare, invece, con le prime navi pervenne alle coste della Britannia verso le nove di mattina e lì vide le truppe nemiche, in armi, schierate su tutte le alture circostanti. La natura del luogo era tale e le scogliere erano così a precipizio sul mare, che i dardi scagliati dall'alto potevano raggiungere il litorale. Avendo giudicato il luogo assolutamente inadatto per uno sbarco, gettò l'ancora e fino alle due del pomeriggio attese l'arrivo delle altre navi. Nel frattempo, convocati i legati e i tribuni militari, espose le informazioni raccolte da Voluseno e il suo piano, invitandoli a compiere tutte le manovre al primo cenno e istantaneamente, come richiede la tecnica militare, soprattutto negli scontri navali, dove i movimenti sono rapidi e variano continuamente. Dopo averli congedati, sfruttando il contemporaneo favore della marea e del vento, diede il segnale e levò le ancore. Avanzò per circa sette miglia e mise le navi alla fonda in un punto in cui il litorale era aperto e piano.
Ma i barbari, avendo inteso i propositi dei Romani, avevano mandato in avanti, seguiti dal resto dell'esercito, i cavalieri e gli essedari - reparti che di solito impiegano in battaglia - impedendo lo sbarco ai nostri, che incontravano enormi difficoltà: le navi, per le loro dimensioni, potevano fermarsi solo al largo; i soldati, poi, non conoscevano i luoghi, non avevano le mani libere, erano appesantiti dalle armi e dovevano, contemporaneamente, scendere dalle navi, resistere alle onde, combattere contro i nemici. I barbari, invece, liberi nei movimenti, combattevano dalla terraferma o entravano appena in acqua, conoscevano alla perfezione i luoghi, con audacia scagliavano frecce e lanciavano alla carica i loro cavalli, abituati a tali operazioni. I nostri, sgomenti per tutto ciò, trovandosi di fronte a una tecnica di combattimento del tutto nuova, non si battevano con il solito zelo e ardore dimostrato in campo aperto.
Quando se ne accorse, Cesare ordinò che le navi da guerra, di forma inconsueta per i barbari e facilmente manovrabili, si staccassero un po' dalle imbarcazioni da carico e, accelerando a forza di remi, si disponessero sul fianco destro del nemico e, da qui, azionassero le fionde, gli archi, le macchine da lancio per costringere gli avversari alla ritirata. La manovra si rivelò molto utile. Infatti, i barbari, scossi dalla forma delle navi, dal movimento dei remi e dall'insolito genere di macchine da lancio, si arrestarono e ripiegarono leggermente. Ma, visto che i nostri soldati, soprattutto per la profondità dell'acqua, esitavano, l'aquilifero della decima legione, dopo aver pregato gli dèi di dare felice esito all'impresa, gridò: 'Saltate giù, commilitoni, se non volete consegnare l'aquila al nemico: io, per parte mia, avrò fatto il mio dovere verso la repubblica e il comandante'. Lo disse a gran voce, poi saltò giù dalla nave e cominciò a correre contro i nemici. Allora i nostri, vicendevolmente spronandosi a non permettere un'onta così grave, saltarono giù dalla nave, tutti quanti. Anche i soldati delle navi vicine, come li videro, li seguirono e avanzarono contro i nemici.
Si combatté con accanimento da entrambe le parti. I nostri, tuttavia, erano in preda allo scompiglio, non riuscendo a mantenere lo schieramento, ad attestarsi saldamente, a seguire le proprie insegne, in quanto ciascuno, appena sbarcato, si univa alle prime in cui si imbatteva. I nemici, invece, che conoscevano tutti i bassifondi, non appena dal litorale vedevano alcuni dei nostri sbarcare isolati dalle navi, lanciavano i cavalli al galoppo e alla carica dei legionari in difficoltà: molti dei loro circondavano pochi dei nostri, mentre altri dal fianco destro, scagliavano un nugolo di frecce sul grosso dello schieramento. Cesare, appena se ne accorse, ordinò di riempire di soldati le scialuppe delle navi da guerra e i battelli da ricognizione e li inviò in aiuto di chi aveva visto in difficoltà. I nostri, non appena riuscirono ad attestarsi sulla terraferma, formati i ranghi, passarono al contrattacco e costrinsero alla fuga gli avversari, ma non ebbero modo di protrarre l'inseguimento, perché le navi con la cavalleria avevano perso la rotta e non erano riuscite a raggiungere l'isola: solo questo mancò alla solita buona stella di Cesare.
I nemici, vinti in battaglia, non appena si riebbero dall'affanno della fuga, immediatamente inviarono messi a Cesare per offrirgli la resa, promettendo la consegna di ostaggi e il rispetto degli ordini che volesse impartire. Insieme a loro giunse l'atrebate Commio, l'uomo mandato da Cesare in Britannia in avanscoperta, come in precedenza avevo chiarito. Non appena Commio era sceso dalla nave e aveva riferito, come portavoce, le richieste di Cesare, i Britanni lo avevano fatto prigioniero e messo in catene; ora, dopo la battaglia, lo avevano liberato e, nel domandare pace, attribuivano la responsabilità dell'accaduto al popolo, chiedendo di perdonare una colpa dovuta alla leggerezza. Cesare si lamentò che i Britanni, dopo aver spontaneamente inviato ambascerie sul continente per domandare pace, gli avevano poi mosso guerra senza motivo, ma disse che perdonava la loro leggerezza e chiese ostaggi. Una parte venne consegnata immediatamente, altri invece, fatti venire da regioni lontane. li avrebbero consegnati - dissero - entro pochi giorni. Nel frattempo, diedero disposizione ai loro di ritornare alle campagne; i principi di tutte le regioni si riunirono e cominciarono a pregare Cesare di aver riguardo per loro e per i rispettivi popoli.
Con tali misure la pace era assicurata: quattro giorni dopo il nostro arrivo in Britannia, le diciotto navi di cui si è parlato, su cui era imbarcata la cavalleria, dal porto più settentrionale salparono con una leggera brezza. Si stavano avvicinando alla Britannia ed erano già state avvistate dall'accampamento, quando all'improvviso si levò una tempesta così violenta, che nessuna delle navi riuscì a tenere la rotta: alcune vennero risospinte verso il porto di partenza, altre con grave pericolo vennero spinte verso la parte sud-occidentale dell'isola. Tentarono di gettare l'ancora, ma, sommerse dalla violenza dei flutti, furono costrette, sebbene fosse notte, a prendere il largo e a dirigersi verso il continente.
Capitò che quella notte stessa ci fosse luna piena, momento in cui la marea nell'Oceano è più alta, e i nostri non lo sapevano. Così, nello stesso tempo, la marea sommerse le navi da guerra impiegate per trasportare l'esercito e poi tirate in secco, mentre la tempesta sbatteva l'una contro l'altra le imbarcazioni da carico, che erano all'àncora, senza che i nostri avessero la minima possibilità di manovrare o porvi rimedio. Molte navi rimasero danneggiate, le altre, perse le funi, le ancore e il resto dell'attrezzatura, erano inutilizzabili: un profondo turbamento, com'era inevitabile, si impadronì di tutto l'esercito. Non c'erano, infatti, altre navi con cui ritornare, mancava tutto il necessario per riparare le barche danneggiate e, poiché tutti pensavano che si dovesse svernare in Gallia, sull'isola non si era provvisto il grano per l'inverno.
Appena ne furono informati, i principi britanni, che si erano recati da Cesare dopo la battaglia, presero accordi: rendendosi conto che i Romani non avevano né cavalleria, né navi, né frumento e constatando che dovevano essere ben pochi, viste le dimensioni dell'accampamento, ancor più ridotto del solito in quanto Cesare aveva trasportato le legioni senza bagagli, ritennero che la cosa migliore fosse ribellarsi, ostacolare i nostri nell'approvvigionamento di grano e viveri, protrarre le ostilità fino all'inverno, perché erano sicuri che, sconfiggendo i Romani o impedendo loro il ritorno, nessuno in futuro sarebbe penetrato in Britannia per portarvi guerra. Così, formata nuovamente una lega, a poco a poco cominciarono a lasciare l'accampamento romano e a radunare di nascosto i loro uomini dalle campagne.
Cesare non conosceva ancora il loro piano, ma dopo il disastro capitato alle navi e visto che non gli venivano più consegnati ostaggi, sospettava quello che sarebbe poi accaduto. Perciò, si premuniva per qualsiasi evenienza. Ogni giorno, infatti, disponeva che dalle campagne portassero grano all'accampamento, si serviva del legname e del bronzo delle navi più danneggiate per riparare le altre e ordinava di procurarsi dal continente il materiale necessario a tale scopo. Così, grazie allo straordinario impegno dei nostri soldati, pur risultando perdute dodici navi, mise le altre in condizione di navigare senza problemi.
Mentre accadevano tali fatti, come di consueto una legione, la settima, era stata inviata in cerca di grano (fino ad allora non si nutriva alcun sospetto di guerra, visto che parte dei Britanni si trovava nelle campagne, parte frequentava ancora l'accampamento romano). Le guardie dislocate alle porte del campo annunziarono a Cesare che, nella direzione in cui si era mossa la nostra legione, si vedeva levarsi più polvere del solito. Cesare, sospettando che i barbari, come in effetti era, stessero tentando qualche novità, ordinò alle coorti di guardia di partire con lui in quella direzione, e a due delle altre di prendere il loro posto: le rimanenti avrebbero dovuto armarsi e seguirlo al più presto. A una certa distanza dal campo, vide che i suoi erano pressati dal nemico e resistevano a fatica: sulla legione, serrata, piovevano frecce da tutti i lati. Ecco che cosa era accaduto: poiché il grano era stato raccolto in tutti i campi tranne uno, i nemici, supponendo che i nostri si sarebbero qui diretti, di notte si erano nascosti nelle selve; poi, erano piombati all'improvviso sui nostri, che si erano sparpagliati e avevano deposto le armi per attendere alla mietitura. Ne avevano uccisi pochi, ma gli altri, che non riuscivano a riformare i ranghi ed erano in pieno scompiglio, li avevano accerchiati contemporaneamente con i cavalieri e gli essedari.
La loro tecnica di combattimento con i carri è la seguente: prima corrono in tutte le direzioni, scagliano frecce e con i loro cavalli e lo strepito delle ruote gettano il panico, in genere, tra le file avversarie, che si disuniscono; poi, quando riescono a penetrare tra gli squadroni di cavalleria, scendono dai carri e combattono a piedi. Nel frattempo, gli aurighi a poco a poco si allontanano dalla mischia e piazzano i carri in modo tale che i loro compagni, nel caso siano incalzati da un gran numero di nemici, abbiano la possibilità di mettersi rapidamente al sicuro. Così, nelle battaglie si assicurano la mobilità dei cavalieri e la stabilità dei fanti. Grazie alla pratica e all'esercizio quotidiano sono capaci di frenare, anche in pendii a precipizio, i cavalli lanciati al galoppo, di moderarne la velocità e di cambiare direzione in poco spazio, di correre sopra il timone del carro, di tenersi fermi sul giogo dei cavalli e poi, da qui, di ritornare sui carri in un attimo.
Perciò, mentre i nostri erano disorientati dall'insolita tattica di combattimento, Cesare giunse in aiuto nel momento più opportuno: con il suo arrivo, infatti, i nemici si arrestarono, i nostri ripresero coraggio. Tuttavia, Cesare ritenne che non fosse il momento adatto per sfidare gli avversari e attaccar battaglia, perciò tenne le proprie posizioni e, poco dopo, ricondusse le legioni all'accampamento. Mentre si svolgono questi fatti, tenendo impegnati tutti i nostri, si ritirarono gli altri Britanni che si trovavano nelle campagne. Per parecchi giorni si rovesciarono piogge senza interruzione, che costrinsero i nostri nell'accampamento e impedirono ai nemici di attaccare. Nel frattempo, i barbari inviarono messaggeri in tutte le direzioni, continuando a insistere sul fatto che i nostri erano ben pochi e a spiegare quale bottino, quale possibilità di rendersi per sempre liberi li attendesse, se avessero scacciato i Romani dal loro campo. Così, dopo aver radunato un gran numero di fanti e cavalieri, mossero sull'accampamento romano.
Cesare si rendeva conto che si sarebbe verificata la stessa situazione delle battaglie precedenti: il nemico, in caso fosse stato battuto, si sarebbe sottratto a ogni pericolo grazie alla sua rapidità di movimento. Tuttavia, disponendo di circa trenta cavalieri che l'atrebate Commio, di cui si è già parlato, aveva condotto con sé, Cesare decise di schierare dinanzi all'accampamento le legioni, pronte alla battaglia. Lo scontro ebbe luogo: i nemici non riuscirono a reggere all'attacco dei legionari a lungo e si volsero in fuga. I nostri li inseguirono finché ebbero la forza di correre; dopo averne uccisi molti, incendiarono gli edifici in lungo e in largo e rientrarono al campo.
Quel giorno stesso a Cesare si presentarono emissari per chiedere pace. Egli raddoppiò il numero di ostaggi chiesti in precedenza e ne ordinò la consegna sul continente, perché non riteneva opportuno affrontare d'inverno la traversata - l'equinozio era vicino - con le navi in cattivo stato. Approfittando di un tempo favorevole, salpò poco dopo la mezzanotte: tutte le navi raggiunsero senza danni il continente; solo due imbarcazioni da carico non riuscirono ad approdare agli stessi porti delle altre e vennero sospinte un po' più a sud.
Da queste due navi sbarcarono circa trecento dei nostri, che si diressero verso l'accampamento. I Morini, che Cesare al momento della partenza per la Britannia aveva lasciato pacificati, spinti dalla speranza di bottino, circondarono dapprima in numero non altissimo i nostri e intimarono loro la resa, se volevano aver salva la vita. Mentre i legionari, disposti in cerchio, si difendevano, alle grida dei Morini sopraggiunsero rapidamente altri seimila uomini circa. Appena ne fu informato, Cesare, a sostegno dei suoi, inviò tutta la cavalleria presente al campo. Nel frattempo, i nostri ressero all'urto dei nemici e si batterono con estremo valore per più di quattro ore: subirono poche perdite e uccisero molti nemici. E non appena comparve la cavalleria, i nemici gettarono le armi e si diedero alla fuga: i nostri ne fecero strage.
Il giorno seguente, contro i Morini che si erano ribellati, Cesare inviò il legato T. Labieno alla testa delle legioni rientrate dalla Britannia. Le paludi erano in secca e i nemici, che non potevano rifugiarvisi come l'anno precedente, non sapevano dove ripiegare, perciò si sottomisero quasi tutti all'autorità di Labieno. E i legati Q. Titurio e L. Cotta, che avevano guidato le legioni nella regione dei Menapi, ritornarono da Cesare dopo aver devastato tutti i campi, distrutto i raccolti, incendiato gli edifici, in quanto la popolazione si era rifugiata in massa nel folto dei boschi. Cesare stabilì che tutte le legioni ponessero i quartieri d'inverno nelle terre dei Belgi. Lì pervennero gli ostaggi di due popoli britanni in tutto; gli altri contravvennero all'impegno di inviarli. In seguito a tali imprese, comunicate per lettera da Cesare, il senato decretò venti giorni di feste solenni di ringraziamento.
LIBRO QUINTO
Sotto il consolato di L. Domizio e Ap. Claudio, Cesare, al momento di lasciare i quartieri invernali per recarsi in Italia, come di consueto ogni anno, ordina ai legati preposti alle legioni di costruire, durante l'inverno, il maggior numero possibile di navi e di riparare le vecchie. Ne indica la struttura e la forma: per garantire rapide operazioni di imbarco e per tirarle con facilità in secco, le costruisce lievemente più basse delle navi di solito impiegate nel nostro mare e, tanto più perché aveva saputo che qui, per il frequente alternarsi delle maree, le onde sono meno alte, allo scopo di facilitare il trasporto del carico e dei giumenti, le rende un po' più larghe delle imbarcazioni che usiamo negli altri mari. Ordina di costruirle tutte leggere, e a tale scopo contribuiscono molto i bordi bassi. Comanda di far pervenire dalla Spagna tutto il necessario per equipaggiarle. Dal canto suo, tenute le sessioni giudiziarie in Gallia cisalpina, parte per l'Illirico, perché aveva sentito che i Pirusti, con scorrerie, stavano devastando le regioni di confine della nostra provincia. Una volta sul posto, chiede alle popolazioni truppe in rinforzo e ordina di concentrarle in un luogo stabilito. I Pirusti, appena lo sanno, inviano a Cesare emissari: gli spiegano che tutto era accaduto senza una deliberazione ufficiale e si dichiarano pronti a qualsiasi risarcimento dei danni. Dopo averli ascoltati, Cesare esige ostaggi e fissa il giorno della consegna; in caso contrario, dichiara che avrebbe mosso guerra. Secondo gli ordini, consegnano gli ostaggi il giorno stabilito ed egli, per dirimere le controversie tra le città, nomina dei giudici incaricati di calcolare i danni e di stabilire i risarcimenti.
Dopo tali provvedimenti e tenute le sessioni giudiziarie, Cesare ritorna nella Gallia cisalpina e, da qui, parte alla volta dell'esercito. Appena giunto, ispeziona tutti i campi invernali e trova che, nonostante la carenza estrema di materiale, i soldati, grazie al loro straordinario impegno, avevano costruito circa seicento imbarcazioni del tipo già descritto e ventotto navi da guerra, in grado di essere varate entro pochi giorni. Elogiati i soldati e gli ufficiali preposti ai lavori, impartisce le istruzioni e ordina a tutti di radunarsi a Porto Izio, da dove sapeva che il passaggio in Britannia era assai agevole, perché la distanza dal continente era di circa trenta miglia: lasciò un presidio giudicato sufficiente per tale operazione. Egli, alla testa di quattro legioni senza bagagli e di ottocento cavalieri, punta sui territori dei Treveri, popolo che non si presentava alle assemblee, non ubbidiva agli ordini e, a quel che si diceva, sollecitava l'intervento dei Germani d'oltre Reno.
I Treveri possiedono, tra tutti i Galli, la cavalleria più forte in assoluto e una fanteria numerosa. I loro territori raggiungono, come si è detto in precedenza, il Reno. Tra i Treveri due uomini lottavano per il potere: Induziomaro e Cingetorige. Quest'ultimo, non appena giunge notizia dell'arrivo di Cesare con le legioni, gli si presenta e, confermandogli che lui e tutti i suoi avrebbero rispettato gli impegni assunti senza tradire l'amicizia del popolo romano, lo mette al corrente della situazione. Induziomaro, invece, inizia a raccogliere cavalieri e fanti e a prepararsi alla guerra; chi, per ragioni d'età, non poteva combattere, era stato posto al sicuro nella selva delle Ardenne, una foresta enorme, che dal Reno attraverso la regione dei Treveri si estende sino al confine dei Remi. Ma quando alcuni principi dei Treveri, spinti dai loro legami di amicizia con Cingetorige e spaventati dall'arrivo del nostro esercito, si recarono da Cesare e, non potendo provvedere per la nazione, cominciarono a presentargli richieste per se stessi, anche Induziomaro, nel timore di rimaner completamente solo, gli inviò emissari: non aveva voluto abbandonare i suoi e presentarsi di persona a Cesare soltanto per poter garantire, con maggior facilità, il rispetto degli impegni assunti; c'era il rischio che il popolo, una volta lontani tutti i nobili, commettesse imprudenze; i Treveri, dunque, erano sotto la sua autorità ed egli, se Cesare lo permetteva, si sarebbe recato nell'accampamento romano per porre se stesso e la propria gente sotto la sua protezione.
Cesare, anche se capiva i motivi che avevano spinto Induziomaro a parlare in tali termini e che cosa lo inducesse a rinunciare al piano intrapreso, tuttavia, per non trovarsi costretto, con la spedizione per la Britannia già pronta, a passare l'estate nelle terre dei Treveri, gli ordinò di presentarsi con duecento ostaggi. Dopo che Induziomaro ebbe consegnato gli ostaggi, tra cui suo figlio e tutti i suoi parenti, espressamente richiesti, Cesare lo trattò con benevolenza, lo invitò a rispettare gli impegni; comunque, convocati i capi dei Treveri, li riconciliò uno a uno con Cingetorige, non solo in considerazione dei meriti da lui acquisiti, ma anche perché riteneva molto importante favorire al massimo l'autorità di Cingetorige tra i Treveri, data la straordinaria devozione del Gallo nei suoi confronti. Fu un duro colpo per Induziomaro veder diminuito il suo prestigio tra i Treveri: se già prima il suo animo ci era ostile, adesso l'ira lo inasprì maggiormente.
Sistemata la questione, Cesare con le legioni raggiunse Porto Izio. Qui apprese che sessanta navi, costruite nelle terre dei Meldi, erano state respinte da una tempesta e non avevano potuto tenere la rotta, per cui erano rientrate alla base di partenza; trovò, però, le altre pronte a salpare ed equipaggiate di tutto punto. Qui lo raggiunsero contingenti di cavalleria da ogni parte della Gallia, per un complesso di circa quattromila uomini, insieme ai principi dei vari popoli: ne lasciò in Gallia ben pochi, quelli di provata lealtà; gli altri aveva deliberato di portarseli dietro in qualità di ostaggi, perché temeva, in sua assenza, una sollevazione della Gallia.
Tra gli altri c'era l'eduo Dumnorige, di cui abbiamo già parlato. Fu uno dei primi che Cesare decise di tenere con sé, conoscendone il desiderio di rivolgimento, l'ambizione di comandare, la forza d'animo e il grande prestigio tra i Galli. Inoltre, nell'assemblea degli Edui, Dumnorige aveva detto che Cesare gli aveva offerto il regno: ciò non piaceva affatto agli Edui, ma non osavano inviare messi a Cesare per opporsi o per invitarlo a desistere. Della faccenda Cesare era stato informato dai suoi ospiti. Dumnorige, in un primo tempo, ricorse a ogni sorta di preghiere per riuscire a restare in Gallia: disse di aver paura del mare, inesperto com'era di navigazione, addusse come scusa un impedimento d'ordine religioso. Quando vide le sue richieste tenacemente respinte, persa ogni speranza di raggiungere il suo scopo, cominciò a sobillare i principi della Gallia e a terrorizzarli; li prendeva in disparte, li spingeva a non lasciare il continente: non era un caso se la Gallia veniva privata di tutti i nobili; si trattava di un piano di Cesare, che, non avendo il coraggio di eliminarli sotto gli occhi dei Galli, li portava in Britannia per ucciderli; come garanzia per loro, Dumnorige dava la propria parola, ma ne esigeva la promessa, con giuramento solenne, di provvedere di comune accordo a ciò che ritenevano l'interesse della Gallia. Le mosse di Dumnorige vennero riferite a Cesare da più d'uno.
Non appena lo seppe, Cesare, in quanto attribuiva molto prestigio al popolo eduo, stimava necessario tenere a freno e dissuadere Dumnorige con qualsiasi mezzo. E vedendo che la follia del Gallo non faceva che crescere sempre di più, passò alle misure necessarie per evitare danni a sé e alla repubblica. Così, nel periodo in cui fu costretto a rimanere a Porto Izio, circa venticinque giorni, perché il vento coro, che in quella regione soffia pressoché costante in ogni epoca dell'anno, impediva la navigazione, Cesare si adoperava per tenere al suo posto Dumnorige e per conoscerne, al tempo stesso, tutti i piani. Alla fine, sfruttando il tempo propizio alla navigazione, ordina ai soldati e ai cavalieri di imbarcarsi. Ma mentre tutti erano intenti a tale operazione, Dumnorige, alla testa dei cavalieri edui, si allontana dal campo e si dirige in patria, all'insaputa di Cesare. Appena informato, sospesa la partenza e rimandata ogni altra faccenda, Cesare lancia all'inseguimento di Dumnorige il grosso della cavalleria e comanda di ricondurlo all'accampamento; se si fosse ribellato e non avesse eseguito gli ordini, dà disposizione di ucciderlo, non attendendosi nulla di sensato, in propria assenza, da un uomo che aveva dissubbidito al suo cospetto. All'intimazione di tornare indietro, Dumnorige comincia a opporre resistenza, si difende con la forza, scongiura i suoi di osservare i patti, proclamandosi più volte, a gran voce, uomo libero di un popolo libero. I Romani, conforme agli ordini, lo circondano e lo uccidono: tutti i cavalieri edui ritornano da Cesare.
Dopo tali avvenimenti, Cesare lasciò Labieno sul continente con tre legioni e duemila cavalieri, per difendere i porti, provvedere alle scorte di grano, tenersi al corrente della situazione in Gallia e prendere decisioni sulla base del momento e delle circostanze. Dal canto suo, salpò alla testa di cinque legioni e di tanti cavalieri, quanti ne aveva lasciati in terraferma; fece vela verso il tramonto, al soffio leggero dell'africo, che però cessò verso mezzanotte, impedendogli di tenere la rotta: spinto piuttosto lontano dalla marea, all'alba vide che aveva lasciato la Britannia alla sua sinistra. Allora, sfruttando, adesso, la marea, che aveva cambiato direzione, a forza di remi cercò di raggiungere la zona dell'isola che - lo sapeva dall'estate precedente - consentiva un comodissimo accesso. Nel corso della manovra, veramente lodevole fu l'impegno dei soldati: pur con navi da trasporto appesantite dai carichi, senza mai smettere di remare, riuscirono a uguagliare la velocità delle navi da guerra. Approdò in Britannia con tutte le navi verso mezzogiorno, senza alcun nemico in vista; come apprese in seguito dai prigionieri, i Britanni, giunti sul luogo con truppe numerose, erano rimasti atterriti alla vista della nostra flotta: erano apparse, contemporaneamente, più di ottocento unità, comprese le navi dell'anno precedente e le imbarcazioni private che alcuni avevano costruito per propria comodità. Quindi, i nemici avevano abbandonato il litorale e si erano rifugiati sulle alture.
Cesare provvide allo sbarco dell'esercito e alla scelta di un luogo adatto per il campo. Non appena dai prigionieri seppe dove si erano attestate le truppe nemiche, lasciò nella zona costiera dieci coorti e trecento cavalieri a presidio delle navi e, dopo mezzanotte, mosse contro i nemici, senza alcun timore per le imbarcazioni, lasciate all'ancora su un litorale in lieve pendio e senza scogli; lasciò a capo del distaccamento e delle navi Q. Atrio. Dopo aver percorso, di notte, circa dodici miglia, Cesare avvistò i nemici, che dalle alture, con la cavalleria e i carri, avanzarono verso il fiume: qui, stando in posizione più elevata, impedirono ai nostri di procedere e attaccarono battaglia. Respinti dalla cavalleria, cercarono rifugio nelle selve, sfruttando una zona egregiamente difesa dalla conformazione naturale e da fortificazioni allestite già in passato, probabilmente in occasione di guerre interne: avevano abbattuto molti alberi, disponendoli in modo da precludere ogni accesso. I Britanni, disseminati qua e là, combattevano dall'interno delle selve e ostacolavano l'ingresso dei nostri nella loro roccaforte. Ma i soldati della settima legione, dopo aver formato la testuggine ed essere riusciti a costruire un terrapieno fino ai baluardi nemici, presero la postazione dei Britanni e, subendo poche perdite, li costrinsero a lasciare le selve. Ma Cesare ordinò di non proseguire l'inseguimento, sia perché non conosceva la zona, sia perché era già giorno inoltrato e voleva dedicare le ultime ore di luce a rinsaldare le difese del proprio campo.
La mattina successiva, inviò all'inseguimento del nemico in fuga tre colonne di legionari e cavalieri. I nostri avevano già percorso un certo tratto ed erano ormai in vista dei primi fuggiaschi, quando alcuni cavalieri inviati da Q. Atrio raggiunsero Cesare per riferirgli che la notte precedente era scoppiata una violentissima tempesta: quasi tutte le navi avevano subito danni ed erano state sbattute sul litorale; non avevano retto né le ancore, né le gomene; nulla avevano potuto marinai e timonieri contro la violenza della tempesta: le navi avevano cozzato le une contro le altre, riportando gravi danni.
Informato dell'accaduto, Cesare ordina alle legioni e alla cavalleria di ritornare e di resistere durante il rientro; lui personalmente raggiunge le navi. Constata, con i suoi occhi, che la situazione all'incirca corrispondeva alle informazioni ricevute dalla lettera e dai messi: risultavano perdute circa quaranta navi, ma le altre sembravano riparabili, sia pur con grandi fatiche. Così, tra i legionari sceglie dei carpentieri e ne fa arrivare altri dal continente. Scrive a Labieno di costruire, con le legioni a sua disposizione, quante più navi possibile. Sebbene l'operazione risultasse molto complicata e faticosa, decide che la soluzione migliore consisteva nel tirare in secco tutte le navi e congiungerle all'accampamento con una fortificazione unica. I lavori richiedono circa dieci giorni, durante i quali i soldati non si concedono mai una sosta, neppure di notte. Tirate in secco le imbarcazioni e ben munito il campo, lascia a presidio delle navi le stesse truppe di prima e ritorna da dove era venuto. Appena giunto, vede che già si erano lì radunate, ben più numerose di prima, truppe nemiche provenienti da tutte le regioni: il comando supremo delle operazioni era stato affidato, per volontà comune, a Cassivellauno, sovrano di una regione separata dai popoli che abitavano lungo il mare da un fiume chiamato Tamigi e distante dal mare circa ottanta miglia. In passato, tra Cassivellauno e gli altri popoli c'era stata continua guerra, ma adesso i Britanni, preoccupati per il nostro arrivo, gli avevano conferito il comando supremo delle operazioni.
Nella parte interna della Britannia gli abitanti, secondo quanto essi stessi dicono per remota memoria, sono autoctoni, mentre nelle regioni costiere vivono genti venute dal Belgio a scopo di bottino e di guerra e che, dopo la guerra, si erano qui insediate dandosi all'agricoltura: quasi tutte queste genti conservano i nomi dei gruppi di origine. La popolazione è numerosissima, molto fitte le case, abbastanza simili alle abitazioni dei Galli, elevato il numero dei capi di bestiame. Come denaro usano rame o monete d'oro, oppure, in sostituzione, sbarrette di ferro di un determinato peso. Le regioni dell'interno sono ricche di stagno, sulla costa si trova ferro, ma in piccola quantità; usano rame importato. Ci sono alberi d'ogni genere, come in Gallia, tranne faggi e abeti. La loro religione vieta di mangiare lepri, galline e oche, animali che essi, comunque, allevano per proprio piacere. Il clima è più temperato che in Gallia, il freddo meno intenso.
L'isola ha forma triangolare, con un lato posto di fronte alla Gallia: un angolo di questo lato, verso il Canzio, dove approdano quasi tutte le navi provenienti dalla Gallia, è rivolto a oriente; l'altro, più basso, guarda a meridione. Questo lato è lungo circa cinquecento miglia. Un altro lato è volto verso la Spagna e occidente: su questo versante c'è l'Ibernia, un'isola che si reputa circa la metà della Britannia e che da essa dista tanto quanto la Britannia stessa dalla Gallia. A metà strada si trova un'isola chiamata Mona; inoltre, si ritiene che ci siano molte altre isole minori lungo la costa: alcuni hanno scritto che in esse, nel periodo del solstizio d'inverno, la notte dura trenta giorni consecutivi. Noi non siamo riusciti a raccogliere altre notizie in proposito, malgrado le nostre domande; abbiamo solo constatato che qui le notti, misurate con precisione mediante clessidre ad acqua, sono più brevi rispetto al continente. La lunghezza di questo lato, secondo l'opinione degli autori citati, è di settecento miglia. Il terzo lato è rivolto a settentrione: nessuna terra gli sta di fronte, ma un suo lembo guarda essenzialmente verso la Germania. Si ritiene che si estenda per ottocento miglia. Così, il perimetro totale dell'isola risulta di duemila miglia.
Tra tutti i popoli della Britannia, i più civili in assoluto sono gli abitanti del Canzio, una regione completamente marittima non molto dissimile per usi e costumi dalla Gallia. Gli abitanti dell'interno, per la maggior parte, non seminano grano, ma si nutrono di latte e carne e si vestono di pelli. Tutti i Britanni, poi, si tingono col guado, che produce un colore turchino, e perciò in battaglia il loro aspetto è ancor più terrificante; portano i capelli lunghi e si radono in ogni parte del corpo, a eccezione della testa e del labbro superiore. Hanno le donne in comune, vivendo in gruppi di dieci o dodici, soprattutto fratelli con fratelli e genitori con figli; se nascono dei bambini, sono considerati figli dell'uomo che per primo si è unito alla donna.
I cavalieri e gli essedari nemici si scontrarono duramente con la nostra cavalleria in marcia, che però ebbe il sopravvento in ogni settore e li respinse nelle selve e sui colli. I nostri, però, dopo averne uccisi molti, li inseguirono con eccessiva foga e riportarono alcune perdite. I Britanni per un po' attesero, poi, all'improvviso, dalle selve si precipitarono sui nostri, che non se l'aspettavano ed erano intenti ai lavori di fortificazione: assalite le guardie di fronte all'accampamento, si batterono accanitamente. Cesare inviò in aiuto due coorti - le prime di due legioni - che si schierarono a brevissima distanza l'una dall'altra. Ma mentre i nostri erano atterriti dalla nuova tattica di combattimento degli avversari, i Britanni, con estrema audacia, sfondarono il fronte tra le due coorti e, quindi, ripararono in salvo. Quel giorno perde la vita Q. Laberio Duro, tribuno militare. I nemici vengono respinti grazie all'invio di altre coorti a rinforzo.
Nel suo insieme, il tipo di battaglia, svoltasi sotto gli occhi di tutti, davanti all'accampamento, ci permise di capire che i nostri non erano preparati ad affrontare un avversario del genere: appesantiti dall'armamento, i Romani non erano in grado di inseguire i nemici in fuga, né osavano allontanarsi dalle insegne. I cavalieri, poi, correvano grossi rischi nella mischia, perché gli avversari per lo più cedevano, anche di proposito: quando erano riusciti a portare i nostri cavalieri abbastanza lontano dalle legioni, scendevano dai carri e, a piedi, combattevano in posizione di vantaggio. Così, la natura degli scontri di cavalleria era identica per chi inseguiva e per chi si ritirava, presentando pari pericolo per entrambi. Inoltre, i nemici non lottavano mai in formazione serrata, ma a piccoli gruppi molto distanziati, disponendo postazioni di riserva: a turno gli uni subentravano agli altri, soldati freschi e riposati davano il cambio a chi era stanco.
L'indomani i nemici si attestarono sui colli, lontano dall'accampamento. Cominciarono ad avanzare in ordine sparso e a sfidare la nostra cavalleria con minor foga del giorno precedente. Ma nel pomeriggio, dopo che Cesare aveva inviato in cerca di foraggio tre legioni e tutta la cavalleria agli ordini del legato C. Trebonio, all'improvviso i nemici piombarono su di essi da ogni direzione, stringendosi attorno alle insegne e alle legioni. I nostri, con un veemente assalto, li respinsero e li incalzarono: i cavalieri, contando sull'appoggio delle legioni, che vedevano alle spalle, costrinsero i nemici a una fuga precipitosa, ne fecero strage e non diedero loro la possibilità né di raccogliersi, né di attestarsi o di scendere dai carri. Questa fuga provocò subito la dispersione delle truppe ausiliarie dei Britanni, che erano giunte da ogni regione: in seguito, il nemico non ci avrebbe più affrontato con l'esercito al completo.
Cesare, informato delle intenzioni dei Britanni, condusse l'esercito nelle terre di Cassivellauno, verso il Tamigi, fiume che può essere guadato a piedi solo in un punto, e a stento. Appena giunto, si rese conto che sull'altra sponda erano schierate ingenti forze nemiche. La riva, poi, era difesa da pali aguzzi piantati nel terreno, così come altri simili, sott'acqua, erano celati dal fiume. Messo al corrente di ciò dai prigionieri e dai fuggiaschi, Cesare mandò in avanti la cavalleria e ordinò alle legioni di seguirla senza indugio. I nostri, pur riuscendo a tenere fuori dall'acqua solo la testa, avanzarono con una rapidità e un impeto tale, che gli avversari, non essendo in grado di reggere all'assalto delle legioni e della cavalleria, abbandonarono la riva e fuggirono.
Cassivellauno - lo abbiamo detto in precedenza - persa ogni speranza di proseguire nello scontro aperto, aveva congedato il grosso dell'esercito e con solo circa quattromila essedari sorvegliava i nostri movimenti: si teneva a poca distanza dalle strade, nascosto in luoghi di difficile accesso e fitti di boschi; nelle zone per cui sapeva che dovevamo transitare cacciava via bestiame e popolazione dalle campagne nelle foreste. Quando la nostra cavalleria si spingeva troppo in là nei campi, per saccheggiare e devastare, lungo tutte le strade e i sentieri, dai boschi Cassivellauno lanciava all'attacco i carri e combatteva con i nostri con tale rischio per loro, da costringerli, per il timore di scontri, a non spingersi troppo distante. A Cesare non restava che impedire alla cavalleria di allontanarsi troppo dal grosso delle legioni in marcia, e accontentarsi di danneggiare i nemici devastandone le campagne e appiccando incendi, per quanto lo potevano i legionari, impegnati in marce faticose.
Nel frattempo giunge a Cesare un'ambasceria da parte dei Trinovanti, il più potente, o quasi, tra i popoli di quelle regioni. In passato, uno di essi, il giovane Mandubracio, si era posto sotto la protezione di Cesare e lo aveva raggiunto sul continente: suo padre era diventato re ed era stato ucciso da Cassivellauno, mentre lui si era salvato con la fuga. Gli ambasciatori dei Trinovanti, promettendo resa e obbedienza, chiedono a Cesare di tutelare Mandubracio dai soprusi di Cassivellauno e di inviarlo al suo popolo per diventarne il capo e assumere il potere. Cesare esige da loro quaranta ostaggi e grano per l'esercito e invia Mandubracio. I Trinovanti eseguirono rapidamente gli ordini e mandarono gli ostaggi, secondo il numero fissato, e il grano.
Vedendo i Trinovanti protetti e al sicuro da ogni attacco militare, i Cenimagni, i Segontiaci, gli Ancaliti, i Bibroci e i Cassi mandarono a Cesare ambascerie per arrendersi. Da essi seppe che, non lontano, sorgeva la roccaforte di Cassivellauno difesa da selve e paludi, dove erano stati concentrati uomini e bestiame in numero ragguardevole. I Britanni, in effetti, chiamano roccaforte una selva impraticabile munita da vallo e fossa, dove di solito si raccolgono per sottrarsi alle incursioni dei nemici. Lì Cesare si diresse con le legioni: si imbatté in un luogo estremamente ben protetto sia dalla conformazione naturale, sia dall'opera dell'uomo. Nonostante ciò, intraprese l'assedio su due fronti. I nemici opposero una breve resistenza, ma non riuscirono a frenare l'assalto dei nostri e cercarono di mettersi in salvo da un'altra parte della roccaforte. Qui venne trovato un gran numero di capi di bestiame e molti dei fuggiaschi furono catturati e uccisi.
Nel corso di tali avvenimenti, Cassivellauno invia dei messi nel Canzio, regione che si affaccia sul mare - lo si è già ricordato - e che era governata da quattro re: Cingetorige, Carvilio, Taximagulo e Segovace. A essi ordina di raccogliere tutte le loro truppe e di sferrare un improvviso attacco all'accampamento navale romano, ponendolo sotto assedio. Appena i nemici giunsero al campo, i nostri effettuarono una sortita e ne fecero strage: catturato anche il loro capo, Lugotorige, di nobile stirpe, rientrarono sani e salvi. Quando gli fu annunciato l'esito della battaglia, Cassivellauno, visti i tanti rovesci, i territori devastati e scosso, soprattutto, dalle defezioni, invia, tramite l'atrebate Commio, una legazione a Cesare per trattare la resa. Cesare aveva deciso di svernare sul continente per prevenire repentine sollevazioni in Gallia e si rendeva conto che, volgendo ormai l'estate al termine, i nemici potevano con facilità temporeggiare. Perciò, chiede ostaggi e fissa il tributo che la Britannia avrebbe dovuto pagare annualmente al popolo romano. A Cassivellauno proibisce formalmente di arrecar danno a Mandubracio o ai Trinovanti.
Consegnati gli ostaggi, riconduce l'esercito sulla costa, dove trova le navi riparate. Dopo averle calate in acqua, decise di trasportare l'esercito in due viaggi, poiché aveva molti prigionieri e alcune navi erano state distrutte dalla tempesta. Ma ecco che cosa capitò: di tante navi, in tante traversate, non ne era andata perduta neppure una che trasportasse soldati, né quell'anno, né l'anno precedente; delle imbarcazioni, invece, che gli venivano rinviate vuote dal continente (che si trattasse delle navi di ritorno dal primo viaggio dopo aver sbarcato le truppe, oppure delle sessanta costruite in un secondo tempo da Labieno), pochissime erano giunte a destinazione, quasi tutte le altre erano state ributtate sulla costa. Cesare le attese per un po' inutilmente; poi, per evitare che la stagione - l'equinozio era vicino - impedisse la navigazione, fu costretto a stipare i soldati un po' più allo stretto del solito. Levate le ancore subito dopo le nove di sera, trovò il mare molto calmo e all'alba prese terra: aveva portato in salvo tutte le navi.
Dopo aver tratto in secca le navi e tenuto l'assemblea dei Galli a Samarobriva, vista la magra annata per il grano a causa della siccità, fu costretto a disporre i quartieri d'inverno in modo diverso rispetto agli anni precedenti e a ripartire le legioni su più territori. Ne inviò una presso i Morini sotto la guida del legato C. Fabio, un'altra con Q. Cicerone dai Nervi, una terza con L. Roscio nella regione degli Esuvi; ordinò che una quarta legione, al comando di T. Labieno, svernasse nei territori dei Remi, al confine con i Treveri; ne stanziò tre nel paese dei Belgi, alle dipendenze del questore M. Crasso e dei legati L. Munazio Planco e C. Trebonio. Una legione, di recente arruolata al di là del Po, venne mandata, insieme a cinque coorti, fra gli Eburoni, che per la maggior parte abitano tra la Mosa e il Reno e sui quali regnavano Ambiorige e Catuvolco. Il comando ne fu affidato ai legati Q. Titurio Sabino e L. Aurunculeio Cotta. Ripartite così le truppe, stimava di poter ovviare, con grande facilità, alla penuria di grano. Gli accampamenti invernali di tutte le legioni non distavano, comunque, più di cento miglia l'uno dall'altro, eccezion fatta per le milizie di L. Roscio, che però doveva condurle in una zona del tutto tranquilla e sicura. Dal canto suo, Cesare decise di fermarsi in Gallia fino a conferma ricevuta che le legioni erano stanziate nelle rispettive zone e che gli accampamenti erano stati fortificati.
Tra i Carnuti viveva una persona di nobili natali, Tasgezio, i cui antenati avevano regnato sul paese: Cesare gli aveva restituito il rango degli avi, in considerazione del suo valore e della sua fedeltà, dato che in tutte le guerre Cesare si era avvalso del suo contributo incomparabile. Tasgezio era già al suo terzo anno di regno, quando i suoi oppositori lo eliminarono con una congiura, mentre anche molti cittadini avevano appoggiato apertamente il piano. La cosa viene riferita a Cesare, che, temendo una defezione dei Carnuti sotto la spinta degli oppositori - parecchi erano implicati nella vicenda - ordina a L. Planco di partire al più presto dal Belgio alla testa della sua legione, di raggiungere il territorio dei Carnuti e di passarvi l'inverno: chiunque gli risultasse implicato nell'uccisione di Tasgezio, doveva essere arrestato e inviato a Cesare. Nello stesso tempo, tutti gli ufficiali preposti alle legioni informano Cesare che erano giunti ai quartieri d'inverno e che le fortificazioni erano ormai ultimate.
Circa quindici giorni dopo l'arrivo agli accampamenti invernali, improvvisamente scoppiò un'insurrezione guidata da Ambiorige e Catuvolco. Costoro si erano presentati al confine dei loro territori, a disposizione di Sabino e di Cotta e avevano consegnato grano all'accampamento; in seguito, però, spinti dai messi del trevero Induziomaro, avevano chiamato i loro a raccolta e, sopraffatti i nostri legionari in cerca di legna, con ingenti forze avevano stretto d'assedio il campo. Mentre i nostri impugnavano rapidamente le armi e salivano sul vallo, i cavalieri spagnoli, usciti da una porta del campo, sferravano un attacco in cui ebbero la meglio: gli avversari, persa ogni speranza di vittoria, furono costretti a togliere l'assedio. Poi, a gran voce, come è loro costume, chiesero che qualcuno dei nostri si facesse avanti per parlamentare: avevano da riferire informazioni d'interesse comune, grazie alle quali speravano di poter risolvere i contrasti.
Al colloquio viene inviato C. Arpineio, cavaliere romano, parente di Q. Titurio, insieme a uno Spagnolo, un certo Q. Giunio, che in passato, per incarico di Cesare, si era già più volte recato da Ambiorige. A essi Ambiorige parlò come segue: ammetteva i molti debiti di riconoscenza nei confronti di Cesare (grazie al suo intervento era stato sollevato dal tributo che pagava abitualmente agli Atuatuci, popolo limitrofo; Cesare gli aveva restituito suo figlio e il figlio di suo fratello, che, inclusi nel novero degli ostaggi, erano tenuti asserviti in catene dagli Atuatuci); quanto all'assedio al campo romano, aveva agito non di iniziativa o volontà propria, ma costretto dal popolo, e la sua sovranità stava in questi termini: la sua gente aveva nei suoi confronti gli stessi diritti che aveva lui nei confronti della sua gente. Il popolo, d'altro, canto, era insorto perché non aveva potuto opporsi alla repentina formazione di una lega dei Galli. E prova evidente di ciò era la sua debolezza: non era tanto sprovveduto da confidare, con le proprie truppe, in una vittoria sul popolo romano. Si trattava, piuttosto, di un piano comune a tutti i Galli: era stato deciso di assediare, in quel giorno, tutti i campi invernali di Cesare, in modo che nessuna legione fosse in grado di soccorrerne un'altra. Come potevano dei Galli, con facilità, opporre un rifiuto alla proposta di altri Galli, soprattutto quando sembrava mirare alla riconquista della libertà comune? Se, dunque, prima aveva aderito alla lega dei Galli per amor di patria, adesso teneva conto del suo dovere per i benefici ricevuti da Cesare: avvertiva, supplicava Titurio, in nome dei loro vincoli d'ospitalità, di provvedere a porsi in salvo con i propri soldati. Un forte esercito di mercenari germani aveva attraversato il Reno: sarebbero giunti nell'arco di due giorni. Spettava ai Romani la decisione di far uscire dall'accampamento i soldati prima che i Galli vicini se ne accorgessero, e condurli da Cicerone o da Labieno, distanti l'uno circa cinquanta miglia, l'altro poco più. Prometteva e giurava dar via libera sul proprio territorio. Agendo così, avrebbe provveduto al bene della propria gente, perché veniva liberata dal campo romano, e ricambiato i servigi di Cesare. Ciò detto, Ambiorige si allontana.
Arpineio e Giunio riferiscono le parole di Ambiorige ai legati, che, turbati dagli eventi repentini, stimavano di dover dar peso alle informazioni, per quanto fornite dal nemico. Li spingeva, soprattutto, una considerazione: era ben poco credibile che un popolo così oscuro e debole come gli Eburoni avesse osato, di propria iniziativa, muovere guerra a Roma. Perciò, rimandano la questione al consiglio di guerra, dove si verificano forti contrasti. L. Aurunculeio, seguito da molti tribuni militari e dai centurioni più alti in grado, era dell'avviso di non prendere iniziative avventate e di non lasciare i quartieri d'inverno senza ordine di Cesare; spiegavano che, essendo il campo fortificato, era possibile tener testa alle truppe dei Germani, per quanto numerose; lo testimoniava il fatto che avevano retto con grandissimo vigore al primo assalto e avevano inflitto al nemico gravi perdite; la situazione delle scorte di grano non era preoccupante; nel frattempo, sia dai campi più vicini, sia da Cesare sarebbero arrivati rinforzi; infine, cosa c'era di più avventato o vergognoso che deliberare su questioni gravissime, per suggerimento dei nemici?
A ciò Titurio obiettava, gridando, che si sarebbero mossi tardi, con le forze avversarie ormai più consistenti per l'arrivo dei Germani oppure dopo qualche disastro negli accampamenti vicini. Avevano poco tempo per decidere. Riteneva che Cesare fosse partito per l'Italia, altrimenti i Carnuti non avrebbero preso la decisione di eliminare Tasgezio, né gli Eburoni, se lui era presente in Gallia, avrebbero marciato sul campo con tanto disprezzo per le nostre forze. Le proposte del nemico non c'entravano, si trattava di valutare la situazione: il Reno era vicino; la morte di Ariovisto e le nostre precedenti vittorie avevano costituito un gran dolore per i Germani; la Gallia bruciava per le molte umiliazioni subite, per dover sottostare al dominio del popolo romano, per l'antica gloria militare oscurata. Infine, ma chi poteva convincersi che Ambiorige avesse assunto una decisione del genere senza uno scopo ben preciso? La sua proposta era sicura in entrambi i casi: se non si verificava nulla di grave, avrebbero raggiunto la legione più vicina, senza rischi; se, invece, la Gallia era tutta d'accordo con i Germani, l'unica speranza di salvezza era riposta nella rapidità. Il parere di Cotta e di chi dissentiva, a cosa portava? Se per il presente non rappresentava un pericolo, certo avrebbero dovuto temere la fame, in un lungo assedio.
Mentre così si discuteva, da una parte e dall'altra, visto che Cotta e i centurioni più alti in grado si opponevano con tenacia, Sabino disse: 'E va bene, se proprio lo volete', e a voce più alta, per essere sentito da un gran numero di soldati, proseguì: 'Non sarò certo io quello che, in mezzo voi, si lascia spaventare di più dalla paura della morte; ma saranno loro a giudicare e a chiedere conto a te, se succede qualcosa di grave, loro, che se tu lo consentissi, potrebbero raggiungere dopodomani l'accampamento più vicino e affrontare le vicende della guerra insieme agli altri, invece di crepare per mano nemica o sfiniti dalla fame, abbandonati e lontani da tutti'.
Si alzano dal consiglio, prendono nel mezzo entrambi i legati e li pregano di non portare la situazione al massimo rischio con il loro dissenso ostinato; la faccenda era facile sia rimanendo, sia levando le tende, purché tutti fossero dello stesso avviso e partito; in caso di disaccordo, invece, non intravedevano alcuna speranza di salvezza. La discussione prosegue fino a notte fonda. Alla fine Cotta, turbato, si dà per vinto: prevale il parere di Sabino. La partenza viene annunciata per l'alba. Il resto della notte la passano a vegliare, ogni soldato valuta che cosa possa prendere con sé e quali oggetti dell'accampamento invernale debba abbandonare per forza. Le pensano tutte pur di non garantire, la mattina dopo, una partenza priva di rischi, e di aumentare il pericolo con la stanchezza dei soldati, dovuta alla veglia. All'alba lasciano il campo, non come se fossero stati persuasi dal nemico, ma quasi che avessero accolto il suggerimento di un amico di provata lealtà, Ambiorige. L'esercito in marcia formava una schiera interminabile, con numerosissimi bagagli.
I nemici, quando dall'agitazione notturna e dalla veglia prolungata, si resero conto che i nostri preparavano la partenza, tesero insidie da due lati, nella boscaglia, su un terreno favorevole e coperto, a circa due miglia dal campo, in attesa dell'arrivo dei Romani. Allorché il grosso del nostro esercito era ormai entrato in un'ampia valle, all'improvviso, dai fianchi della medesima sbucarono i nemici e iniziarono a premere sulla retroguardia, a impedire all'avanguardia di salire, costringendo i nostri a combattere in condizioni assolutamente sfavorevoli.
Solo allora Titurio, che nulla aveva previsto, cominciò ad agitarsi, a correre qua e là, a disporre le coorti, ma sempre impaurito: sembrava che tutto gli venisse a mancare, come per lo più accade a chi è costretto a decidere proprio mentre l'azione è in corso. Cotta, invece, che aveva pensato all'eventualità di un attacco durante la marcia e che, perciò, non era stato fautore della partenza, non risparmiò nulla per la salvezza di tutti e, chiamando e incoraggiando i legionari, durante la battaglia, svolgeva le funzioni di comandante e di soldato. La lunghezza della colonna rendeva più difficile provvedere a tutto personalmente e impartire gli ordini necessari in ogni settore della battaglia, perciò i comandanti diedero disposizione, passando la voce, di abbandonare i bagagli e di assumere la formazione a cerchio. La manovra, anche se in circostanze del genere non è riprovevole, si risolse in un danno: diminuì la fiducia dei nostri soldati e rese più arditi i nemici, perché sembrava che fosse stata fatta per estremo timore e scoraggiamento. Inoltre, accadde l'inevitabile: i soldati, ovunque, si allontanavano dalle insegne, ciascuno correva ai bagagli per cercare e riprendersi le cose più care, tutto risuonava di grida e pianti.
I barbari, invece, si dimostrarono avveduti. Infatti, i loro capi passarono ordine a tutto lo schieramento che nessuno si allontanasse dal proprio posto: era preda riservata per loro tutto ciò che i Romani avessero abbandonato, quindi dovevano pensare che tutto dipendeva dalla vittoria. Il loro coraggio era pari al loro numero. I nostri, benché abbandonati dal comandandante e dalla Fortuna, tuttavia riponevano ogni speranza di salvezza nel proprio valore, e ogni volta che una coorte muoveva all'assalto, in quel settore cadeva un gran numero di nemici. Appena se ne accorge, Ambiorige passa voce di scagliare dardi da lontano, senza avvicinarsi, cedendo là dove i Romani avessero sferrato l'attacco: grazie alle loro armi leggere e all'esercizio quotidiano avrebbero potuto infliggere ai Romani gravi perdite; quando i nostri si fossero ritirati verso le insegne, dovevano inseguirli.
L'ordine venne scrupolosamente eseguito dai barbari: quando una coorte usciva dalla formazione a cerchio e attaccava, i nemici indietreggiavano in gran fretta. Al tempo stesso era inevitabile che quel punto rimanesse scoperto e che sul fianco destro piovessero dardi. Poi, quando i nostri iniziavano il ripiegamento verso il settore di partenza, venivano circondati sia dai nemici che si erano ritirati, sia dagli altri che erano rimasti fermi nelle vicinanze. Se, invece, volevano tenere le posizioni, non avevano modo di esprimere il proprio valore, né di evitare, così serrati, le frecce scagliate da una tal massa di nemici. Comunque, pur travagliati da tante difficoltà e nonostante le gravi perdite, resistevano e, trascorsa già gran parte del giorno - si combatteva dall'alba ed erano ormai le due di pomeriggio - non si piegavano a nulla che fosse indegno di loro. A quel punto T. Balvenzio, che l'anno precedente era stato centurione primipilo, soldato coraggioso e di grande autorità, viene colpito da una tragula, che gli trapassa tutte e due le cosce; Q. Lucanio, anch'egli primipilo, mentre combatteva con estremo valore, perde la vita nel tentativo di recare aiuto al figlio circondato; il legato L. Cotta, mentre stava incitando tutte le coorti e le centurie, viene colpito da un proiettile di fionda in pieno volto.
Scosso da tali avvenimenti, Q. Titurio, avendo scorto in lontananza Ambiorige che spronava i suoi, gli invia il proprio interprete, Cn. Pompeo, per chiedergli salva la vita per sé e i legionari. Ambiorige alla richiesta risponde: se Titurio voleva un colloquio, glielo concedeva; sperava di poter convincere le truppe circa la salvezza dei soldati romani; Titurio stesso, comunque, non avrebbe corso alcun rischio, se ne rendeva garante di persona. Titurio si consiglia con Cotta, ferito: gli propone, se era d'accordo, di allontanarsi dalla battaglia e di recarsi insieme a parlare con Ambiorige: sperava di riuscire a ottenere salva la vita per loro e per i soldati. Cotta risponde che non si sarebbe mai recato da un nemico in armi e non recede dalla sua decisione.
Ai tribuni militari che, al momento, aveva intorno a sé e ai centurioni più alti in grado, Sabino dà ordine di seguirlo. Essendosi avvicinato ad Ambiorige, gli viene ingiunto di gettare le armi: esegue l'ordine e comanda ai suoi di fare altrettanto. E mentre trattavano delle condizioni di resa e Ambiorige, di proposito, tirava in lungo il suo discorso, a poco a poco Sabino viene circondato e ucciso. A quel punto, com'è loro costume, i nemici levano alte grida di vittoria, si lanciano all'assalto, scompaginano i ranghi dei nostri. L. Cotta cade combattendo sul posto, come la maggior parte dei nostri. Gli altri si rifugiano nell'accampamento da cui erano partiti. Tra di essi, L. Petrosidio, aquilifero, attaccato da molti avversari, gettò l'aquila all'interno del vallo e cadde battendosi da vero eroe dinanzi all'accampamento. I nostri, a malapena, riescono a reggere agli attacchi nemici fino al calar delle tenebre; di notte, senza più speranze di salvezza, si tolgono la vita tutti, sino all'ultimo. I pochi superstiti raggiungono, per vie malsicure tra le selve, il campo del legato T. Labieno e lo informano dell'accaduto.
Imbaldanzito dalla vittoria, Ambiorige con la cavalleria si dirige verso gli Atuatuci, che confinavano col suo regno. Non interrompe la marcia né di notte, né di giorno e ordina alla fanteria di tenergli dietro. Illustrato l'accaduto e spinti gli Atuatuci alla ribellione, il giorno seguente raggiunge i Nervi e li spinge a non perdere l'occasione di rendersi per sempre liberi e di vendicarsi dei Romani per le offese ricevute. Racconta che due legati erano stati uccisi e il grosso dell'esercito eliminato; non era affatto difficile cogliere di sorpresa la legione che svernava con Cicerone e distruggerla; promette il suo aiuto nell'impresa. Con tali parole persuade facilmente i Nervi.
Così, inviano subito emissari ai Ceutroni, ai Grudi, ai Levaci, ai Pleumoxi, ai Geidumni, tutti popoli sottoposti alla loro autorità, raccolgono quante più truppe possono e piombano all'improvviso sul campo di Cicerone, che ancora non sapeva della morte di Titurio. Anche Cicerone si trova di fronte, com'era inevitabile, all'identica situazione: alcuni legionari, addentratisi nei boschi in cerca di legname per le fortificazioni, vengono colti alla sprovvista dall'arrivo repentino della cavalleria nemica. Dopo averli circondati con ingenti forze, gli Eburoni, i Nervi e gli Atuatuci, con tutti i loro alleati e clienti, stringono d'assedio la legione. I nostri si precipitano alle armi e salgono sul vallo. Per quel giorno riescono a resistere, ma a stento, perché i nemici riponevano ogni speranza nella rapidità dell'attacco ed erano convinti che, ottenuta quella vittoria, sarebbero sempre usciti vincitori.
Senza indugio Cicerone invia una lettera a Cesare, promettendo grandi ricompense a chi fosse riuscito a recapitarla. Le vie, però, erano tutte sorvegliate e i messi vennero intercettati. Di notte, con il legname procurato per le fortificazioni, i Romani costruiscono, con incredibile rapidità, almeno centoventi torri e terminano le strutture difensive non ancora approntate. L'indomani i nemici, raccolte truppe ben più numerose, riprendono l'assedio e riempiono la fossa. I nostri resistono nello stesso modo del giorno prima. L'identica situazione si ripete nei giorni successivi. Di notte i lavori non vengono sospesi, neppure per un istante; non è concesso riposo né ai malati, né ai feriti. Tutto il necessario per l'assedio del giorno seguente lo si prepara di notte; sono approntati molti pali induriti al fuoco e giavellotti pesanti in gran quantità; le torri vengono munite di tavolati, dotate di merli e parapetti di graticci. Cicerone stesso, pur essendo di salute molto cagionevole, neanche di notte si concedeva riposo, tanto che i soldati si accalcarono intorno a lui e lo costrinsero, a forza di insistere, a prendersi un po' di respiro.
Allora i capi e i principi dei Nervi, che avevano possibilità di contatto con Cicerone per ragioni di amicizia, gli chiedono un colloquio ed egli lo concede. Descrivono la situazione negli stessi termini in cui Ambiorige l'aveva presentata a Titurio: tutta la Gallia era in armi; i Germani avevano attraversato il Reno; il campo di Cesare e tutti gli altri erano sotto assedio. Riferiscono anche la morte di Sabino: la presenza di Ambiorige ne costituiva la prova. Sarebbe stato un errore aspettare rinforzi da chi disperava della propria situazione; tuttavia, contro Cicerone e il popolo romano non avevano alcun risentimento, solo non accettavano più quartieri d'inverno nei loro territori e non intendevano che tale abitudine si radicasse; concedevano ai Romani la possibilità di lasciare il campo sani e salvi e di recarsi, senza alcun timore, dovunque volessero. A tali parole Cicerone risponde semplicemente che non era consuetudine del popolo romano accettare condizioni da un nemico armato; se avessero acconsentito a deporre le armi, prometteva il suo appoggio per l'invio di messi a Cesare: sperava, dato il senso di giustizia del comandante, che avrebbero viste esaudite le loro richieste.
Svanita tale speranza, i Nervi cingono il campo romano con un vallo alto dieci piedi e una fossa larga quindici. Negli anni precedenti, per i frequenti contatti con noi, avevano appreso tale tecnica e adesso erano istruiti da alcuni prigionieri del nostro esercito; ma, privi degli attrezzi di ferro adatti, erano costretti a fendere le zolle con le spade e a trasportare la terra con le mani o i saguli. Ma anche da ciò, comunque, si poté capire quanto fossero numerosi: in meno di tre ore ultimarono una linea fortificata per un perimetro di quindici miglia. Nei giorni successivi, sempre sulla base delle istruzioni dei prigionieri, cominciarono a preparare e costruire torri alte come il vallo, falci e testuggini.
Il settimo giorno d'assedio si levò un vento fortissimo: i nemici iniziarono a scagliare proiettili roventi d'argilla incandescente e frecce infuocate contro le capanne che, secondo l'uso gallico, avevano il tetto ricoperto di paglia. I tetti presero subito fuoco e, per la violenza delle raffiche, le fiamme si diffusero in ogni punto del campo. I nemici, tra alte grida, come se avessero già la vittoria in pugno, cominciarono a spingere in avanti le torri e le testuggini, a tentar di salire sul nostro vallo con scale. I nostri, nonostante il calore sprigionato ovunque dalle fiamme e il nugolo di dardi che pioveva su di loro e sebbene si rendessero conto che tutti i bagagli e ogni loro bene era perduto, diedero una tal prova di valore e presenza di spirito, che nessuno si mosse e abbandonò il vallo in fuga, anzi, non girarono neanche le teste: tutti si batterono con estrema tenacia e straordinario coraggio. Per i nostri fu il giorno più duro in assoluto, ma col risultato che, proprio in esso, i nemici subirono il maggior numero di perdite, tra morti e feriti, perché si erano ammassati proprio ai piedi del vallo e gli ultimi impedivano ai primi la ritirata. Le fiamme erano un po' calate e, in una zona, una torre nemica era stata spinta contro il vallo; i centurioni della terza coorte ripiegarono dal settore in cui si trovavano e ordinarono a tutti i loro di retrocedere, poi con cenni e grida cominciarono a chiamare il nemico, sfidandolo a entrare: nessuno osò farsi avanti. Allora i nostri, da ogni parte, scagliarono pietre e i Galli vennero dispersi; la torre fu incendiata.
In quella legione militavano due centurioni di grande valore, T. Pullone e L. Voreno, che stavano raggiungendo i gradi più alti. I due erano in costante antagonismo su chi doveva esser anteposto all'altro e ogni anno gareggiavano per la promozione, con rivalità accanita. Mentre si combatteva aspramente nei pressi delle nostre difese, Pullone disse: 'Esiti, Voreno? Che grado ti aspetti a ricompensa del tuo valore? Ecco il giorno che deciderà le nostre controversie!' Ciò detto, scavalca le difese e si getta contro lo schieramento nemico dove sembrava più fitto. Neppure Voreno, allora, resta entro il vallo, ma, temendo il giudizio di tutti, segue Pullone. A poca distanza dai nemici, questi scaglia il giavellotto contro di loro e ne colpisce uno, che correva in testa a tutti; i compagni lo soccorrono, caduto e morente, proteggendolo con gli scudi, mentre tutti insieme lanciano dardi contro Pullone, impedendogli di avanzare. Anzi, il suo scudo viene passato da parte a parte e un veruto gli si pianta nel balteo, spostandogli il fodero della spada: così, mentre cerca di sguainarla con la destra, perde tempo e, nell'intralcio in cui si trova, viene circondato. Subito il suo rivale Voreno si precipita e lo soccorre in quel difficile frangente. Su di lui convergono subito tutti i nemici, trascurando Pullone: lo credono trafitto dal veruto. Voreno combatte con la spada, corpo a corpo, uccide un avversario e costringe gli altri a retrocedere leggermente, ma, trasportato dalla foga, cade a capofitto in un fosso. Viene circondato a sua volta e trova sostegno in Pullone: tutti e due, incolumi, si riparano entro le nostre difese, dopo aver ucciso molti nemici ed essersi procurati grande onore. Così la Fortuna, in questa loro sfida e contesa, dispose di essi in modo che ognuno recasse all'antagonista aiuto e salvezza e che non fosse possibile giudicare a quale dei due, per valore, toccasse il premio per il valore.
Quanto più l'assedio diventava, di giorno in giorno, duro e insostenibile (soprattutto perché la maggior parte dei soldati era ferita e il numero dei difensori si era ridotto a ben poca cosa), tanto più di frequente venivano inviate lettere e messi a Cesare: alcuni di loro, catturati, vennero uccisi tra i supplizi al cospetto dei nostri soldati. Nell'accampamento c'era un Nervio, di nome Verticone, persona di nobili natali: fin dall'inizio dell'assedio era passato dalla parte di Cicerone e gli aveva giurato fedeltà assoluta. Verticone persuade un suo servo a portare una lettera a Cesare e gli promette la libertà e grosse ricompense. Costui porta fuori dal campo la lettera legata al suo giavellotto: Gallo, tra Galli, si muove senza destare alcun sospetto e raggiunge Cesare, informandolo dei pericoli che incombono su Cicerone e la sua legione.
Cesare, ricevuta la lettera verso le cinque di pomeriggio, invia immediatamente nelle terre dei Bellovaci un messaggero al questore M. Crasso, il cui campo invernale distava circa venticinque miglia; gli ordina di mettersi in marcia con la legione a mezzanotte e di raggiungerlo in fretta. Crasso lascia il campo con l'emissario. Cesare ne invia un altro al legato C. Fabio e gli comunica di guidare la legione nei territori degli Atrebati, da dove sapeva di dover transitare. Scrive a Labieno di venire con la legione nelle terre dei Nervi, se la sua partenza non era di danno per gli interessi di Roma. Ritiene di non dover aspettare il resto dell'esercito, stanziato un po' troppo lontano; dai campi invernali più vicini raccoglie circa quattrocento cavalieri.
Le staffette, verso le nove di mattina, lo informano dell'arrivo di Crasso ed egli, per quel giorno, avanza di circa venti miglia. Destina Crasso a Samarobriva e gli attribuisce il comando della legione perché lasciava lì le salmerie dell'esercito, gli ostaggi delle varie popolazioni, i documenti ufficiali e tutto il grano trasportato per affrontare l'inverno. Fabio con la sua legione, secondo gli ordini, senza perdere troppo tempo, si ricongiunge con lui mentre era in marcia. Quando Labieno era ormai al corrente della morte di Sabino e della strage delle coorti, i Treveri giungono con tutto l'esercito: egli ebbe paura, se lasciava il campo con una partenza simile a una fuga, di non riuscire a tener testa all'assalto dei nemici, tanto più che li sapeva imbaldanziti per la recente vittoria. Perciò, scrive a Cesare il pericolo a cui si troverebbe esposta la legione guidata fuori dall'accampamento, gli illustra le vicende accadute tra gli Eburoni e lo informa che la fanteria e la cavalleria dei Treveri, al gran completo, si erano insediate a tre miglia di distanza dal suo campo.
Cesare approvò la decisione di Labieno e, benché, così, caduta la speranza di contare su tre legioni, dovesse accontentarsi di due, continuava a pensare che l'unica via di salvezza comune consistesse nella rapidità di azione. A marce forzate raggiunge la regione dei Nervi. Qui, dai prigionieri apprende che cosa succede nel campo di Cicerone e come la situazione sia critica. Allora, offrendogli un forte compenso, persuade uno dei cavalieri galli a portare a Cicerone una lettera. La scrive in greco, per evitare che i nemici, in caso di intercettazione, scoprissero i nostri piani. Dà ordine al Gallo, se non fosse riuscito a penetrare nel campo romano, di scagliare all'interno delle fortificazioni una tragula, con la lettera legata alla correggia. Nella missiva scrive che era già in marcia con le legioni e che presto sarebbe giunto; esorta Cicerone a mostrarsi all'altezza dell'antico valore. Il Gallo, temendo il pericolo, scaglia la tragula secondo gli ordini ricevuti. Il caso volle che si conficcasse in una torre e che per due giorni i nostri non se ne accorgessero. Il terzo giorno viene notata da un soldato, divelta e consegnata a Cicerone. Egli legge attentamente la missiva e poi ne comunica il contenuto pubblicamente, con grande gioia di tutti. Al tempo stesso si scorgevano, in lontananza, fumi di fuochi: ogni dubbio sull'arrivo delle legioni venne fugato.
I Galli, informati del fatto dagli esploratori, tolgono l'assedio e con tutte le truppe, circa sessantamila armati, si dirigono contro Cesare. Cicerone, grazie all'intervento del solito Verticone - se n'è già parlato - trova un Gallo che recapiti una lettera a Cesare, visto che era possibile, e lo avverte di muoversi con cautela e attenzione; nella missiva spiega a Cesare che il nemico si era allontanato e che, in forze, stava dirigendosi contro di lui. La lettera, verso mezzanotte, perviene a Cesare, che informa i suoi e li incoraggia in vista della battaglia. L'indomani, all'alba, sposta l'accampamento e, percorse circa quattro miglia, avvista la massa dei nemici tra una valle e un corso d'acqua. Era molto rischioso combattere su un terreno sfavorevole e avendo truppe così esigue; allora, sapendo che Cicerone era stato liberato dall'assedio, in tutta serenità non riteneva necessario stringere i tempi. Si ferma dunque e fortifica il campo nel posto che offriva più vantaggi; sebbene l'accampamento fosse già, per sé, di modeste proporzioni (era per appena settemila uomini e, per di più, privi di bagagli), lo rende ancor più piccolo stringendo al massimo i passaggi, per indurre il nemico al più profondo disprezzo. Nel frattempo, mediante esploratori inviati in tutte le direzioni, esamina quale sia il percorso più agevole per attraversare la valle.
Quel giorno si verificarono solo scaramucce di cavalleria nei pressi del corso d'acqua, mentre entrambi gli eserciti tenevano le proprie posizioni: i Galli in quanto aspettavano l'arrivo di truppe ancor più numerose, non ancora giunte; Cesare nella speranza di riuscire, simulando timore, ad attirare sul suo terreno i nemici per combattere al di qua della valle, dinnanzi al campo, o, in caso contrario, per riuscire, una volta esplorate le strade, ad attraversare la valle e il corso d'acqua con minore pericolo. All'alba la cavalleria avversaria si avvicina al campo e attacca battaglia con i nostri cavalieri. Cesare, di proposito, ordina ai suoi di ritirarsi e di rientrare all'accampamento. Al tempo stesso, comanda di rinforzare con un vallo più alto tutti i lati del campo e di ostruire le porte; dà ordine ai soldati di eseguire le operazioni con estrema precipitazione e di simulare paura.
I nemici, attirati da tutto ciò, varcano il fiume con le loro truppe e le schierano in un luogo sfavorevole. Mentre i nostri abbandonano il vallo, gli avversari si avvicinano ancor più e da tutti i lati scagliano dardi all'interno delle fortificazioni. Poi, mandano araldi tutt'intorno al campo e annunziano quanto segue: era consentito a chiunque lo volesse, Gallo o Romano, di passare dalla loro parte, senza alcun pericolo, entro le nove di mattina; scaduto il termine, nessuno ne avrebbe più avuto la facoltà. Disprezzarono i nostri a tal punto, che alcuni dei loro cominciarono a smantellare il vallo con le mani, altri a riempire i fossati, perché non ritenevano possibile un'irruzione dalle porte, ostruite per finta da una sola fila di zolle. Allora Cesare, con una sortita da tutte le porte, lancia la cavalleria alla carica e mette in fuga gli avversari, senza che neppure uno riuscisse a combattere e resistere: ne uccide molti, li costringe tutti a gettare le armi.
Cesare ritenne rischioso spingersi troppo in là, perché si frapponevano selve e paludi, e si rendeva conto che non c'era modo di infliggere agli avversari il benché minimo danno. Così, quel giorno stesso, senza nessuna perdita, raggiunge Cicerone. Qui, con stupore, vede le torri costruite, le testuggini e le fortificazioni dei nemici; quando la legione viene schierata, si rende conto che neanche un soldato su dieci è illeso; da tutti questi elementi giudica con quanto pericolo e con quale valore sia stata affrontata la situazione: loda pubblicamente per i suoi meriti Cicerone e i soldati, chiama individualmente i centurioni e i tribuni militari che - lo sapeva per testimonianza di Cicerone - si erano distinti per singolare valore. Dai prigionieri apprende altri particolari sulla fine di Sabino e Cotta. Il giorno seguente riunisce le truppe, descrive l'accaduto, ma rincuora e rassicura i soldati; spiega che il rovescio, subito per colpa e imprudenza di un legato, doveva essere sopportato con animo tanto più sereno, in quanto, per beneficio degli dèi immortali e per il loro valore, il disastro era stato vendicato; la gioia dei nemici era stata breve, quindi il loro dolore non doveva durare troppo a lungo.
Nello stesso tempo, i Remi recano a Labieno la notizia della vittoria di Cesare, con incredibile rapidità. Infatti, sebbene il campo di Cicerone, dove Cesare era giunto dopo le tre di pomeriggio, distasse circa sessanta miglia dall'accampamento di Labieno, qui, prima di mezzanotte, si levò clamore alle porte: erano le grida dei Remi in segno di vittoria e di congratulazione. Il fatto viene riferito anche ai Treveri; Induziomaro, che aveva già fissato per l'indomani l'assedio al campo di Labieno, di notte fugge e riconduce tutte le sue truppe nella regione dei Treveri. Cesare ordina a Fabio di rientrare con la sua legione all'accampamento invernale; dal canto suo, fissa tre quartieri d'inverno, separati, tutt'intorno a Samarobriva e decide, date le numerose sollevazioni verificatesi in Gallia, di rimanere personalmente con l'esercito per tutto l'inverno. Infatti, una volta diffusasi la notizia della sconfitta e della morte di Sabino, quasi tutti i popoli della Gallia si consultavano sulla guerra, inviavano messi in tutte le direzioni, s'informavano sulle decisioni degli altri e da dove sarebbe partita l'insurrezione, tenevano concili notturni in zone deserte. Per tutto l'inverno, non ci fu per Cesare un momento tranquillo: riceveva di continuo notizie sui progetti e la ribellione dei Galli. Tra l'altro, L. Roscio, preposto alla tredicesima legione, lo informò che ingenti truppe galliche delle popolazioni chiamate aremoriche, si erano radunate con l'intenzione di assediarlo ed erano a non più di otto miglia dal suo campo, ma, alla notizia della vittoria di Cesare, si erano allontanate con una rapidità tale, che la loro partenza era sembrata piuttosto una fuga.
Cesare, allora, convocò i principi di ciascun popolo, e ora col timore precisando di essere al corrente di quanto accadeva, ora con la persuasione, indusse la maggior parte delle genti galliche al rispetto degli impegni assunti. Tuttavia i Senoni, tra i più forti e autorevoli in Gallia, a seguito di decisione pubblica, tentarono di eliminare Cavarino, che Cesare aveva designato loro sovrano (e già erano stati re suo fratello Moritasgo, all'epoca dell'arrivo di Cesare in Gallia, e i suoi avi). Cavarino ne presagì le intenzioni e fuggì; i suoi avversari gli diedero la caccia sino al confine e lo bandirono dal trono e dal paese. In seguito, inviarono a Cesare un'ambasceria per discolparsi: egli comandò che tutti i senatori si presentassero da lui, ma il suo ordine venne disatteso. A quegli uomini barbari bastò che ci fossero dei fautori della guerra: in tutti si verificò un tale mutamento di propositi, che quasi nessun popolo rimase al di sopra dei nostri sospetti, se si eccettuano gli Edui e i Remi, che Cesare tenne sempre in particolare onore - i primi per l'antica e costante lealtà nei confronti del popolo romano, i secondi per i recenti servizi durante la guerra in Gallia. Ma non so se la cosa sia poi tanto strana, tenendo soprattutto presente che, tra le molte altre cause, popoli considerati superiori a tutti, per valore militare, adesso erano profondamente afflitti per aver perso prestigio al punto da dover sottostare al dominio di Roma.
I Treveri e Induziomaro, però, per tutto l'inverno non smisero un attimo di inviare ambascerie oltre il Reno e di sobillare le altre genti, di promettere denaro e di sostenere che, distrutto ormai il grosso del nostro esercito, ne restava solo una minima parte. Ma non gli riuscì di persuadere nessun popolo dei Germani a varcare il Reno; affermavano di averne fatta già due volte esperienza, con la guerra di Ariovisto e il passaggio dei Tenteri: non avrebbero tentato ulteriormente la sorte. Caduta tale speranza, Induziomaro cominciò lo stesso a radunare truppe e a esercitarle, a fornirsi di cavalli dalle genti vicine e ad attirare a sé, con grandi remunerazioni, gli esuli e le persone condannate di tutta la Gallia. In tal modo si era già procurato in Gallia tanta autorità, che da ogni regione accorrevano ambascerie e gli chiedevano i suoi favori e la sua amicizia, per l'interesse pubblico e privato.
Induziomaro, quando si rese conto della spontaneità di tali ambascerie e che, da un lato, i Senoni e i Carnuti erano spinti dalla consapevolezza della propria colpa, dall'altro i Nervi e gli Atuatuci preparavano guerra ai Romani, e, inoltre, che non gli sarebbero mancate bande di volontari, se si fosse mosso dai suoi territori, convoca un'assemblea armata. È il modo con cui di solito i Galli iniziano una guerra: per una legge comune, tutti i giovani sono costretti a venirvi in armi; chi giunge ultimo, al cospetto di tutti viene sottoposto a torture d'ogni sorta e ucciso. In tale assemblea Induziomaro dichiara Cingetorige, capo della fazione avversa e suo genero - abbiamo già ricordato che si era messo sotto la protezione di Cesare e gli era rimasto fedele - nemico pubblico e ne confisca le sostanze. Dopo tali risoluzioni, nel concilio Induziomaro annuncia solennemente di aver accolto le sollecitazioni dei Senoni, dei Carnuti e di molte altre genti della Gallia; intende attraversare i territori dei Remi e devastarne i campi, ma, prima, vuole porre l'assedio al campo di Labieno. Impartisce gli ordini da eseguire.
Labieno, al riparo in un accampamento ben munito per conformazione naturale e numero di soldati, non nutriva timori per sé o per la legione. Tuttavia, meditava di non lasciarsi sfuggire nessuna occasione per una bella impresa. Così, non appena informato da Cingetorige e dai suoi parenti del discorso di Induziomaro al concilio, Labieno invia messi alle genti limitrofe e fa venire a sé da ogni parte cavalieri: fissa la data in cui avrebbero dovuto presentarsi. Frattanto, quasi ogni giorno Induziomaro, con la cavalleria al completo, incrociava nei pressi dell'accampamento, vuoi per prender visione di com'era disposto il campo, vuoi per intavolare discorsi o suscitar timori; i suoi cavalieri, generalmente, scagliavano frecce all'interno del vallo. Labieno teneva i suoi entro le fortificazioni e cercava, con ogni mezzo, di dar l'impressione di aver paura.
Mentre Induziomaro, di giorno in giorno, si avvicinava al campo con maggior sicurezza, Labieno una notte fece entrare i cavalieri richiesti a tutte le genti limitrofe; grazie alle sentinelle, riuscì a trattenere tutti i suoi all'interno del campo così bene, che in nessun modo la notizia poté trapelare o giungere ai Treveri. Nel frattempo Induziomaro, come ogni giorno, si avvicina all'accampamento e qui trascorre la maggior parte del giorno: i suoi cavalieri scagliano frecce e provocano i nostri a battaglia con ingiurie d'ogni sorta. I nostri non rispondono e gli avversari, quando lo ritengono opportuno, al calar della sera, si allontanano a piccoli gruppi, disunendosi. All'improvviso Labieno, da due porte, lancia alla carica tutta la cavalleria: dà ordine e disposizione che, dopo aver spaventato e messo in fuga i nemici (prevedeva che sarebbe successo, come in effetti capitò), tutti puntino solo su Induziomaro e non colpiscano nessun altro prima di averlo visto morto: non voleva che, mentre si attardavano a inseguire gli altri, il Gallo trovasse una via di scampo. Promette grandi ricompense a chi l'avesse ucciso; invia le coorti in appoggio ai cavalieri. La Fortuna asseconda il piano dell'uomo: tutti si lanciano su Induziomaro, lo catturano proprio sul guado del fiume e lo uccidono; la sua testa viene portata all'accampamento; i cavalieri, nel rientrare, inseguono e massacrano quanti più nemici possono. Avute queste notizie, tutte le truppe degli Eburoni e dei Nervi, che si erano lì concentrate, si disperdono: dopo questa battaglia Cesare riuscì a tenere un po' più tranquilla la Gallia.
LIBRO SESTO
Per molte ragioni Cesare si attendeva una più grave sollevazione della Gallia, perciò decide di operare un reclutamento mediante i suoi legati M. Silano, C. Antistio Regino e T. Sestio. Al tempo stesso, al proconsole Cn. Pompeo, rimasto nelle vicinanze di Roma con un comando militare per il bene dello stato, chiede di radunare e inviargli i soldati che aveva già arruolato e fatto giurare nella Gallia cisalpina quand'era console. Al fine di mantenere il buon concetto che i Galli avevano di noi, riteneva estremamente importante, anche per il futuro, che vedessero quali erano le risorse dell'Italia: i Romani, se anche subivano un rovescio in guerra, erano in grado non solo di rimediare in poco tempo alle perdite, ma addirittura di aumentare il numero degli effettivi. Pompeo, sia nell'interesse pubblico, sia per ragioni di amicizia, acconsentì. Completato con celerità l'arruolamento tramite i legati, prima della fine dell'inverno vennero formate tre legioni e condotte in Gallia. Cesare raddoppiò, così, il numero delle coorti rispetto a quelle perse con Q. Titurio e, grazie alla rapidità e all'entità del reclutamento, dimostrò di che cosa fossero capaci l'organizzazione e i mezzi di Roma.
Dopo l'uccisione di Induziomaro, come abbiamo descritto, i Treveri affidano il comando ai suoi parenti, che non desistono dal sobillare i Germani limitrofi, promettendo denaro. Non avendo ottenuto risultato con i Germani vicini, tentano con i più lontani. Trovate alcune genti disposte all'azione, a esse si vincolano con giuramento solenne; quanto al denaro, garantiscono con ostaggi. Accolgono nella loro lega e patto Ambiorige. Informato di ciò, Cesare si accorse che, ovunque, erano in corso preparativi di guerra: i Nervi, gli Atuatuci, i Menapi erano in armi, uniti a tutti i Germani stanziati al di qua del Reno; i Senoni non rispondevano alle convocazioni e si accordavano con i Carnuti e i popoli limitrofi; i Treveri facevano pressione sui Germani con frequenti ambascerie. Quindi, ritenne di dover pensare alla guerra più presto del solito.
Perciò, prima ancora della fine dell'inverno, radunò le quattro legioni più vicine e, inatteso, puntò sui territori dei Nervi: non lasciò ai nemici il tempo di accorrere o fuggire e, catturati molti capi di bestiame e uomini, che concesse come preda ai soldati, devastò i campi e costrinse i Nervi alla resa e alla consegna di ostaggi. Terminate con rapidità le operazioni, ricondusse le legioni negli accampamenti invernali. Indetto, secondo il solito, un concilio della Gallia per l'inizio della primavera, si presentarono tutti, tranne i Senoni, i Carnuti e i Treveri. Cesare lo considera segno dell'inizio delle ostilità e della ribellione e, per dimostrare che metteva in secondo piano ogni altro problema, trasferisce il concilio a Lutezia, città dei Parisi. Costoro confinavano con i Senoni e a essi si erano uniti all'epoca dei nostri padri, ma non prendevano parte, si riteneva, al piano di sollevazione. Comunicato dalla tribuna il cambiamento di sede, il giorno stesso si dirige, con le legioni, verso le terre dei Senoni, dove giunge a marce forzate.
Saputo del suo arrivo, Accone, responsabile del piano, ordina alla popolazione di rifugiarsi nelle città. Mentre il tentativo era in corso, prima che le operazioni fossero ultimate, viene annunziato che i Romani sono giunti. I Senoni sono costretti a rinunciare ai loro propositi e inviano un'ambasceria a Cesare per scongiurarne il perdono: inoltrano la supplica attraverso gli Edui, che da antico tempo li tutelavano. Dal momento che la richiesta veniva dagli Edui, Cesare concede volentieri il perdono e accetta le giustificazioni, ritenendo che quell'estate fosse la stagione di una guerra imminente, e non dei processi. Esige cento ostaggi e li affida alla custodia degli Edui. Anche i Carnuti gli inviano messi e ostaggi, avvalendosi dell'intercessione dei Remi, di cui erano clienti: ottengono la stessa risposta. Cesare chiude il concilio e impone alle genti galliche di fornirgli cavalieri.
Pacificata questa zona della Gallia, Cesare impegna mente e animo, totalmente, nella guerra contro i Treveri e Ambiorige. Ordina a Cavarino di assumere il comando della cavalleria dei Senoni e di seguirlo, per evitare sedizioni dovute al carattere iracondo del Gallo oppure all'odio che costui si era meritato da parte della sua gente. Prese tali decisioni, Cesare, sapendo per certo che Ambiorige non si sarebbe misurato in uno scontro aperto, cercava di scoprire quali altre soluzioni rimanessero all'avversario. Con gli Eburoni confinavano i Menapi, protetti da sterminate paludi e selve, l'unico popolo della Gallia a non aver mai inviato messi a Cesare per trattare la pace. Cesare conosceva i vincoli di ospitalità tra Ambiorige e i Menapi ed era pure al corrente che, tramite i Treveri, il Gallo aveva stretto rapporti d'alleanza con i Germani. Stimava necessario sottrargli ogni appoggio, piuttosto che provocarlo a battaglia: non voleva che Ambiorige, sentendosi perduto, fosse costretto a rifugiarsi nelle terre dei Menapi o a unirsi ai Germani d'oltre Reno. Con questa intenzione invia a Labieno, nel paese dei Treveri, tutte le salmerie dell'esercito e dà ordine a due legioni di raggiungerlo. Dal canto suo, con cinque legioni senza bagagli marcia sui Menapi. Costoro, senza neppure radunare truppe, confidando nelle sole difese naturali del luogo, si rifugiano nelle selve e nelle paludi, ammassandovi tutti i loro beni.
Cesare divide le truppe con il legato C. Fabio e il questore M. Crasso, costruisce con rapidità ponti sulle paludi e avanza su tre fronti: incendia gli edifici isolati e i villaggi, cattura un gran numero di capi di bestiame e di uomini. I Menapi, nella morsa della necessità, gli inviano ambasciatori per chiedere pace. Cesare riceve gli ostaggi e dichiara che, se avessero accolto nei loro territori Ambiorige o suoi emissari, li avrebbe considerati nemici. Sistemata la questione, lascia tra i Menapi, a sorvegliare la regione, l'atrebate Commio con la cavalleria e punta contro i Treveri.
Mentre Cesare conduceva tali operazioni, i Treveri, raccolte ingenti forze di fanteria e cavalleria, preparavano l'attacco a Labieno e alla legione che aveva svernato nei loro territori. Non distavano, ormai, più di due giorni di cammino da Labieno, quando vengono a sapere dell'arrivo di due legioni, inviate da Cesare. Pongono il campo a quindici miglia dai nostri e decidono di aspettare i rinforzi dei Germani. Labieno, conosciute le intenzioni dei nemici, spera che la loro imprudenza gli offra l'occasione per uno scontro: lasciate cinque coorti a presidio delle salmerie, con venticinque coorti e una forte cavalleria si dirige contro il nemico. Alla distanza di un miglio dai Treveri fortifica il campo. Tra Labieno e il nemico scorreva un fiume difficile da guadare, che aveva le rive scoscese. Né lui aveva intenzione di attraversarlo, né pensava che lo avrebbero fatto i nemici, tra i quali ogni giorno cresceva la speranza dei rinforzi. Al consiglio di guerra Labieno rende noto apertamente che, essendo i Germani in arrivo, a quanto si diceva, non intendeva esporre a rischi se stesso, né l'esercito; perciò, il giorno seguente, all'alba, avrebbe tolto il campo. Ben presto la notizia viene riportata ai nemici: dei molti cavalieri galli, alcuni erano spinti - com'è naturale - a favorire la causa del loro paese. Labieno, convocati di notte i tribuni militari e i centurioni più alti in grado, espone il suo piano e, per dare con più facilità al nemico l'impressione di panico tra i nostri, ordina di levare il campo con uno strepito e tumulto insoliti per l'esercito del popolo romano. Così, rende la partenza simile a una fuga. Vicini com'erano i due accampamenti, prima dell'alba i nemici vengono informati anche di ciò dai loro esploratori.
La retroguardia era appena uscita dalle fortificazioni, che i Galli si spronano a vicenda a non lasciarsi sfuggire dalle mani la preda sperata: sarebbe stato troppo lungo, con i Romani atterriti, aspettare i rinforzi dei Germani; per la loro dignità era inammissibile, numerosi com'erano, non osare l'attacco a un reparto nemico così esiguo e, oltretutto, in fuga e carico di bagagli. Così, non esitano a varcare il fiume e a venire a battaglia in posizione di svantaggio. Labieno, avendo previsto ogni mossa, allo scopo di attirare tutti i nemici al di qua del fiume continuava nella sua finzione e proseguiva la marcia, lentamente. Poi, inviate le salmerie un po' più avanti e avendole disposte su di un rialzo, disse: 'Soldati, avete l'occasione che vi auguravate: tenete in pugno il nemico, in un luogo malagevole e per loro svantaggioso; date prova, adesso, sotto la nostra guida, dello stesso valore che più di una volta avete dimostrato al comandante in capo, fate conto che lui sia qui e che assista allo scontro di persona'. Contemporaneamente ordina di volgere le insegne contro il nemico e di formare la linea di battaglia, invia pochi squadroni a presidio delle salmerie e dispone il resto della cavalleria sulle ali. I nostri rapidamente, tra alte grida, scagliano i giavellotti sui nemici. Costoro, quando contro ogni aspettativa videro i Romani volgere le insegne e avanzare, mentre li credevano già in fuga, non riuscirono neanche a sostenerne l'urto: al primo assalto batterono in ritirata e cercarono rifugio nelle selve più vicine. Labieno li inseguì con la cavalleria, ne uccise molti e ne fece prigionieri parecchi: pochi giorni dopo i Treveri si arresero. Infatti, i Germani, che venivano in loro aiuto, avuta notizia della fuga dei Treveri, rientrarono in patria. Al loro seguito lasciarono il paese i parenti di Induziomaro, che avevano istigato alla defezione. A Cingetorige, rimasto fedele fin dall'inizio, come abbiamo ricordato, fu conferito il principato e il comando.
Cesare, appena giunto dalle terre dei Menapi nella regione dei Treveri, decise di varcare il Reno per due motivi: primo, i Germani avevano mandato aiuti ai Treveri contro di lui; secondo, non voleva che Ambiorige trovasse rifugio presso di loro. Presa tale decisione, comincia a costruire un ponte poco più a nord del luogo in cui, in passato, l'esercito aveva varcato il fiume. Essendo la maniera di fabbricarlo già nota e sperimentata, l'opera viene realizzata in pochi giorni grazie al grande impegno dei soldati. A un capo del ponte, nelle terre dei Treveri, per impedirne un'improvvisa sollevazione, lascia un saldo presidio e guida, sull'altra riva, il resto delle truppe e la cavalleria. Gli Ubi, che in precedenza avevano consegnato ostaggi e si erano sottomessi, inviano a Cesare un'ambasceria per discolparsi: non avevano inviato rinforzi ai Treveri, né violato i patti. Gli chiedono, lo scongiurano di risparmiarli, di non accomunarli ai Germani nel suo odio, perché non volevano, innocenti, pagare per chi innocente non era; se chiedeva altri ostaggi, erano pronti a consegnarli. Cesare, fatta luce sull'accaduto, scopre che i rinforzi erano stati inviati dagli Svevi. Accetta le spiegazioni degli Ubi, si informa in modo dettagliato sulle vie d'accesso alle terre degli Svevi.
Intanto, pochi giorni dopo, gli Ubi lo avvertono che gli Svevi stavano concentrando tutte le truppe in un solo luogo e che imponevano ai popoli sottomessi l'invio di rinforzi di fanteria e cavalleria. Saputo ciò, Cesare provvede alle scorte di grano, sceglie un luogo adatto all'accampamento e ordina agli Ubi di portar via i capi di bestiame e di ammassare ogni bene dalle campagne nelle città. Sperava che i nemici, barbari e inesperti com'erano, si lasciassero indurre ad accettare lo scontro anche in posizione di svantaggio, costretti a ciò dalla mancanza di viveri. Incarica gli Ubi di inviare molti esploratori nelle zone degli Svevi per spiarne le mosse. Gli Ubi eseguono gli ordini e, pochi giorni dopo, riferiscono: tutti gli Svevi, avute notizie più sicure sull'esercito dei Romani, si erano ritirati lontano, nei loro territori più remoti, con tutte le truppe e i contingenti alleati da essi raccolti; lì si trovava una foresta sterminata, di nome Bacenis, che si estendeva profonda verso l'interno e formava una sorta di barriera naturale tra i Cherusci e gli Svevi, impedendo agli uni e agli altri violenze e incursioni: sul limitare della foresta gli Svevi avevano deciso di attendere l'arrivo dei Romani.
Giunti a questo punto, non ci sembra fuori luogo esporre i costumi della Gallia e della Germania e le differenze tra le due nazioni. In Gallia non solo tutti i popoli, le tribù e i gruppi, ma addirittura quasi tutte le famiglie sono divise in fazioni. A capo di esse sta chi, secondo l'opinione dei Galli, è considerato più autorevole, ed egli è arbitro e giudice in tutti gli affari e le deliberazioni. A quanto pare, l'istituzione risaliva a tempi antichi, al fine di garantire alla gente del popolo sostegno contro i più potenti. Infatti, il capo di ogni fazione non permette che la sua gente subisca violenze o raggiri; in caso contrario, tra i suoi perde ogni autorità. Lo stesso sistema regola ogni aspetto della vita in Gallia, tant'è vero che tutti i popoli sono divisi in due fazioni.
Al momento dell'arrivo di Cesare in Gallia, una fazione faceva capo agli Edui, l'altra ai Sequani. Quest'ultimi, di per sé meno influenti - fin dai tempi antichi la massima autorità era nelle mani degli Edui, che avevano molti clienti - si erano uniti ai Germani e ad Ariovisto, attirandoli con grandi elargizioni e promesse. Riportati diversi successi in battaglia ed eliminati tutti i nobili edui, i Sequani avevano superato in potenza gli Edui stessi, al punto da sottrarre loro la maggior parte dei popoli soggetti, da costringerli a dare in ostaggio i figli dei capi e a giurare pubblicamente di non intraprendere nulla contro di loro; inoltre, si erano impadroniti, con le armi, di una parte del territorio eduo contiguo al loro e avevano ottenuto la supremazia su tutta la Gallia. Diviziaco, spinto dalla necessità, si era recato a Roma, dal senato, per chiedere aiuto, ma era ritornato con un nulla di fatto. L'arrivo di Cesare aveva prodotto un vero e proprio capovolgimento: gli Edui si erano visti rendere gli ostaggi, avevano recuperato i vecchi clienti, ne avevano acquisito di nuovi, grazie a Cesare, perché i popoli che si ponevano sotto la loro tutela si accorgevano di ricevere un trattamento migliore e di sottostare a un dominio più equo. Quanto al resto, il prestigio e la dignità degli Edui erano cresciuti, i Sequani avevano perso l'egemonia. Al loro posto erano subentrati i Remi. Il favore di Cesare per gli Edui e i Remi era identico, lo si capiva, perciò i popoli che, per antiche inimicizie, non potevano assolutamente legarsi ai primi, si facevano clienti dei secondi, che li proteggevano con ogni cura, mantenendo, in tal modo, un prestigio nuovo e assunto di colpo. Quindi, al momento, la situazione era la seguente: gli Edui erano considerati i primi in assoluto, i Remi occupavano, in dignità, il secondo posto.
In tutta la Gallia ci sono due classi di persone tenute in un certo conto e riguardo. La gente del popolo, infatti, è considerata quasi alla stregua dei servi, non prende iniziative e non viene ammessa alle assemblee. I più, oberati dai debiti, dai tributi gravosi o dai soprusi dei potenti, si mettono al servizio dei nobili, che su di essi godono degli stessi diritti che hanno i padroni sugli schiavi. Delle due classi, dunque, la prima comprende i druidi, l'altra i cavalieri. I druidi si occupano delle cerimonie religiose, provvedono ai sacrifici pubblici e privati, regolano le pratiche del culto. Moltissimi giovani accorrono a istruirsi dai druidi, che tra i Galli godono di grande onore. Infatti, risolvono quasi tutte le controversie pubbliche e private e, se è stato commesso un reato, se c'è stato un omicidio, oppure se sorgono problemi d'eredità o di confine, sono sempre loro a giudicare, fissando risarcimenti e pene. Se qualcuno - si tratti di un privato cittadino o di un popolo - non si attiene alle loro decisioni, gli interdicono i sacrifici. È la pena più grave tra i Galli. Chi ne è stato colpito, viene considerato un empio, un criminale: tutti si scostano alla sua vista, lo evitano e non gli rivolgono la parola, per non contrarre qualche sciagura dal suo contatto; non è ammesso a chiedere giustizia, né può essere partecipe di qualche carica. Tutti i druidi hanno un unico capo, che gode della massima autorità. Alla sua morte, ne prende il posto chi preceda gli altri druidi in prestigio, oppure, se sono in parecchi ad avere uguali meriti, la scelta è lasciata ai voti dei druidi, ma talvolta si contendono la carica addirittura con le armi. In un determinato periodo dell'anno si radunano in un luogo consacrato, nella regione dei Carnuti, ritenuta al centro di tutta la Gallia. Chi ha delle controversie, da ogni regione qui si reca e si attiene alla decisione e al verdetto dei druidi. Si crede che la loro dottrina sia nata in Britannia e che, da lì, sia passata in Gallia: ancor oggi, chi intende approfondirla, in genere si reca sull'isola per istruirsi.
I druidi, di solito, non prendono parte alle guerre e non pagano tributi come gli altri, sono esentati dal servizio militare e dispensati da ogni altro onere. Con la prospettiva di così grandi privilegi, molti giovani si accostano spontaneamente a questa dottrina, molti altri vengono inviati dai loro genitori e parenti ad apprenderla. Presso i druidi, a quanto si dice, imparano a memoria un gran numero di versi. E alcuni proseguono gli studi per oltre vent'anni. Non ritengono lecito affidare i loro insegnamenti alla scrittura, mentre per quasi tutto il resto, per gli affari pubblici e privati, usano l'alfabeto greco. A mio parere, hanno stabilito così per due motivi: non vogliono che la loro dottrina venga divulgata tra il popolo, e neppure che i discepoli, fidando nella scrittura, esercitino la memoria con più scarso impegno, come accade quasi a tutti, che, valendosi dello scritto, si applicano meno nello studio e trascurano la memoria. Il loro principale insegnamento riguarda l'immortalità dell'anima, che dopo la morte - sostengono - passa da un corpo ad un altro. Lo ritengono un grandissimo incentivo al coraggio, poiché viene eliminata la paura di morire. Inoltre, sulle stelle e il loro moto, sulla dimensione del cielo e della terra, sulla natura, sulla potenza e la potestà degli dèi immortali discutono molto e tramandano questo patrimonio ai giovani.
L'altra è la classe dei cavalieri. Quando ce n'è bisogno scoppia qualche guerra (prima dell'arrivo di Cesare quasi ogni anno se ne verificavano, sia che fossero i Galli ad attaccare, sia che dovessero difendersi), i cavalieri partecipano al completo alle operazioni militari. Quanto più uno è influente per nascita e mezzi, tanto più si circonda di ambacti e di clienti: è l'unica forma di prestigio e di potere che conoscano.
Il popolo dei Galli, nel suo complesso, è oltremodo religioso. Per tale motivo, chi è afflitto da malattie di una certa gravità e chi rischia la vita in battaglia o è esposto ai pericoli, immola o fa voto di immolare vittime umane e si vale dei druidi come ministri dei sacrifici. Ritengono, infatti, che gli dèi immortali non possano venir placati, se non si offre la vita di un uomo in cambio della vita di un altro uomo. Celebrano anche istituzionalmente sacrifici di tal genere. Alcuni popoli hanno figure umane di enormi dimensioni, di vimini intrecciati, che vengono riempite di uomini ancor vivi: si appicca il fuoco e le persone prigioniere lì dentro, avvolte dalle fiamme, muoiono. Credono che agli dèi immortali sia più gradito, tra tutti, il supplizio di chi è stato sorpreso a commettere furti, ladrocini o altri delitti, ma quando mancano vittime di questo tipo, si risolvono anche a suppliziare chi è innocente.
Il dio più venerato è Mercurio: ne hanno moltissimi simulacri. Lo ritengono inventore di tutte le arti, guida delle vie e dei viaggi, credono che, più di ogni altro, abbia il potere di favorire i guadagni e i commerci. Dopo di lui adorano Apollo, Marte, Giove e Minerva. Su tutti questi dèi la pensano, all'incirca, come le altre genti: Apollo guarisce le malattie, Minerva insegna i principi dei lavori manuali, Giove è il re degli dèi, Marte governa le guerre. A quest'ultimo, in genere, quando decidono di combattere, offrono in voto il bottino di guerra: in caso di vittoria, immolano gli animali catturati e ammassano il resto in un unico luogo. Nei territori di molti popoli è possibile vedere, in zone consacrate, tumuli costruiti con tali spoglie. E ben di rado accade che uno, sfidando il voto religioso, osi nascondere a casa sua il bottino o sottrarre qualcosa dai tumuli: per una colpa del genere è prevista una morte terribile tra le torture.
I Galli affermano di discendere tutti dal padre Dite e dicono che siano i druidi a tramandarlo. Per tale motivo calcolano il tempo non sulla base dei giorni, ma delle notti. E anche i compleanni e i primi giorni del mese e dell'anno li osservano a partire dalla notte fino al giorno successivo. Per quanto riguarda gli altri usi quotidiani differiscono dai rimanenti popoli quasi solo per il seguente aspetto: non permettono che i figli li avvicinino davanti a tutti, se non quando, cresciuti, sono ormai in grado di prestare servizio militare, e considerano una vergogna che un figlio, in giovane età, si presenti davanti al padre in pubblico.
Gli uomini, fatta la stima della dote portata dalle mogli, mettono in comune, dal loro patrimonio, l'equivalente dei beni ricevuti. Si fa un computo unico della somma e se ne conservano gli interessi: chi dei due sopravvive all'altro, entra in possesso dei beni di entrambi con i frutti degli anni precedenti. Gli uomini hanno diritto di vita e di morte sulle mogli come sui figli. Quando muore un capofamiglia di un certo riguardo, i parenti si riuniscono e, se nasce qualche sospetto sulla sua morte, interrogano le mogli come si fa con i servi: se risultano colpevoli, le uccidono dopo averle torturate col fuoco e supplizi d'ogni sorta. I funerali sono, in rapporto alla civiltà dei Galli, magnifici e sontuosi; depongono sulla pira ogni cosa cara in vita al defunto, anche gli animali. E fino a poco tempo fa, insieme al morto, venivano cremati, con le dovute esequie, i servi e i clienti che si sapevano da lui prediletti.
Presso i popoli che, secondo l'opinione comune, sono meglio organizzati, la legge prescrive che se uno sente, dalle genti limitrofe, voci o notizie riguardanti lo stato, deve informare il magistrato senza farne cenno ad altri, perché spesso, si sa, gli uomini avventati e inesperti si lasciano atterrire dalle false notizie, sono spinti a commettere delitti e prendono decisioni sui problemi più importanti. I magistrati tengono segreto ciò che sembra loro opportuno e divulgano le altre notizie considerate utili. Non è permesso trattare questioni di stato se non nelle assemblee.
I Germani hanno consuetudini molto diverse. Infatti, non hanno druidi che presiedano alle cerimonie religiose, né si occupano di sacrifici. Considerano dèi solo quelli che vedono e dal cui aiuto traggono giovamento palese: il Sole, Vulcano, la Luna. Degli altri dèi non hanno neanche sentito parlare. Passano tutta la vita tra cacce e addestramento alla guerra: fin dall'infanzia si abituano alla fatica e alla vita dura. Quanto più a lungo un giovane rimane casto, tanto più riceve le lodi della sua gente: ritengono che ciò aumenti la statura, accresca la robustezza fisica e il vigore. E stimano tra le cose più vergognose aver rapporti intimi con una donna prima dei vent'anni; ma il sesso non viene nascosto, in quanto maschi e femmine si lavano insieme nei fiumi, indossano pelli o giubbotti di pelliccia che lasciano scoperta gran parte del corpo.
Non praticano l'agricoltura, il loro vitto consiste, per la maggior parte, di latte, formaggio e carne. Nessuno ha in proprio un terreno fisso o un possesso personale. Anzi, alle genti e ai nuclei familiari in cui i parenti convivono, i magistrati e i capi attribuiscono, di anno in anno, la quantità di terra e la zona ritenute giuste, ma l'anno successivo li costringono a spostarsi altrove. Forniscono, in merito, molteplici spiegazioni. Non vogliono che la gente, vinta da una costante abitudine, sostituisca la guerra con l'agricoltura, che desideri procurarsi appezzamenti più estesi e che i più potenti scaccino dai loro campi i meno forti. Non vogliono che vengano costruite case confortevoli per difendersi dal freddo e dal caldo, che nasca la brama di denaro, fonte di fazioni e dissensi, cercano di tenere a bada il popolo con la serenità d'animo, quando ciascuno si renda conto di possedere quanto i più potenti.
Il vanto maggiore per le loro genti è, devastate le zone di confine, di avere intorno a sé dei deserti, nel raggio più ampio. Ritengono segno distintivo del valore se i vicini, scacciati dai loro territori, si ritirano e nessuno osa stabilirsi nei pressi. Al contempo, si sentono più al sicuro, eliminato il timore di un'incursione improvvisa. Quando un popolo entra in guerra, per difendersi o attaccare, vengono scelti dei magistrati per guidarli, ed essi hanno potere di vita e di morte. In tempo di pace non ci sono magistrati comuni, ma i capi delle varie regioni e tribù, al loro interno, amministrano la giustizia e appianano le controversie. Il ladrocinio non comporta disonore, se commesso fuori dei territori di ciascun popolo, anzi, lo consigliano per esercitare i giovani e diminuire l'inerzia. E quando, durante l'assemblea, uno dei capi si dichiara pronto a guidare una spedizione e chiede ai volontari di farsi avanti, chi è favorevole all'impresa e all'uomo si alza e promette il proprio sostegno, tra le lodi generali; chi, invece, non si unisce alla spedizione, viene considerato nel novero dei disertori e dei traditori, e in futuro gli viene negata fiducia in ogni campo. Considerano sacrilegio recare offesa a un ospite: chiunque, per qualsiasi motivo, giunga da loro, viene protetto da ogni torto e considerato sacro, gli sono aperte le porte di tutte le case e con lui viene diviso il cibo.
Ci fu, in passato, un tempo in cui i Galli erano più forti dei Germani, li attaccavano e, avendo una popolazione numerosa e pochi campi, inviavano colonie oltre il Reno. Perciò, le zone della Germania più fertili attorno alla selva Ercinia - nota, a quanto vedo, a Eratostene e ad altri Greci, che però la chiamano Orcinia - le occuparono i Volci Tectosagi, insediandosi lì. Essi abitano ancor oggi la regione e godono di straordinaria fama quanto a giustizia e valor militare. Ma mentre i Germani mantengono sempre le stesse condizioni di povertà, stenti e sopportazione, senza aver in nulla mutato il nutrimento e il tenore di vita, i Galli, invece, dalla vicinanza con le nostre province e dal commercio marittimo hanno tratto molte ricchezze e vantaggi. Così, si sono gradualmente abituati alla sconfitta e, vinti in molte battaglie, non osano più neppure paragonarsi ai Germani per valore.
La selva Ercinia, sopra menzionata, si estende per una larghezza equivalente a nove giorni di marcia per chi viaggi libero da impedimenti: non è possibile, infatti, determinare in altro modo le sue dimensioni, perché i Germani non conoscono le misure itinerarie. Ha inizio nei territori degli Elvezi, dei Nemeti e dei Rauraci e, in parallelo con il corso del Danubio, raggiunge il paese dei Daci e degli Anarti; da qui, piega a sinistra, in regioni lontane dal fiume e, nella sua vastità, tocca le terre di molti popoli. Non c'è nessuno, in questa zona della Germania, che possa affermare di aver raggiunto l'inizio della selva, benché si sia spinto in avanti per sessanta giorni di cammino, o che abbia sentito dire dove ha principio. Vi nascono, a quanto consta, molte specie di animali mai visti altrove: di essi descriveremo i più strani e singolari e più degni, a nostro parere, di menzione.
C'è un bue, dalla forma di cervo, che in mezzo alla fronte, tra le orecchie, ha un corno unico, più alto e più dritto di quelli a noi noti: sulla sommità, il corno si divide in ampie diramazioni. Uguale è l'aspetto della femmina e del maschio, con corna di identica forma e grandezza.
Ci sono, altresì, le cosiddette alci. Per forma e varietà delle pelli assomigliano alle capre, ma sono un po' più grosse, hanno le corna senza punta e le zampe senza giunture, per cui né si sdraiano per riposarsi, né, se per qualche motivo cadono a terra, sono in grado di rialzarsi o risollevarsi. Come giacigli usano gli alberi: vi si appoggiano e così, leggermente reclinate, si addormentano. Quando i cacciatori, dalle orme, scoprono il rifugio delle alci, scalzano o tagliano alla base tutti gli alberi del luogo, stando attenti che rimanga nell'insieme l'aspetto di alberi ritti. Quando le alci, come al solito, vi si appoggiano, con il loro peso provocano il crollo degli alberi, già malfermi, e cadono anch'esse per terra.
La terza è la specie dei cosiddetti uri. Sono leggermente più piccoli degli elefanti, assomigliano ai tori per aspetto, colore e forma. Sono molto forti, estremamente veloci, non risparmiano né uomini, né animali che abbiano scorto. I Germani si danno molto da fare per catturarli per mezzo di fosse, e poi li uccidono: i giovani si temprano e si esercitano in queste fatiche e genere di cacce. Chi ha ucciso diversi uri, ne espone le corna pubblicamente, a testimonianza della sua impresa, ricevendo grandi elogi. Non si riesce ad abituare gli uri alla presenza degli uomini, né ad addomesticarli, neppure se catturati da piccoli. Le corna, per ampiezza, forma e aspetto, sono molto diverse da quelle dei nostri buoi. Sono un pezzo molto ricercato, le guarniscono d'argento negli orli e le usano come coppe nei banchetti più sontuosi.
Cesare, quando dagli esploratori degli Ubi apprende che gli Svevi si erano rifugiati nelle selve, decide di non avanzare ulteriormente, temendo che gli venisse a mancare il grano, visto che tutti i Germani, come abbiamo ricordato prima, non praticano affatto l'agricoltura. Ma per tener desto nei barbari il timore di un suo possibile ritorno e per rallentare la marcia dei loro rinforzi, ritira l'esercito e, per duecento piedi di lunghezza, distrugge la testa del ponte sulla sponda degli Ubi. All'estremità del ponte, costruisce una torre di quattro piani, lasciando a difesa del medesimo una guarnigione di dodici coorti e munendo il luogo con salde fortificazioni. Assegna il comando della zona e della guarnigione al giovane C. Volcacio Tullo. Cesare, invece, non appena il grano cominciava a maturare, partì per muovere guerra ad Ambiorige, attraverso la selva delle Ardenne, la più estesa di tutta la Gallia: dalle rive del Reno e dalle terre dei Treveri giunge fino alla regione dei Nervi, per oltre cinquecento miglia di lunghezza. Manda in avanscoperta L. Minucio Basilo alla testa di tutta la cavalleria, perché traesse vantaggio dalla rapidità della marcia e dalle occasioni favorevoli. Lo ammonisce a vietare i fuochi nell'accampamento, perché da lontano non si scorgessero indizi del suo arrivo, e gli garantisce che si sarebbe spinto subito dietro di lui.
Basilo si attiene agli ordini. Coperta la distanza rapidamente e mentre nessuno se lo aspettava, coglie di sorpresa molti nemici ancora nei campi. Grazie alle loro indicazioni, punta su Ambiorige stesso, dirigendosi nel luogo in cui si trovava - così dicevano - con pochi cavalieri. La Fortuna ha un gran peso in tutto, specie nelle operazioni militari. Infatti, se per un caso davvero propizio Basilo poté piombare su Ambiorige stesso cogliendolo alla sprovvista e impreparato (videro di persona l'arrivo del Romano prima che ne giungesse voce o notizia), d'altro canto fu una vera combinazione se il Gallo riuscì a sottrarsi alla morte, pur perdendo tutto il suo equipaggiamento militare, i carri e i cavalli. Ed ecco come andò: la sua casa era circondata da un bosco, come spesso le abitazioni dei Galli, che, per evitare il caldo, in genere cercano luoghi vicini a fiumi o selve. Così, i suoi compagni e servi, in una stretta zona d'accesso, ressero per un po' al nostro assalto. Mentre essi combattevano, uno dei suoi lo fece salire a cavallo: le selve ne protessero la fuga. Così, la Fortuna ebbe un ruolo determinante prima nel metterlo in pericolo, poi nel salvarlo.
Non è chiaro se Ambiorige non avesse raccolto le sue truppe di proposito, non ritenendo opportuno uno scontro aperto, oppure se gli fosse mancato il tempo e glielo avesse impedito l'arrivo improvviso della cavalleria, che credeva seguita dal resto dell'esercito. L'unica cosa certa è che inviò messi nelle campagne con l'ordine di pensare ciascuno per sé. Alcuni dei suoi si rifugiarono nella selva delle Ardenne, altri nelle paludi interminabili. Chi viveva nei pressi dell'Oceano riparò nelle isole che le maree sono solite formare. Molti, poi, abbandonati i propri territori, affidarono se stessi, con ogni avere, a genti del tutto estranee. Catuvolco, re di una metà degli Eburoni, che aveva assunto l'iniziativa insieme ad Ambiorige, era ormai sfinito dagli anni e non poteva reggere le fatiche di una guerra o di una fuga. Perciò, dopo aver maledetto con ogni sorta d'imprecazioni Ambiorige, l'ideatore del piano, si tolse la vita con il tasso, una pianta molto diffusa in Gallia e in Germania.
I Segni e i Condrusi, popoli di stirpe germanica e tali ritenuti, che abitano tra gli Eburoni e i Treveri, mandarono a Cesare un'ambasceria per pregarlo di non considerarli nemici e di non credere che tutti i Germani stanziati al di qua del Reno avessero fatto causa comune: essi non avevano pensato alla guerra, né inviato ad Ambiorige rinforzi. Cesare, accertato come stavano le cose interrogando i prigionieri, comandò ai Segni e ai Condrusi di ricondurgli eventuali fuggiaschi degli Eburoni giunti nelle loro terre; se avessero eseguito l'ordine, non avrebbe violato i loro territori. Quindi, divise in tre corpi le sue truppe e ammassò le salmerie di tutte le legioni ad Atuatuca. È il nome di una fortezza che si trova circa al centro dei territori degli Eburoni, dove Titurio e Aurunculeio avevano posto i quartieri d'inverno. Tra gli altri motivi, Cesare approvava la scelta del luogo soprattutto perché erano ancora intatte le fortificazioni dell'anno precedente, così avrebbe risparmiato fatica ai soldati. A presidio delle salmerie lasciò la quattordicesima legione, una delle tre che, arruolate di recente, aveva condotto dall'Italia. Affidò il comando della legione e del campo a Q. Tullio Cicerone, assegnandogli duecento cavalieri.
Suddiviso l'esercito, ordina a T. Labieno di partire con tre legioni verso l'Oceano, puntando sulle terre al confine con i Menapi. Alla testa di altrettante legioni invia C. Trebonio a devastare i territori contigui agli Atuatuci. E lui stesso decide di muoversi, con le tre restanti legioni, in direzione della Schelda, un fiume che si getta nella Mosa, e verso le parti più lontane delle Ardenne, dove, stando alle voci, era riparato Ambiorige con pochi cavalieri. Al momento della partenza, assicura che sarebbe rientrato di lì a sette giorni, data stabilita per distribuire il grano alla legione di presidio in Atuatuca. Invita Labieno e Trebonio, se ciò non nuoceva agli interessi di stato, a rientrare lo stesso giorno: tenuto ancora consiglio e analizzate le intenzioni del nemico, avrebbero potuto riprendere, su nuove basi, le ostilità.
I nemici, come abbiamo detto in precedenza, non avevano un esercito regolare, una fortezza, un presidio che si difendesse con le armi: erano una massa di uomini sparsi ovunque. Ciascuno si era appostato dove una valle nascosta, una zona boscosa, una palude impraticabile offriva una qualche speranza di difesa o di salvezza. Erano luoghi ben noti agli abitanti della zona, e la situazione richiedeva la massima prudenza, non tanto per proteggere il grosso dell'esercito (nessun pericolo, infatti, poteva nascere, per le nostre truppe riunite, da nemici atterriti e sparpagliati), quanto per tutelare i singoli legionari, cosa che comunque, in parte, riguardava la sicurezza di tutto l'esercito. Infatti, l'avidità di bottino spingeva molti ad allontanarsi troppo, e le selve, dai sentieri malsicuri e poco visibili, impedivano ai nostri la marcia in gruppo. Se si voleva portare a termine l'operazione e annientare quella stirpe di canaglie, era necessario distaccare diversi gruppi in varie direzioni e dividere i soldati; se, invece, si sceglieva di tenere i manipoli sotto le insegne, come richiesto dalla regola e dall'uso dell'esercito romano, la zona stessa avrebbe protetto i barbari, ai quali non mancava l'audacia, per quanto isolati, di tendere imboscate e di circondare i nostri che si fossero disuniti. Così, di fronte a tali difficoltà, si provvide con tutta l'attenzione possibile: si rinunciò perfino a qualche occasione di nuocere al nemico, sebbene tutti bruciassero dal desiderio di vendetta, piuttosto che farlo a prezzo di nostre perdite. Cesare invia messi ai popoli confinanti, li fa venire presso di sé e li spinge, con la speranza di bottino, a saccheggiare le terre degli Eburoni: voleva che fossero i Galli, non i legionari, a rischiare la vita nelle selve e che, al tempo stesso, in seguito all'affluire di una simile massa, venissero annientati, come prezzo per la loro colpa, gli Eburoni, nome e stirpe. Da ogni regione accorre ben presto una gran folla.
Ecco cosa succedeva in ogni parte del territorio degli Eburoni, e intanto si avvicinava il settimo giorno, fissato da Cesare per il suo ritorno alle salmerie e alla legione di presidio. In questa circostanza si poté constatare il peso della Fortuna in guerra e quali inattesi eventi essa produca. I nemici erano dispersi e atterriti, lo abbiamo visto; non vi erano truppe in grado di dare il benché minimo motivo di preoccupazione. Ai Germani, al di là del Reno, giunge voce che le terre degli Eburoni venivano saccheggiate e che, anzi, tutti erano chiamati a far bottino. I Sigambri, popolo vicino al Reno, che avevano accolto - lo abbiamo riferito in precedenza - i Tenteri e gli Usipeti in fuga, radunano duemila cavalieri. Passano il Reno su imbarcazioni e zattere, trenta miglia più a sud del punto in cui era stato costruito il ponte e dove Cesare aveva lasciato il presidio. Varcano la frontiera degli Eburoni, raccolgono molti sbandati, si impossessano di una gran quantità di capi di bestiame, preda ambitissima dai barbari. Attratti dal bottino, avanzano. Né la palude, né le selve frenano questi uomini nati tra guerre e saccheggi. Ai prigionieri chiedono dove sia Cesare; scoprono, così, che si è molto allontanato e che tutto l'esercito è partito. Allora uno dei prigionieri 'Ma perché - dice - vi accanite dietro a questa preda misera e meschina, quando potreste essere già ricchissimi? Atuatuca è raggiungibile in tre ore di marcia: lì l'esercito romano ha ammassato tutti i propri averi. I difensori non bastano neppure a coprire il muro di cinta e nessuno osa uscire dalle fortificazioni'. Di fronte a una tale occasione, i Germani nascondono la preda già conquistata e puntano su Atuatuca, sotto la guida dell'uomo che li aveva informati.
Cicerone, in tutti i giorni precedenti, secondo le disposizioni di Cesare, aveva trattenuto con molto scrupolo i soldati nell'accampamento, senza permettere che neppure un calone uscisse dalle fortificazioni. Ma il settimo giorno, non avendo fiducia che Cesare sarebbe stato puntuale come aveva promesso (giungevano, infatti, voci che si era spinto ancor più lontano e non si avevano notizie sul suo ritorno) e turbato, al tempo stesso, dalle critiche di chi definiva la sua pazienza una sorta di assedio, in quanto a nessuno era concesso di uscire dal campo, stima che, nel raggio di tre miglia, i suoi non avrebbero corso alcun pericolo: il nemico, già sbandato e pressoché distrutto, aveva di fronte nove legioni e una fortissima cavalleria. Così, invia cinque coorti a far provvista di grano nei campi più vicini, che un unico colle separava dall'accampamento. Con Cicerone erano rimasti, dalle varie legioni, parecchi malati; i soldati guariti in quell'arco di tempo, circa trecento, formano un distaccamento e vengono mandati con gli altri. E, poi, ottenuto il permesso, li seguono anche molti caloni con un gran numero di bestie da soma, che erano rimaste al campo.
Proprio in questo momento e frangente sopraggiungono i cavalieri germani, che, proseguendo senza rallentare l'andatura, tentano un'irruzione dalla porta decumana. Essendo coperti, su quel lato, dalle selve, vengono scorti solo quando erano ormai nei pressi del campo, al punto che i mercanti, attendati ai piedi del vallo, non hanno neppure modo di rifugiarsi all'interno. I nostri, colti alla sprovvista, rimangono scossi dall'evento inatteso, e la coorte di guardia riesce a respingere a malapena il primo assalto. I Germani si spargono tutt'intorno, nella speranza di trovare un adito. I nostri difendono a stento le porte, per il resto l'accesso era impedito solo dalla posizione naturale e dalle fortificazioni. In tutto il campo regna la confusione, ci si domanda l'un l'altro la causa del tumulto: non si pensa a disporre le insegne, né a indicare dove ciascuno debba radunarsi. Chi sostiene che il campo è già caduto, chi afferma che i barbari sono giunti vittoriosi, dopo aver annientato il nostro esercito e ucciso il comandante. La maggior parte si inventa nuove superstizioni sulla base del luogo, rievocando il massacro di Cotta e Titurio, avvenuto proprio lì. Poiché tutti erano terrorizzati da tali paure, i barbari si rafforzano nell'idea che, come aveva detto il prigioniero, all'interno non c'era alcuna guarnigione. Cercano di sfondare e si spronano a vicenda a non lasciarsi sfuggire dalle mani un'occasione così splendida.
Al campo, con la legione di presidio, era rimasto, malato, P. Sestio Baculo, che sotto Cesare aveva rivestito la carica di centurione primipilo e di cui abbiamo parlato nelle battaglie precedenti: già da cinque giorni non toccava cibo. Disperando della salvezza sua e di tutti, esce disarmato dalla tenda. Vede che i nemici incombevano e che il momento era molto critico: si fa consegnare le armi dai soldati più vicini e si piazza sulla porta. A lui si uniscono i centurioni della coorte di guardia; per un po' reggono agli assalti, insieme. Poi Sestio, gravemente ferito, sviene: lo traggono in salvo a stento, passandolo di braccia in braccia. Ma nel frattempo gli altri si rinfrancano, tanto che osano attestarsi sui baluardi e danno l'impressione di una vera guarnigione.
In quel mentre, i nostri, terminata la raccolta di grano, odono i clamori: i cavalieri accorrono, si rendono conto della gravità della situazione. Ma qui non c'era nessun riparo che potesse accogliere gente in preda al panico: soldati appena arruolati e privi di esperienza militare, rivolgono gli occhi al tribuno e ai centurioni, aspettano i loro ordini. Ma anche i migliori erano sconvolti dagli eventi inattesi. I barbari, scorgendo in lontananza le insegne, cessano l'assedio: dapprima pensano al rientro delle legioni che, su informazione dei prigionieri, sapevano lontane; poi, disprezzando lo scarso numero dei nostri, li attaccano da ogni lato.
I caloni corrono sul rialzo più vicino. Ben presto scacciati, si precipitano tra le insegne e i manipoli, seminando ancor più scompiglio tra i legionari impauriti. Dei nostri c'era chi consigliava di formare un cuneo per aprirsi rapidamente un varco, data la vicinanza del campo: anche se qualcuno, accerchiato, soccombeva, certo gli altri sarebbero riusciti a mettersi in salvo. E chi, invece, era dell'avviso di attestarsi sul colle e di affrontare tutti lo stesso destino. I veterani - abbiamo detto che si erano aggregati come distaccamento - non approvano quest'ultima soluzione. Così, si incoraggiano a vicenda e, sotto la guida di C. Trebonio, cavaliere romano, loro comandante, forzano al centro la linea nemica e, sani e salvi dal primo all'ultimo, raggiungono tutti l'accampamento. Alle loro spalle si lanciano nello stesso attacco i caloni e i cavalieri e vengono salvati dal valore dei veterani. Gli altri, invece, rimasti in cima al colle, soldati ancora privi di qualsiasi esperienza militare, non seppero attenersi alla decisione da loro stessi approvata, cioè di difendersi dall'alto del colle, né imitare la forza e la rapidità che avevano visto procurare ai loro compagni la salvezza, ma, nel tentativo di ripiegare verso il campo, scesero su un terreno sfavorevole. I centurioni, alcuni dei quali, per il loro valore, erano stati promossi dagli ordini inferiori delle altre legioni agli ordini superiori di questa, caddero sul campo, combattendo con straordinario coraggio, per non perdere l'onore delle armi che si erano prima conquistati. Parte dei soldati, mentre i nemici venivano respinti dal valore dei centurioni, contro ogni speranza raggiunse salva l'accampamento, parte fu circondata dai barbari e uccisa.
I Germani, persa la speranza di espugnare il campo, poiché vedevano i nostri ormai ben saldi sui baluardi, si ritirarono oltre il Reno con il bottino che avevano nascosto nelle selve. E anche dopo la partenza dei nemici, i nostri rimasero così atterriti, che C. Voluseno, quando giunse, quella notte stessa, al campo con la cavalleria, non riuscì a far credere che Cesare stesse arrivando con l'esercito indenne. Il panico si era impadronito degli animi di tutti al punto che erano quasi usciti di senno: dicevano che l'esercito era stato annientato e che la cavalleria era riuscita a salvarsi fuggendo, sostenevano che, se l'esercito non fosse stato distrutto, i Germani non avrebbero attaccato il nostro campo. L'arrivo di Cesare dissolse ogni paura.
Appena rientrato, Cesare, ben sapendo come vanno le cose in guerra, si lamentò solo di un fatto, che le coorti fossero state spedite fuori dalla guarnigione e dal presidio: non bisognava lasciare al caso il benché minimo spazio. Giudicò determinante il ruolo della Fortuna nel repentino attacco nemico, ma ancor più nel respingere i barbari quasi dal vallo e dalle porte dell'accampamento. Tra tutte le circostanze, però, la più singolare gli parve che i Germani, varcato il Reno con l'intenzione di saccheggiare i territori di Ambiorige, si fossero, poi, volti contro l'accampamento dei Romani, rendendo ad Ambiorige stesso il beneficio più desiderato.
Cesare ripartì con lo scopo di devastare i territori nemici e, radunati forti contingenti di cavalleria dai popoli limitrofi, li invia in ogni direzione. Tutti i villaggi, tutti gli edifici isolati, appena scorti, erano dati alle fiamme, gli animali venivano sgozzati, si faceva razzia ovunque, il grano non lo consumavano solo i moltissimi giumenti e soldati, ma cadeva anche nei campi per la stagione avanzata e le piogge. Così, se anche qualcuno, al momento, era riuscito a nascondersi, sembrava tuttavia destinato, dopo la partenza dell'esercito romano, a morte sicura, per totale mancanza di sostentamento. E, suddivisa e inviata la cavalleria in tutte le direzioni, più d'una volta si giunse al punto che i prigionieri cercassero con gli occhi Ambiorige, che avevano appena scorto in fuga, e sostenessero che non poteva essere già fuori di vista. I cavalieri speravano di catturarlo e si impegnavano senza respiro, ritenendo di poter entrare nelle grazie di Cesare, e con il loro zelo piegavano, per così dire, la natura, ma, a quanto pareva, si trovavano sempre a un passo dal successo. Ambiorige si sottraeva alla caccia rifugiandosi in anfratti o boscaglie, con il favore delle tenebre si spostava in altre regioni e zone, senz'altra scorta che quattro cavalieri, i soli a cui osasse affidare la propria vita.
Devastate in tal modo le regioni, Cesare conduce l'esercito, che aveva subito la perdita di due coorti, a Durocortoro, città dei Remi. Qui convoca l'assemblea della Gallia e decide di aprire un'inchiesta sulla cospirazione dei Senoni e dei Carnuti. Accone, responsabile del piano di sollevazione, fu condannato alla pena capitale e giustiziato secondo l'antico costume dei nostri padri. Alcuni, temendo il processo, fuggirono. Cesare li condannò all'esilio. Sistemò nei quartieri invernali due legioni presso i Treveri, due nelle terre dei Lingoni, le altre sei nella regione dei Senoni, ad Agedinco. Dopo aver provveduto alle scorte di grano per l'esercito, partì alla volta dell'Italia, come suo solito, per tenervi le sessioni giudiziarie.
LIBRO SETTIMO
Quando la Gallia era tranquilla, Cesare, come aveva stabilito, si reca in Italia per tenervi le sessioni giudiziarie. Qui viene a sapere dell'assassinio di P. Clodio. Poi, messo al corrente della delibera del senato che chiamava al giuramento in massa i giovani dell'Italia, inizia il reclutamento in tutta la provincia. Le notizie vengono ben presto riferite in Gallia transalpina. I Galli stessi aggiungono e inventano altri particolari, che sembravano adatti alla circostanza: Cesare era trattenuto dai disordini della capitale e non poteva certo raggiungere l'esercito mentre erano in corso contrasti così aspri. I Galli, già prima, afflitti di sottostare al dominio del popolo romano, cominciano a prendere decisioni per la guerra con maggior libertà e audacia, spronati dall'occasione favorevole. I capi della Gallia si riuniscono in zone boscose e appartate, si lamentano della morte di Accone, spiegano che la stessa sorte poteva toccare anche a loro. Deplorano la situazione comune a tutto il paese: promettendo premi d'ogni sorta, chiedono con insistenza qualcuno che apra le ostilità e renda libera la Gallia a rischio della vita. Innanzi tutto, dicono, si trattava di tagliare a Cesare la strada per l'esercito prima che venissero conosciuti i loro piani segreti. Era facile: assente il comandante in capo, le legioni non avrebbero osato lasciare gli accampamenti invernali, né Cesare avrebbe potuto raggiungerle, senza la scorta dovuta. Infine, era meglio morire sul campo piuttosto che non recuperare l'antica gloria militare e la libertà ereditata dagli avi.
Dopo tali discorsi, i Carnuti si dichiarano pronti ad affrontare qualsiasi pericolo per la salvezza comune e promettono di aprire, primi tra tutti, le ostilità. E siccome al momento non potevano scambiarsi ostaggi come reciproca garanzia, per non rendere manifesti i propri piani, chiedono di sancire i patti con un giuramento e una promessa, raccolte in un fascio tutte le insegne militari, come vuole la cerimonia più solenne secondo i loro costumi: non intendevano trovarsi soli, una volta dato inizio al conflitto. Allora tutti i presenti lodano i Carnuti e pronunciano il giuramento solenne. Fissano la data della sollevazione e sciolgono il concilio.
Nel giorno stabilito, i Carnuti, sotto la guida di Cotuato e Conconnetodumno, uomini pronti a tutto, al segnale convenuto corrono su Cenabo: massacrano i cittadini romani che si erano qui stabiliti per ragioni di commercio e ne saccheggiano i beni. Una delle vittime fu C. Fufio Cita, rispettabile cavaliere romano, che per disposizione di Cesare sovrintendeva ai rifornimenti di grano. La notizia giunge rapidamente a tutte le genti della Gallia. Infatti, quando si verificano eventi di una certa importanza e rilievo, li comunicano di campo in campo, di regione in regione con grandi clamori; gli altri, a loro volta, odono le grida e le trasmettono ai vicini, come accadde allora. Tant'è vero che l'episodio, avvenuto a Cenabo all'alba, era già noto prima delle nove di sera nelle terre degli Arverni, ovvero a circa centosessanta miglia di distanza.
Allo stesso modo Vercingetorige convoca i suoi clienti e con facilità li infiamma. Vercingetorige, arverno, era un giovane di grandissima potenza, figlio di Celtillo, che aveva ottenuto il principato su tutta la Gallia e, reo di aspirare al trono, era stato ucciso dal suo popolo. Non appena vengono conosciute le intenzioni del giovane, si corre alle armi. Gli si oppongono suo zio Gobannizione e gli altri capi, che non erano dell'avviso di tentare l'impresa: viene cacciato dalla città di Gergovia; ma non desiste e assolda, nelle campagne, i poveri e i delinquenti. Raccolto un pugno d'uomini, guadagna alla sua causa tutti i concittadini che riesce ad avvicinare, li incita a prendere le armi per la libertà comune. Raduna ingenti forze ed espelle dalla città quegli stessi avversari che, poco prima, avevano bandito lui. I suoi lo proclamano re. Invia ambascerie in tutte le direzioni, esorta alla lealtà. In breve tempo unisce a sé i Senoni, i Parisi, i Pictoni, i Cadurci, i Turoni, gli Aulerci, i Lemovici, gli Andi e tutti gli altri popoli che si affacciano sull'Oceano. Per consenso generale, gli viene conferito il comando supremo. Assunto il potere, esige ostaggi da tutti i popoli suddetti, ordina la rapida consegna di un determinato contingente di soldati, stabilisce la quantità di armi che ciascun popolo, nei propri territori, doveva fabbricare ed entro quale termine. Si preoccupa in particolare della cavalleria. Accompagna lo straordinario zelo con un'assoluta inflessibilità nel comando; grazie alla severità dei provvedimenti tiene a freno chi è titubante. Infatti, per un delitto piuttosto grave condanna alla morte tra le fiamme e tormenti d'ogni genere, mentre per una colpa di minor entità punisce tagliando le orecchie o cavando un occhio, e rimanda il reo in patria, che sia di monito, per atterrire gli altri con l'atrocità delle pene.
Dopo aver ben presto ridotto con tali supplizi l'esercito alla disciplina, alla testa di parte delle truppe invia nelle terre dei Ruteni il cadurco Lucterio, uomo di estrema audacia; dal canto suo, si dirige nella regione dei Biturigi. Al suo arrivo i Biturigi inviano un'ambasceria agli Edui, di cui erano clienti: chiedono aiuti per poter resistere con maggior facilità all'attacco nemico. Dietro suggerimento dei legati rimasti con l'esercito per ordine di Cesare, gli Edui inviano contingenti di cavalleria e fanteria in appoggio ai Biturigi. I rinforzi, quando arrivano alla Loira, fiume che segna il confine tra Biturigi ed Edui, sostano pochi giorni e poi rientrano in patria senza aver osato varcare il fiume. Ai nostri legati riferiscono di aver ripiegato per timore di un tradimento dei Biturigi. Ne avevano, infatti, scoperto il piano: se avessero attraversato la Loira, si sarebbero visti accerchiati dai Biturigi stessi da un lato, dagli Arverni dall'altro. Avranno deciso così per le ragioni addotte ai legati oppure per loro tradimento? Non abbiamo alcuna prova, perciò non ci sembra giusto dare nulla per certo. Subito dopo l'allontanamento degli Edui, i Biturigi si uniscono agli Arverni.
Quando in Italia gli giunse notizia dell'accaduto, Cesare, rendendosi conto che a Roma le cose si erano accomodate grazie alla fermezza di Cn. Pompeo, partì per la Gallia transalpina. Appena arrivato, si trovò in grave difficoltà, perché non sapeva come raggiungere l'esercito. Infatti, se avesse richiamato le legioni in provincia, capiva che durante la marcia avrebbero dovuto combattere senza di lui; se invece, si fosse diretto egli stesso verso l'esercito, sapeva di non poter affidare senza rischi la propria vita, in quel frangente, neppure ai popoli che sembravano tranquilli.
Nel frattempo, il cadurco Lucterio, inviato tra i Ruteni, li guadagna all'alleanza con gli Arverni. Procede nelle terre dei Nitiobrogi e dei Gabali, riceve ostaggi da entrambi i popoli e, raccolte ingenti truppe, tenta un'incursione in provincia, verso Narbona. Appena ne è informato, Cesare ritenne di dover subordinare qualsiasi piano alla partenza per Narbona. Una volta giunto, rassicura chi nutre timori, colloca guarnigioni nelle terre dei Ruteni provinciali, dei Volci Arecomici, dei Tolosati e tutt'intorno a Narbona, ossia nelle zone di confine col nemico. Ordina che parte delle truppe della provincia, insieme ai rinforzi da lui stesso condotti dall'Italia, si concentrino nella regione degli Elvi, popolo limitrofo agli Arverni.
Dopo aver approntato tutto ciò (mentre ormai Lucterio era stato fermato e arretrava, perché riteneva pericoloso inoltrarsi nelle zone presidiate), Cesare si dirige nelle terre degli Elvi. Le Cevenne, monti che segnano il confine tra Arverni ed Elvi, ostacolavano il cammino, la stagione era la più inclemente, la neve molto alta; tuttavia, spalò la neve per una profondità di sei piedi, si aprì un varco grazie all'enorme sforzo dei soldati e raggiunse i territori degli Arverni. Piombò inatteso sui nemici, che si ritenevano protetti dalle Cevenne come da un muro: mai, neppure un uomo isolato, in quella stagione era riuscito a praticarne i sentieri. Ordina ai cavalieri di effettuare scorrerie nel raggio più ampio e di seminare il panico tra i nemici quanto più potevano. La voce e le notizie, ben presto, giungono a Vercingetorige: tutti gli Arverni, spaventati, lo attorniano e lo scongiurano di pensare alla loro sorte, di impedire ai Romani le razzie, tanto più ora che vedeva tutto il peso della guerra ricadere su di loro. Sotto la pressione delle preghiere, sposta il campo dalle terre dei Biturigi in direzione degli Arverni.
Ma Cesare si trattiene nella regione degli Arverni due giorni: prevista la mossa di Vercingetorige, si allontana col pretesto di raccogliere rinforzi e cavalleria. Affida il comando al giovane Bruto e lo incarica di compiere in ogni direzione scorrerie con la cavalleria, il più lontano possibile: dal canto suo, avrebbe fatto di tutto per rimaner lontano dal campo non più di tre giorni. Impartite tali disposizioni, contro le attese dei suoi si reca a Vienna, forzando al massimo le tappe. Sfrutta la cavalleria fresca lì inviata molti giorni prima e, senza mai interrompere la marcia né di giorno, né di notte, attraversa il territorio degli Edui verso i Lingoni, dove svernavano due legioni: così, se gli Edui gli avessero teso qualche insidia, li avrebbe prevenuti con la rapidità del suo passaggio. Appena giunto, invia messi alle altre legioni e le raccoglie tutte in un solo luogo, prima che gli Arverni potessero sapere del suo arrivo. Quando ne è informato, Vercingetorige riconduce l'esercito nei territori dei Biturigi e, da qui, raggiunge e comincia a stringere d'assedio Gorgobina, una città dei Boi, popolo che Cesare aveva qui stanziato sotto la tutela degli Edui dopo averlo sconfitto nella guerra contro gli Elvezi.
La mossa di Vercingetorige metteva in grave difficoltà Cesare, incerto sul da farsi: se per il resto dell'inverno avesse tenuto le legioni concentrate in un solo luogo, temeva che la caduta di un popolo vassallo degli Edui potesse causare una defezione generale della Gallia, visto che lui non rappresentava una garanzia di difesa per gli alleati; d'altronde, se avesse mobilitato l'esercito troppo presto, lo preoccupava l'approvvigionamento di grano per i disagi del trasporto. Gli sembrò meglio, tuttavia, affrontare qualsiasi difficoltà piuttosto che subire un'onta così grave e alienarsi l'animo di tutti i suoi. Perciò, incita gli Edui a occuparsi del trasporto dei viveri e invia messaggeri ai Boi per informarli del suo arrivo ed esortarli a mantenere i patti e a reggere con grande coraggio all'assalto nemico. Lascia ad Agedinco due legioni con le salmerie di tutto l'esercito e parte alla volta dei Boi.
Due giorni dopo, giunse a Vellaunoduno, città dei Senoni- Non volendo lasciarsi nemici alle spalle per facilitare i rifornimenti, cominciò l'assedio e in due giorni costruì tutt'attorno un vallo. Il terzo giorno la città gli invia emissari per offrire la resa, Cesare esige la consegna delle armi, dei giumenti e di seicento ostaggi. Lascia il legato C. Trebonio a sbrigare la faccenda e punta subito su Cenabo, città dei Carnuti, per coprire al più presto la distanza. Pervenuta soltanto allora notizia dell'assedio di Vellaunoduno, i Carnuti pensavano che le cose sarebbero andate per le lunghe e preparavano una guarnigione da inviare a Cenabo. Qui Cesare giunge in due giorni. Pone il campo dinnanzi alla città, ma è costretto a rimandare l'attacco all'indomani, vista l'ora tarda. Comanda ai soldati di approntare il necessario per l'assedio e dà ordine a due legioni di vegliare in armi, temendo una fuga di notte dalla città, in quanto un ponte sulla Loira collegava Cenabo con la sponda opposta. Poco prima di mezzanotte i Cenabensi uscirono in silenzio dalla città e cominciarono ad attraversare il fiume. Appena ne è informato dagli esploratori, Cesare invia le due legioni che, per suo ordine, si tenevano pronte all'intervento; dà fuoco alle porte, irrompe in città e la prende: ben pochi sfuggono alla cattura, perché il ponte e le strade, stretti com'erano, avevano ostacolato la fuga del grosso dei nemici. Saccheggia e incendia la città, dona ai soldati il bottino, varca con l'esercito la Loira e perviene nei territori dei Biturigi.
Vercingetorige, non appena è messo al corrente dell'arrivo di Cesare, toglie l'assedio e gli si fa incontro. Cesare aveva intrapreso il blocco di una città dei Biturigi, Novioduno, posta lungo la sua strada. Dalla città gli erano stati inviati emissari per scongiurarne il perdono, la grazia. Al fine di condurre a termine il resto delle operazioni con la rapidità che gli aveva fruttato la maggior parte dei successi, impone la consegna di armi, cavalli e ostaggi. Una parte degli ostaggi era già stata inviata, al resto si stava provvedendo; in città si erano addentrati alcuni centurioni con pochi legionari, per raccogliere le armi e i giumenti. Ma ecco che in lontananza si scorge la cavalleria nemica, che precedeva l'esercito di Vercingetorige. Non appena gli abitanti la videro e nacque in loro la speranza di rinforzi, tra alte grida cominciarono a impugnare le armi, a chiudere le porte, a riversarsi sulle mura. I centurioni presenti in città, essendosi resi conto, dal loro comportamento, che i Galli avevano preso qualche nuova decisione, sguainate le spade, assunsero il controllo delle porte e condussero tutti i loro in salvo.
Cesare ordina alla cavalleria di scendere in campo e attacca battaglia; poiché i suoi erano in difficoltà, invia in loro appoggio circa quattrocento cavalieri germani, che fin dall'inizio della guerra era solito portare con sé. I Galli non riuscirono a resistere all'attacco e volsero le spalle: si rifugiarono presso il loro esercito in marcia, ma subirono gravi perdite. Di fronte alla rotta della loro cavalleria, gli abitanti della città, presi nuovamente dal panico, catturarono i presunti responsabili dell'istigazione del popolo e li consegnarono a Cesare, arrendendosi. Sistemata la questione, Cesare si diresse ad Avarico, la più importante e munita città dei Biturigi, posta nella regione più fertile: era convinto che, presa Avarico, avrebbe ridotto in suo potere i Biturigi.
Vercingetorige, dopo tanti, continui rovesci, subiti a Vellaunoduno, Cenabo e Novioduno, convoca i suoi a concilio. Occorreva adottare, spiega, una strategia ben diversa rispetto al passato. Bisognava sforzarsi, con ogni mezzo, di impedire ai Romani la raccolta di foraggio e viveri. Era facile: avevano una cavalleria molto numerosa e la stagione giocava in loro favore. I Romani non avevano la possibilità di trovare foraggio nei campi, dovevano dividersi e cercarlo casa per casa: tutte queste truppe, di giorno in giorno, le poteva annientare la cavalleria. Poi, per la salvezza comune, era necessario trascurare i beni privati; occorreva incendiare villaggi e case in ogni direzione, dove sembrava che i Romani si sarebbero recati in cerca di foraggio. Le loro scorte, invece, erano sufficienti, perché sarebbero stati riforniti dal popolo nelle cui terre si fosse combattuto. I Romani o non avrebbero potuto far fronte alla mancanza di viveri o si sarebbero allontanati troppo dall'accampamento, esponendosi a grossi rischi. E non faceva alcuna differenza tra ucciderli o privarli delle salmerie, perché senza di esse non si poteva condurre una guerra. Inoltre, bisognava incendiare le città che, per fortificazioni o conformazione naturale, non erano del tutto sicure, in modo da non offrire ai disertori galli un rifugio e ai Romani l'opportunità di trovare viveri o far bottino. Se tali misure sembravano dure o severe, dovevano pensare quanto più dura sarebbe stata la schiavitù per i figli e le mogli e la morte per loro stessi, destino dei vinti.
Il parere di Vercingetorige riscuote il consenso generale: in un solo giorno vengono date alle fiamme più di venti città dei Biturigi. Lo stesso avviene nei territori degli altri popoli: ovunque si scorgono incendi. Anche se tutti provavano grande dolore per tali provvedimenti, tuttavia si consolavano nella convinzione di avere la vittoria pressoché in pugno e di poter recuperare a breve termine i beni perduti. Nell'assemblea comune si delibera su Avarico, se incendiarla o difenderla. I Biturigi si gettano ai piedi di tutti i capi galli, li pregano di non costringerli a incendiare, di propria mano, la più bella o quasi tra le città di tutta la Gallia, presidio e vanto del loro popolo. Sostengono che si sarebbero difesi con facilità grazie alla conformazione naturale della zona: la città, circondata su quasi tutti i lati da un fiume e da una palude, aveva un unico accesso, molto angusto. La loro richiesta viene accolta: Vercingetorige, in un primo momento contrario, aveva poi acconsentito, sia per le loro preghiere, sia per la compassione che tutti provavano. Si scelgono per la città i difensori adatti.
Vercingetorige segue Cesare a piccole tappe e sceglie per l'accampamento un luogo munito da paludi e selve, a sedici miglia da Avarico. Lì, mediante una rete stabile di esploratori, ora per ora si teneva al corrente delle novità di Avarico e diramava gli ordini. Sorvegliava tutti i nostri spostamenti: quando i legionari si disunivano, dovendo per forza di cose allontanarsi in cerca di foraggio e grano, li assaliva procurando loro gravi perdite, sebbene i nostri, per quanto si poteva provvedere, adottassero ogni misura per muoversi a intervalli irregolari e seguire vie diverse.
Cesare pose l'accampamento nei pressi della zona che, libera dal fiume e dalle paludi, lasciava uno stretto passaggio, come abbiamo in precedenza illustrato. Cominciò a costruire il terrapieno, a spingere in avanti le vinee, a fabbricare due torri; la natura del luogo, infatti, impediva di circondare la città con un vallo. Quanto all'approvvigionamento di grano, non cessò di raccomandarsi ai Boi e agli Edui: quest'ultimi, che agivano senza zelo alcuno, non risultavano di grande aiuto; i primi, invece, non disponendo di grandi mezzi, perché erano un popolo piccolo e debole, esaurirono in breve tempo le proprie scorte. Una totale penuria di viveri, dovuta alla povertà dei Boi, alla negligenza degli Edui e agli incendi degli edifici, attanagliò l'esercito a tal punto, che per parecchi giorni i nostri soldati rimasero senza grano e placarono i morsi della fame grazie ai capi di bestiame tratti dai villaggi più lontani. Tuttavia, non si udì da parte loro nessuna parola indegna della maestà del popolo romano e delle loro precedenti vittorie. Anzi, quando Cesare interpellò ciascuna legione durante i lavori e disse che avrebbe tolto l'assedio, se la mancanza di viveri risultava troppo dura, tutti, nessuno eccetto, lo scongiurarono di non farlo: sotto il suo comando, in tanti anni, non avevano patito affronti, né si erano ritirati senza portare a termine un'impresa; l'avrebbero considerata una vergogna interrompere l'assedio in corso; era meglio sopportare privazioni d'ogni sorta piuttosto che rinunciare alla vendetta dei cittadini romani massacrati a Cenabo dalla slealtà dei Galli. Simili considerazioni vennero espresse ai centurioni e ai tribuni militari, perché le riferissero a Cesare.
Quando già accostavano le torri alle mura, Cesare venne a sapere dai prigionieri che Vercingetorige, terminato il foraggio, aveva spostato il campo e si era avvicinato ad Avarico: alla testa della cavalleria e della fanteria leggera, abituata a combattere tra i cavalieri, si era diretto dove riteneva che il giorno seguente i nostri si sarebbero recati in cerca di foraggio e si apprestava a un'imboscata. Saputo ciò, a mezzanotte Cesare parte in silenzio e giunge al campo nemico la mattina successiva. I Galli, immediatamente informati dell'arrivo di Cesare dagli esploratori, nascosero i carri e le salmerie nel folto dei boschi, poi dispiegarono tutte le truppe in una zona elevata e aperta. Appena lo venne a sapere, Cesare ordinò di radunare in fretta i bagagli e di preparare le armi.
Il colle si alzava dal basso in dolce pendio. Lo cingeva su quasi tutti i lati una palude difficile da superare e impraticabile, non più larga di cinquanta piedi. I Galli, tagliati i ponti, si tenevano sul colle, confidando nella loro posizione. Divisi per popoli, presidiavano tutti i guadi e i passaggi della palude, pronti a premere dall'alto i Romani impantanati, se avessero tentato di varcarla. Così, chi avesse notato solo la vicinanza dei due eserciti, avrebbe ritenuto i nemici risoluti allo scontro a condizioni uguali o quasi, ma chi avesse considerato la disparità delle posizioni, avrebbe capito che il loro farsi ostentatamente vedere era una vana simulazione. I legionari, irritati che il nemico riuscisse a reggere alla loro vista così da vicino, chiedono il segnale d'attacco, ma Cesare spiega quante perdite, quanti uomini valorosi ci sarebbe inevitabilmente costata la vittoria; vedendoli così pronti ad affrontare qualsiasi pericolo per la sua gloria, avrebbe dovuto essere tacciato di estrema ingiustizia, se non avesse tenuto alla loro vita più che alla propria. Così, dopo aver confortato i soldati, quel giorno stesso li riconduce all'accampamento e inizia a impartire le rimanenti disposizioni per l'assedio della città.
Appena ritorna tra i suoi, Vercingetorige viene accusato di tradimento: aveva spostato il campo troppo vicino ai Romani, si era allontanato con tutta la cavalleria, aveva lasciato truppe così numerose senza un capo, alla sua partenza erano piombati tanto tempestivi e rapidi i Romani - tutto ciò non poteva essersi verificato per caso o senza un piano prestabilito, la verità era che preferiva regnare sulla Gallia per concessione di Cesare piuttosto che per beneficio loro. A tali accuse così Vercingetorige risponde: se aveva mosso il campo, dipendeva dalla mancanza di foraggio, e loro stessi lo avevano sollecitato; si era sì avvicinato troppo ai Romani, ma lo aveva indotto la posizione vantaggiosa, che da sola permetteva la difesa senza bisogno di fortificazioni; non si doveva, poi, rimpiangere l'apporto della cavalleria nelle paludi, quando era stata utile là dove l'aveva condotta. Quanto al comando, alla sua partenza non l'aveva lasciato a nessuno deliberatamente, per evitare che il capo designato fosse indotto dall'ardore della moltitudine allo scontro, che tutti desideravano - lo vedeva - per la debolezza del carattere e perché incapaci di sopportare più a lungo le fatiche della guerra. Se i Romani erano intervenuti guidati dal caso, bisognava ringraziare la Fortuna, se erano stati richiamati dalle informazioni di un delatore, si doveva essere grati a costui, perché così, dall'alto, i Galli avevano potuto constatare quanto fossero pochi e codardi i Romani, che non avevano osato misurarsi e si erano vergognosamente ritirati nell'accampamento. Non aveva affatto bisogno di ricevere da Cesare, con il tradimento, il comando che poteva ottenere con la vittoria, ormai nelle mani sue e di tutti i Galli. Anzi, era disposto a deporre la carica, se pensavano di avergli concesso un potere troppo grande rispetto alla salvezza che da lui ricevevano. 'E perché comprendiate la sincerità delle mie parole - esclamò - ascoltate i soldati romani'. Introduce alcuni servi catturati pochi giorni prima mentre erano in cerca di foraggio e torturati con la fame e le catene. I servi, già istruiti in precedenza su cosa dovevano rispondere, si dichiarano legionari: erano usciti di nascosto dal campo, spinti dalla fame e dalla mancanza di viveri, nella speranza di trovare nelle campagne un po' di grano o del bestiame; tutto l'esercito versava nelle stesse condizioni di precarietà, nessuno aveva più forze, ormai, né poteva reggere alla fatica dei lavori; perciò, il comandante aveva deciso che, se l'assedio non sortiva effetto, dopo tre giorni avrebbe ritirato l'esercito. Vercingetorige aggiunge: 'Ecco i benefici che io vi ho procurato, e voi mi accusate di tradimento. Grazie a me, senza versare una goccia di sangue, ora vedete annientato dalla fame un esercito forte e vittorioso. E quando si ritirerà vergognosamente in fuga, ho già provveduto in modo che nessun popolo lo accolga nelle proprie terre'.
Tutta la moltitudine acclama e, secondo il loro costume, fa risonare le armi, come di solito fanno quando approvano il discorso di qualcuno: Vercingetorige era il capo supremo, non si doveva dubitare della sua lealtà, né era possibile condurre le operazioni con una strategia migliore. Decidono di inviare in città diecimila uomini scelti tra tutte le truppe, ritenendo inopportuno delegare ai soli Biturigi la lotta per la salvezza comune: capivano che loro sarebbe stata la vittoria finale, se la città non cadeva.
Allo straordinario valore dei nostri soldati, i Galli opponevano espedienti d'ogni sorta: sono una razza molto ingegnosa, abilissima nell'imitare e riprodurre qualsiasi cosa abbiano appreso da chiunque. Infatti, dalle mura rimuovevano le falci per mezzo di lacci e, quando le avevano ben serrate nei loro nodi. le tiravano all'interno mediante argani. Provocavano frane nel terrapieno scavando cunicoli, con tanta maggior abilità, in quanto nelle loro regioni ci sono molte miniere di ferro, per cui conoscono e usano ogni tipo di cunicolo. Poi, lungo tutto il perimetro di cinta avevano innalzato torri e le avevano protette con pelli. Inoltre, di giorno e di notte operavano frequenti sortite, nel tentativo di appiccare il fuoco al terrapieno o di assalire i nostri impegnati nei lavori. E quanto più le nostre torri ogni giorno salivano grazie al terrapieno, tanto più i Galli alzavano le loro con l'aggiunta di travi. Infine, utilizzando pali dalla punta acutissima e indurita al fuoco, pece bollente e massi enormi, bloccavano i cunicoli aperti dai nostri e ci impedivano di accostarci alle mura.
Le mura dei Galli sono tutte costruite all'incirca così: pongono a terra, su tutta la lunghezza della cinta, travi ad essa perpendicolari, a un intervallo regolare di due piedi. Ne collegano le estremità all'interno e le ricoprono con molta terra. I suddetti spazi tra l'una e l'altra trave, li chiudono all'esterno con grosse pietre. Una volta inserite e ben connesse le prime travi, sopra ne aggiungono un'altra serie, facendo in modo che mantengano la stessa distanza e non si tocchino, ma che ciascuna, a pari intervallo, poggi sulle pietre frapposte e risulti saldamente unita. Così, di seguito, tutta l'opera viene costruita fino all'altezza voluta. Le mura, per forma e varietà, non hanno un aspetto sgradevole, con quest'alternanza di travi e massi che conservano paralleli i propri ordini; al tempo stesso risultano molto utili ed efficaci per la difesa delle città, perché la pietra le preserva dagli incendi, il legno le difende dall'ariete, che non può spezzare o sconnettere le travi, unite in modo continuo all'interno per una lunghezza di quaranta piedi in genere.
Tutto ciò rendeva difficile l'assedio, ma i nostri, pur frenati continuamente dal freddo e dalle piogge incessanti, lavorarono senza sosta: superato ogni ostacolo, in venticinque giorni costruirono un terrapieno lungo trecentotrenta piedi e alto ottanta. L'opera raggiungeva quasi le mura nemiche; Cesare, come suo solito, vegliava sul luogo dei lavori e incitava i soldati a non fermarsi neppure per un istante. Ma ecco che poco prima di mezzanotte si vide uscire del fumo dal terrapieno: i nemici gli avevano dato fuoco da un cunicolo. Mentre da tutte le mura si levavano alte grida, i Galli contemporaneamente tentarono una sortita dalle due porte ai lati delle torri. Altri, dall'alto della cinta, lanciavano sul terrapieno fiaccole e legna secca, cospargendole di pece e di altre sostanze infiammabili: era ben difficile decidere dove dirigersi, dove recar aiuto. Tuttavia, per abitudine di Cesare, due legioni stavano sempre all'erta di fronte all'accampamento, mentre parecchie, a turno, continuavano i lavori. Così, rapidamente accadde che parte dei nostri tenesse testa ai nemici usciti dalla città, parte ritraesse le torri e scindesse il terrapieno, mentre il grosso dell'esercito presente al campo accorreva per estinguere l'incendio.
Si combatteva in ogni settore, quando era trascorsa ormai la parte restante della notte. Nei nemici, man mano, si rafforzava la speranza di vittoria, tanto più che vedevano i plutei delle torri distrutti dal fuoco e intuivano le difficoltà dei nostri, che dovevano uscire allo scoperto per portar soccorso. Forze fresche nemiche, via via, davano il cambio a chi era stanco, ed erano convinti che tutte le sorti della Gallia dipendessero da quel frangente. Allora, sotto i nostri occhi, accadde un fatto degno di ricordo, che crediamo di non dover tacere. Davanti a una porta della città, un Gallo scagliava in direzione di una torre palle di sego e pece passate di mano in mano: trafitto al fianco destro dal dardo di uno scorpione, cadde senza vita. Uno dei più vicini scavalcò il compagno morto e ne prese il posto. Quando anch'egli, allo stesso modo, cadde colpito dallo scorpione, gli subentrò un terzo, e al terzo un quarto. I difensori non abbandonarono quella posizione fino a che, estinto l'incendio sul terrapieno e respinto il loro attacco in tutto quel settore, la battaglia non ebbe termine.
I Galli le provarono tutte, ma senza successo: il giorno seguente decisero di evacuare la città, su consiglio e ordine di Vercingetorige. Speravano che la manovra non costasse loro gravi perdite, se tentata nel silenzio della notte: il campo di Vercingetorige, infatti, non era lontano dalla città, e una palude, che si frapponeva interminabile, ritardava l'inseguimento dei Romani. Già si apprestavano di notte alla ritirata, quando all'improvviso le madri di famiglia scesero nelle strade, si gettarono in lacrime ai piedi dei loro e li scongiurarono con preghiere d'ogni sorta di non abbandonare alla ferocia nemica loro stesse e i figli comuni, che non potevano fuggire, deboli com'erano per il sesso o l'età. Quando videro che gli uomini non recedevano dalla decisione - in caso di pericolo estremo, in genere, il timore non lascia spazio alla compassione - cominciarono a gridare e a segnalare ai Romani la fuga. I Galli, preoccupati che la cavalleria romana li prevenisse e occupasse le strade, rinunciarono al loro proposito.
Il giorno successivo, quando Cesare aveva già spinto in avanti una torre e raddrizzato il terrapieno che aveva cominciato a costruire, si abbatté un violento acquazzone. Cesare la considerò una circostanza favorevole per risolversi ad attaccare, poiché vedeva le sentinelle nemiche disposte sulle mura con minor cautela. Così, ai suoi diede ordine di rallentare leggermente i lavori e mostrò loro che cosa dovevano fare. Di nascosto preparò le legioni al di qua delle vinee, le esortò a raccogliere una buona volta, dopo tante fatiche, il frutto della vittoria, promise ricompense per i primi che avessero scalato le mura e diede il segnale ai soldati. I nostri si lanciarono repentinamente all'attacco da tutti i lati e in breve si riversarono sulle mura.
I nemici, atterriti dall'attacco improvviso, furono scacciati dalle mura e dalle torri. Si attestarono nel foro e nelle zone più aperte, disponendosi a cuneo, decisi ad affrontare in uno scontro regolare i nostri, se fossero venuti avanti. Quando videro che nessuno scendeva in campo aperto (anzi, i nostri li circondavano lungo tutto il muro di cinta), temendo di perdere ogni via di scampo, gettarono le armi e si slanciarono verso le parti estreme della città, senza mai fermarsi. Qui, chi si accalcava per via delle porte strette, venne ucciso dai legionari; gli altri, già usciti, furono massacrati dai cavalieri. Ma nessuno dei nostri pensò al bottino. Aizzati dalla strage di Cenabo e dalla fatica dell'assedio, non risparmiarono né i vecchi, né le donne, né i bambini. Insomma, del numero totale dei nemici, circa quarantamila, appena ottocento, che ai primi clamori fuggirono dalla città, raggiunsero salvi Vercingetorige. Costui li accolse a notte fonda, in silenzio, perché temeva che il loro arrivo al campo e la compassione della folla provocassero una sedizione. Dispose lontano, lungo la via, i compagni d'arme e i principi dei vari popoli, con l'incarico di smistarli e di condurli dai loro, nelle zone del campo assegnate a ciascuna gente fin dall'inizio.
L'indomani, convocata l'assemblea, li consola ed esorta a non perdersi affatto d'animo, a non lasciarsi turbare dalla sconfitta. I Romani non avevano vinto né col valore, né in campo aperto, ma solo grazie a una certa loro abilità e perizia nell'arte dell'assedio, di cui i Galli erano inesperti. Era in errore chi in guerra si aspettava solo successi. Non era mai stato fautore della difesa di Avarico, loro stessi ne erano testimoni. L'imprudenza dei Biturigi e l'eccessiva compiacenza degli altri avevano portato alla sconfitta. Tuttavia, vi avrebbe posto rimedio ben presto, con successi più importanti. Infatti, sarebbe stata sua cura guadagnare alla causa i popoli che dissentivano dagli altri Galli e formare un consiglio unico di tutto il paese, alla cui unità d'intenti non avrebbe potuto resistere neppure il mondo intero. Ed era ormai cosa fatta. Ma per la salvezza comune era giusto, intanto, che si decidessero a fortificare il campo, per resistere con maggior facilità ai repentini attacchi dei nemici.
Il discorso non riuscì sgradito ai Galli, soprattutto perché Vercingetorige non si era abbattuto dopo un rovescio così grave, non si era rintanato, né sottratto alla vista della gente. Si pensava che sapesse prevedere e presentire nell'animo più degli altri, perché, quando le cose non erano ancora compromesse, aveva prima consigliato di incendiare Avarico, poi di evacuarla. E come gli insuccessi indeboliscono il prestigio degli altri comandanti, così al contrario, dopo la sconfitta, la dignità di Vercingetorige cresceva di giorno in giorno. Al contempo, si sperava nella sua garanzia circa l'alleanza con gli altri popoli. Allora, per la prima volta, i Galli cominciarono a fortificare l'accampamento: uomini non avvezzi alle fatiche, si erano convinti a tal punto, da credere di dover ubbidire a qualsiasi ordine.
E non meno di quanto avesse garantito, Vercingetorige rivolgeva ogni suo pensiero a come unire a sé i rimanenti popoli e ne allettava i capi con doni e promesse. Sceglieva persone adatte allo scopo, ciascuna capace di guadagnarli alla causa con la massima facilità, o grazie alla sottile eloquenza o per ragioni d'amicizia. Rifornisce di armi e vestiti i reduci di Avarico. Al tempo stesso, per ricompletare i ranghi dopo le perdite subite, esige dai vari popoli un determinato contingente di soldati, ne fissa l'entità e la data di consegna. Ordina il reclutamento e l'invio di tutti gli arcieri, numerosissimi in Gallia. Con tali misure, in breve rimedia alle perdite di Avarico. Nel frattempo, il re dei Nitiobrogi, Teutomato, figlio di Ollovicone, che aveva ricevuto dal nostro senato il titolo di amico, raggiunge Vercingetorige con una forte cavalleria e truppe assoldate in Aquitania.
Cesare si trattenne diversi giorni ad Avarico: vi trovò grano e viveri in abbondanza e lasciò che l'esercito si riprendesse dalla fatica e dalle privazioni. L'inverno era ormai quasi finito, la stagione stessa invitava alle operazioni militari: Cesare aveva già deciso di puntare sul nemico, nel tentativo di stanarlo dalle paludi e dalle selve oppure di stringerlo d'assedio. Ma ecco che, in veste di ambasciatori, i principi degli Edui gli si presentano e lo pregano di soccorrere il loro popolo nell'ora più grave. La situazione era assai critica: mentre la consuetudine, fin dai tempi antichi, voleva che un unico magistrato fosse eletto e rivestisse la potestà regale per un anno, adesso due persone ricoprivano tale carica e ciascuno sosteneva che la propria nomina era conforme alle leggi. L'uno era Convictolitave, giovane ricco e nobile, l'altro Coto, persona di antichissima stirpe, lui pure assai potente, che vantava molti legami di parentela, il cui fratello, Valeziaco, aveva rivestito la stessa magistratura l'anno precedente. Tutti gli Edui avevano impugnato le armi, diviso era il senato, diviso il popolo, come pure i clienti dei due rivali. Se il contrasto si fosse protratto, si arrivava alla guerra civile. Impedirlo dipendeva dallo zelo e dal prestigio di Cesare.
Cesare, sebbene stimasse dannoso rinviare lo scontro e allontanarsi dal nemico, ritenne tuttavia necessario dar la precedenza alla questione edua, ben conscio di quanti danni siano soliti derivare da tali dissensi: non voleva che un popolo tanto importante e così legato a Roma, da lui stesso sempre favorito e fregiato di ogni onore, giungesse alla guerra civile e che il partito che si sentiva meno forte chiedesse aiuto a Vercingetorige. Poiché le leggi edue non permettevano al magistrato in carica di lasciare il paese, Cesare decise di recarsi di persona nelle loro terre, per evitare l'impressione che intendesse calpestarne il diritto o le leggi. Convocò a Decezia il senato al completo e i due responsabili della controversia. Lì si raccolsero pressoché tutti i notabili edui e gli notificarono che Coto era stato nominato da suo fratello nel corso di un concilio segreto. con pochi partecipanti, al di fuori dei luoghi e dei tempi dovuti, mentre le leggi prescrivevano che nessuno poteva essere eletto magistrato e neppure ammesso in senato, se un membro della sua famiglia aveva ricoperto la carica ed era ancora in vita. Allora Cesare costrinse Coto a deporre il comando e ordinò che assumesse il potere Convictolitave, che era stato designato dai sacerdoti secondo le usanze edue, quando la magistratura era vacante.
Dopo tale decreto, esortò gli Edui a dimenticare contrasti e dissensi e a lasciare tutto da parte, li invitò a occuparsi della guerra in corso e ad attendersi i premi che si fossero meritati, una volta piegata la Gallia. Chiese il rapido invio di tutta la cavalleria e di diecimila fanti, che avrebbe disposto a difesa delle provviste di grano. Divise in due contingenti l'esercito: quattro legioni le affidò a Labieno per condurle nelle terre dei Senoni e dei Parisi, sei le guidò personalmente nella regione degli Arverni, verso Gergovia, seguendo il corso dell'Allier. Parte della cavalleria la concesse a Labieno, parte la tenne con sé. Appena lo seppe, Vercingetorige distrusse tutti i ponti e cominciò a marciare sulla sponda opposta.
I due eserciti rimanevano l'uno al cospetto dell'altro, ponevano i campi quasi dirimpetto. La sorveglianza degli esploratori nemici impediva ai Romani di costruire in qualche luogo un ponte per varcare il fiume. Cesare correva il rischio di rimanere bloccato dal fiume per la maggior parte dell'estate, in quanto l'Allier non consente con facilità il guado prima dell'autunno. Così, per evitare tale evenienza, pose il campo in una zona boscosa, dinnanzi a uno dei ponti distrutti da Vercingetorige; il giorno seguente si tenne nascosto con due legioni. Le altre truppe, con tutte le salmerie, ripresero il cammino secondo il solito, ma alcune coorti vennero frazionate perché sembrasse inalterato il numero delle legioni. Ad esse comandò di protrarre la marcia il più possibile: a tarda ora, supponendo che le legioni si fossero accampate, intraprese la ricostruzione del ponte, utilizzando gli stessi piloni rimasti intatti nella parte inferiore. L'opera venne rapidamente realizzata e le legioni furono condotte sull'altra sponda. Scelse una zona adatta all'accampamento e richiamò le rimanenti truppe. Vercingetorige, informato dell'accaduto, per non trovarsi costretto a dar battaglia contro la sua volontà, le precedette e si allontanò a marce forzate.
Da lì Cesare raggiunse Gergovia in cinque tappe. Quel giorno stesso, dopo una scaramuccia di cavalleria, studiò la posizione della città, che si ergeva su un monte altissimo ed era di difficile accesso. Disperando di poterla prendere d'assalto, decise di non stringerla d'assedio prima di aver pensato alle scorte di grano. Vercingetorige, invece, aveva stabilito il campo nei pressi della città sul fianco del monte, disponendo tutt'attorno, a breve intervallo, le truppe dei vari popoli, distinte. Aveva occupato, per quanto si poteva vedere, tutte le cime del monte e offriva uno spettacolo raccapricciante. I capi delle varie genti, da lui scelti come consiglieri, avevano il compito di presentarsi quotidianamente, all'alba, per eventuali comunicazioni o consegne. E non lasciava passare giorno, o quasi, senza attaccar battaglia con la cavalleria e gli arcieri in mezzo a essa, per misurare il coraggio e il valore di ciascuno dei suoi. Di fronte alla città, proprio ai piedi del monte, sorgeva un colle ben munito, con tutti i lati a strapiombo. Se i nostri l'avessero preso, avrebbero sottratto ai nemici, così almeno sembrava, la maggior parte delle fonti d'acqua e la possibilità di foraggiarsi liberamente. Ma il colle era tenuto da una salda guarnigione nemica. Tuttavia, Cesare uscì dal campo nel silenzio della notte e, prima che dalla città potessero giungere rinforzi, mise in fuga il presidio nemico e occupò il colle. Vi alloggiò due legioni e scavò una coppia di fosse parallele, larghe dodici piedi, che collegavano l'accampamento maggiore con il minore: così, anche singoli uomini avrebbero potuto spostarsi dall'uno all'altro al sicuro da improvvisi attacchi nemici.
Mentre a Gergovia le cose andavano così, l'eduo Convictolitave, al quale Cesare - l'abbiamo detto - aveva assegnato la magistratura, si lascia corrompere dal denaro degli Arverni e si accorda con alcuni giovani, capeggiati da Litavicco e dai suoi fratelli, rampolli di stirpe assai nobile. Divide con loro la somma ricevuta e li esorta a ricordarsi che sono uomini liberi, nati per il comando. Gli Edui erano gli unici a ritardare l'indubbia vittoria della Gallia; la loro autorità frenava le altre genti; ma se avessero cambiato partito, i Romani non avrebbero più avuto modo di rimanere in Gallia. Cesare, è vero, gli aveva reso un grande beneficio, ma non aveva fatto altro che riconoscere l'assoluta legittimità delle sue ragioni. Del resto, la libertà comune era per lui più importante. Perché mai gli Edui, per il loro diritto e le loro leggi, dovevano ricorrere al giudizio di Cesare, e non piuttosto i Romani alla sentenza degli Edui? I giovani vengono ben presto catturati dalle parole del magistrato e dal denaro: pur dichiarandosi addirittura pronti a prendere l'iniziativa, cercavano un piano d'azione, perché erano sicuri di non poter indurre gli Edui alla guerra senza un motivo. Si decise di porre Litavicco a capo dei diecimila uomini da inviare a Cesare, con l'incarico di guidarli; i suoi fratelli avrebbero raggiunto Cesare prima di lui. Mettono a punto il piano in tutti gli altri particolari.
Litavicco assume il comando dell'esercito. A un tratto, a circa trenta miglia da Gergovia, convoca i suoi: 'Dove andiamo, soldati?' dice tra le lacrime. 'Tutti i nostri cavalieri, tutti i nobili sono caduti. I capi, Eporedorige e Viridomaro, accusati di tradimento dai Romani, sono stati messi a morte senza neppure un processo. Ma sentitelo da costoro, che sono scampati al massacro: i miei fratelli e tutti i miei parenti sono morti, il dolore mi impedisce di narrarvi l'accaduto'. Si fanno avanti alcune persone già istruite su cosa dire. Ripetono alla massa dei soldati gli stessi discorsi di Litavicco: i cavalieri edui erano stati trucidati, li si accusava di una presunta complicità con gli Arverni; loro si erano nascosti nel folto del gruppo e avevano preso la fuga proprio nel bel mezzo della strage. Gli Edui levano alte grida, supplicano Litavicco di prendersi cura di loro. 'C'è forse bisogno di decidere?' risponde. 'Non dobbiamo forse dirigerci a Gergovia e unirci agli Averni? Oppure dubitiamo che i Romani, dopo il loro empio crimine, esitino a gettarsi su di noi e a massacrarci? Perciò, se ancora in noi è rimasto del coraggio, vendichiamo la morte dei nostri, trucidati nel modo più indegno, uccidiamo questi ladroni', e indica alcuni cittadini romani che, fidando nella sua protezione. erano al suo seguito. Saccheggia frumento e viveri in quantità, uccide i cittadini romani tra crudeli tormenti. Invia messi in tutta la regione edua, solleva il popolo sempre con la falsa notizia della strage dei cavalieri e dei principi. Esorta a seguire il suo esempio e a vendicare le ingiurie.
Su specifica richiesta di Cesare, si erano uniti alla cavalleria l'eduo Eporedorige, giovane di alto lignaggio e di grande potenza tra i suoi, e Viridomaro, altrettanto giovane e influente, ma di diversi natali, che Cesare, dietro suggerimento di Diviziaco, aveva innalzato alle cariche più alte nonostante le sue umili origini. I due lottavano per il primato tra gli Edui, e durante la recente controversia per la magistratura si erano battuti con ogni mezzo l'uno per Convictolitave, l'altro per Coto. Eporedorige, quando scopre il piano di Litavicco, lo riferisce a Cesare verso mezzanotte. Lo supplica di non permettere agli Edui di venir meno all'alleanza con il popolo romano per colpa dei perfidi piani di alcuni giovani, lo prega di tener conto delle conseguenze, se tante migliaia di uomini si fossero unite ai nemici: la loro sorte non avrebbe lasciato indifferenti i loro cari, né il popolo poteva stimarla cosa di poco conto.
La notizia desta viva preoccupazione in Cesare, perché aveva sempre nutrito una benevolenza particolare nei confronti degli Edui. Senza alcun indugio guida fuori dall'accampamento quattro legioni prive di bagagli e la cavalleria al completo. In quel frangente non si ebbe il tempo di restringere il campo: l'esito dell'azione sembrava dipendere dalla rapidità. A presidio dell'accampamento lascia il legato C. Fabio con due legioni. Ordina di imprigionare i fratelli di Litavicco, ma viene a sapere che poco prima erano fuggiti presso i nemici. Esorta i soldati a non sgomentarsi, in un momento così critico, per le fatiche della marcia: tra il fervore generale avanza di venticinque miglia e avvista la schiera degli Edui. Manda in avanti la cavalleria e rallenta la loro avanzata, ma dà ordine tassativo di non uccidere nessuno. A Eporedorige e Viridomaro, che gli Edui credevano morti, comanda di rimanere tra i cavalieri e di chiamare i loro. Appena riconoscono i capi e comprendono l'inganno di Litavicco, gli Edui cominciano a tendere le mani in segno di resa, a gettare le armi, a implorare la grazia. Litavicco con i suoi clienti - secondo i costumi dei Galli non è lecito abbandonare i patroni neppure nei momenti più gravi - ripara a Gergovia.
Agli Edui Cesare invia messi per spiegare che per suo beneficio risparmiava i loro, mentre avrebbe potuto farne strage secondo il diritto di guerra. Di notte concede all'esercito tre ore di riposo, poi muove il campo verso Gergovia. Quando aveva percorso circa metà del cammino, i cavalieri inviati da C. Fabio gli espongono quali pericoli abbia corso il campo. I nemici - illustrano - l'avevano attaccato in forze: truppe fresche davano continuamente il cambio a chi era stanco, i nostri erano spossati dalla fatica che non conosceva pause, perché le dimensioni dell'accampamento li costringevano a rimanere sempre sul vallo. Molti erano stati colpiti dai nugoli di frecce e proiettili d'ogni tipo scagliati dai nemici; per resistere all'attacco, erano state di grande utilità le macchine da lancio. Quando il nemico si era allontanato, Fabio aveva barricato tutte le porte tranne due e aggiunto plutei al vallo, preparandosi a un identico assalto per il giorno successivo. Conosciuta la situazione, Cesare, grazie allo straordinario impegno dei soldati, raggiunge l'accampamento prima dell'alba.
Mentre a Gergovia tale era la situazione, gli Edui, alle prime notizie di Litavicco, non perdono neppure un istante a sincerarsene. Chi spinto dall'avidità, chi dall'iracondia e dall'avventatezza - è la loro caratteristica congenita - tutti danno per sicura una voce priva di fondamento. Saccheggiano i beni dei cittadini romani, ne fanno strage, li rendono schiavi. Convictolitave dà l'ultima spinta a una situazione già in bilico, aizza la folla, perché, una volta commesso il crimine, la vergogna le impedisca di ritornare alla ragione. M. Aristio, tribuno militare, era in marcia verso la legione: gli promettono via libera e lo lasciano uscire dalla città di Cavillono. Con lui costringono alla partenza anche chi si era lì stabilito per commercio. Appena i nostri si mettono in marcia, però, li assalgono e li spogliano di tutti i bagagli. I nostri si difendono, vengono assediati giorno e notte. Quando le perdite erano già molte da entrambe le parti, i Galli chiamano alle armi una folla più numerosa.
Nel frattempo, giunge notizia che tutte le truppe edue sono sotto l'autorità di Cesare: corrono da Aristio, gli spiegano che l'accaduto non dipendeva certo da una delibera ufficiale. Aprono un'inchiesta sul saccheggio, confiscano i beni di Litavicco e dei suoi fratelli, inviano una legazione a Cesare per discolparsi. Si comportano così nel tentativo di recuperare le proprie truppe, ma, macchiati dalla colpa commessa e trattenuti dai guadagni del saccheggio - molti ne erano coinvolti - e anche per timore di una punizione, assumono segretamente iniziative per riprendere la guerra e sobillano gli altri popoli mediante ambascerie. Anche se lo intuiva, Cesare tuttavia si rivolge agli emissari edui con le parole più miti possibili: per via dell'incoscienza e della leggerezza del popolo non voleva pronunciare una condanna troppo dura nei confronti degli Edui, né intendeva diminuire la sua benevolenza verso di loro. Cesare, in effetti, si aspettava una più grave sollevazione della Gallia e, per non trovarsi circondato da tutti i popoli, stava valutando come lasciare Gergovia e riunire nuovamente l'esercito, ma cercava di evitare che il suo ripiegamento, dettato dal timore di una defezione, sembrasse una fuga.
Mentre era immerso in tali pensieri, gli parve presentarsi un'occasione favorevole. Infatti, quando giunse al campo minore per ispezionare i lavori, notò che un colle, prima in mano nemica, era adesso sguarnito, mentre nei giorni precedenti lo si poteva appena scorgere, tanti erano i soldati che lo presidiavano. La cosa lo colpì e ne chiese spiegazione ai disertori, che ogni giorno arrivavano al nostro campo in gran numero. Da tutti risultava che, come Cesare già sapeva dagli esploratori, il dorso del colle era quasi in piano, ma stretto e pieno di vegetazione nella parte che conduceva dall'altro lato della città. I Galli nutrivano forti apprensioni per questo punto e sapevano bene che si sarebbero visti praticamente circondati, con ogni via d'uscita preclusa e i foraggiamenti tagliati, se i Romani, già padroni di un colle, avessero preso anche quest'altro. Quindi Vercingetorige aveva chiamato tutti a munire la zona.
Saputo ciò, Cesare verso mezzanotte invia sul luogo vari squadroni di cavalleria. Comanda di compiere scorrerie dappertutto, producendo un po' più rumore del solito. All'alba fa uscire dal campo un gran numero di bagagli e muli, ai mulattieri ordina di togliere il basto ai loro animali e di mettersi l'elmo: fingendosi cavalieri, avrebbero dovuto aggirare il colle. Invia con essi pochi cavalieri veri, che avevano l'incarico di spingersi più lontano a scopo di simulazione. A tutti, poi, dà istruzione di convergere su un unico punto dopo un lungo giro. Le nostre manovre venivano scorte dalla città, perché da Gergovia la vista dava proprio sul nostro accampamento, ma a tale distanza non era possibile comprendere che cosa stesse accadendo con esattezza. Invia una legione verso il colle e, dopo un certo tratto, la ferma ai piedi del rialzo e la tiene nascosta tra la vegetazione. I sospetti dei Galli aumentano, mandano tutte le truppe ai lavori di fortificazione. Cesare, appena vede il campo nemico sguarnito, guida i soldati dal campo maggiore al minore, a piccoli gruppi, ordinando di non applicare i fregi e di tener nascoste le insegne, per non essere scorti dalla città. Ai legati preposti alle varie legioni spiega come dovevano agire: primo, li ammonisce a tenere a freno i soldati, che non si allontanassero troppo per desiderio di lotta o speranza di bottino; illustra gli svantaggi della posizione; li si poteva eludere solo con la rapidità; si trattava di un colpo di mano, non di una battaglia. Detto ciò, dà il segnale e, al contempo, ordina agli Edui di sferrare l'attacco da un altro lato, sulla destra.
Le mura della città distavano dalla pianura e dall'inizio della salita milleduecento passi in linea retta, se non ci fosse stata di mezzo nessuna tortuosità. E tutte le curve che si aggiungevano per attenuare la salita, aumentavano la distanza. Sul colle, a mezza altezza, i Galli avevano costruito in senso longitudinale un muro di grosse pietre, alto sei piedi, che assecondava la natura del monte e aveva lo scopo di frenare l'assalto dei nostri. Tutta la zona sottostante era stata evacuata, mentre nella parte superiore, fin sotto le mura della città, i Galli avevano posto fittissime le tende del loro campo. Al segnale i legionari raggiungono rapidamente il muro, lo superano e conquistano tre accampamenti. L'azione fu così rapida, che Teutomato, re dei Nitiobrogi, sorpreso ancora nella tenda durante il riposo pomeridiano, a stento riuscì a sfuggire ai nostri in cerca di bottino, mezzo nudo, dopo che anche il suo cavallo era stato colpito.
Raggiunto lo scopo prefisso, Cesare ordinò di suonare la ritirata, si fermò e tenne l'arringa alla decima legione, che era al suo seguito. I soldati delle altre legioni, invece, pur non avendo udito il suono della tromba, perché si frapponeva una valle abbastanza estesa, erano comunque trattenuti dai tribuni militari e dai legati, secondo gli ordini di Cesare. Trascinati, però, dalla speranza di una rapida vittoria, dalla fuga dei nemici e dai successi precedenti, pensarono che non vi fosse impresa impossibile per il loro valore. Così, non cessarono l'inseguimento finché non ebbero raggiunto le mura e le porte della città. A quel punto, da tutte le zone della città si levano alti clamori: i Galli che si erano spinti più lontano, atterriti dal tumulto improvviso, pensando che il nemico fosse entro le porte, si lanciarono fuori dalla città. Dalle mura le madri di famiglia gettavano vesti e oggetti d'argento, a petto nudo si sporgevano e con le mani protese scongiuravano i Romani di risparmiarle, di non massacrare donne e bambini, come invece era accaduto ad Avarico. Alcune, calate giù dalle altre a forza di braccia, si consegnavano ai nostri soldati. Quel giorno stesso, a quanto constava, L. Fabio, centurione dell'ottava legione, aveva detto ai suoi che lo riempiva d'ardore il bottino di Avarico e che non avrebbe tollerato che un altro scalasse le mura prima di lui. Infatti, con l'aiuto di tre soldati del suo manipolo salì sulle mura; poi lì afferrò per mano uno a uno e, a sua volta li sollevò.
Nel frattempo, i nemici confluiti nella parte opposta della città per i lavori di fortificazione, come abbiamo illustrato, ai primi clamori e alle insistenti notizie che volevano la città caduta, lanciano in avanti la cavalleria e accorrono in massa. Ciascuno di loro, come arrivava, si piazzava ai piedi delle mura e infoltiva la schiera dei suoi. Quando si era radunato un gruppo consistente, le madri di famiglia, che dalle mura poco prima tendevano le mani verso i nostri, cominciarono a scongiurare i loro, a sciogliersi i capelli secondo l'uso gallico, a mostrare i figli. I Romani non combattevano a parità di condizioni, né per posizione, né per numero. Inoltre, stanchi per la corsa e la durata dello scontro, reggevano con difficoltà agli avversari freschi e riposati.
Cesare si rese conto che la posizione era svantaggiosa e che le truppe nemiche continuavano ad aumentare. Allora, in apprensione per i suoi, inviò al legato T. Sestio, rimasto a presidio del campo minore, l'ordine di far uscire rapidamente le sue coorti e di schierarle sul fianco destro del nemico, ai piedi del colle: se i nostri venivano respinti, doveva atterrire il nemico per rendergli difficile l'inseguimento. Rispetto al luogo in cui si era fermato, Cesare aveva guidato la legione leggermente più avanti e attendeva l'esito della battaglia.
Si combatteva corpo a corpo, con asprezza: i nemici confidavano nella posizione e nel numero, i Romani nel valore. All'improvviso comparvero sul nostro fianco scoperto gli Edui, inviati da Cesare sulla destra per dividere le truppe nemiche. Al loro arrivo, la somiglianza delle armi galliche seminò il panico tra i nostri, che avevano sì visto il braccio destro scoperto, segno convenzionale di riconoscimento, ma pensavano che si trattasse di una mossa nemica per ingannarli. Al tempo stesso, il centurione L. Fabio e i soldati che avevano scalato con lui la cinta, circondati e uccisi, vengono precipitati dalle mura. M. Petronio, centurione della stessa legione, mentre tentava di abbattere le porte, fu sopraffatto da una massa di nemici. Ferito a più riprese, senza ormai speranza di salvezza, gridò ai soldati del suo manipolo, che lo avevano seguito: 'Non posso salvarmi insieme a voi, ma voglio almeno preoccuparmi della vostra vita, io che vi ho messo in pericolo per sete di gloria. Ne avete la possibilità, pensate a voi stessi'. E subito si lanciò all'attacco nel folto dei nemici, ne uccise due e allontanò alquanto gli altri dalla porta. Ai suoi che cercavano di corrergli in aiuto, disse: 'Tentate invano di soccorrermi, perdo troppo sangue e mi mancano le forze. Perciò fuggite, finché ne avete modo, raggiungete la legione'. Poco dopo cadde, con le armi in pugno, ma fu la salvezza dei suoi.
I nostri, pressati da ogni lato, vennero respinti e persero quarantasei centurioni. Ma i Galli che si erano lanciati all'inseguimento con troppa foga, li frenò la decima legione, che era schierata di rincalzo in una zona un po' più pianeggiante. A sua volta, la decima ricevette sostegno dalle coorti della tredicesima, che aveva lasciato il campo minore con il legato T. Sestio e si era attestata su un rialzo. Le legioni, non appena raggiunsero la pianura, volsero le insegne contro il nemico e presero posizione. Vercingetorige chiamò entro le fortificazioni i suoi, che si erano spinti fino ai piedi del colle. Quel giorno le nostre perdite sfiorarono i settecento uomini.
L'indomani Cesare ordinò l'adunata e rimproverò l'avventatezza e la smania dei soldati: da soli avevano giudicato fin dove si doveva avanzare o come bisognava agire, non si erano fermati al segnale di ritirata, né i tribuni militari, né i legati erano riusciti a trattenerli. Spiegò quale peso avesse un luogo svantaggioso e quali erano state le sue considerazioni ad Avarico, quando, pur avendo sorpreso i nemici privi di comandante e di cavalleria, aveva rinunciato a una vittoria sicura per evitare anche il minimo danno nello scontro, e tutto perché la posizione era sfavorevole. E quanto ammirava il loro coraggio - né le fortificazioni dell'accampamento, né l'altezza dei monte, né le mura della città erano valsi a frenarli - tanto biasimava la loro insubordinazione e arroganza, perché credevano di saper valutare circa la vittoria e l'esito dello scontro meglio del comandante. Da un soldato esigeva modestia e disciplina non meno che valore e coraggio.
Tenuto questo discorso, nella parte finale rinfrancò i soldati: non dovevano turbarsi nell'animo per la sconfitta, né ascrivere al valore nemico ciò che dipendeva solo dagli svantaggi del campo di battaglia. E benché pensasse alla partenza, già prima considerata opportuna, guidò fuori dal campo le legioni e le schierò in un luogo adatto. Vercingetorige, non di meno, continuava a tenersi all'interno delle fortificazioni e non scendeva in pianura. Allora Cesare, dopo una scaramuccia tra le cavallerie, in cui riportò la meglio, ricondusse l'esercito all'accampamento. Il giorno seguente si ripeté la stessa cosa. Cesare, convinto di aver fatto quanto bastava per sminuire la baldanza dei Galli e rinfrancare il morale dei nostri soldati, mosse il campo verso il territorio degli Edui. Neppure allora i nemici si mossero all'inseguimento. Il terzo giorno ricostruì i ponti sull'Allier e condusse l'esercito sull'altra sponda.
Qui, gli edui Viridomaro ed Eporedorige gli chiedono un colloquio e lo mettono al corrente che Litavicco era partito con tutta la cavalleria alla volta degli Edui per istigarli alla rivolta: occorreva che loro stessi lo precedessero e rientrassero in patria per tenere a bada il popolo. Cesare aveva già ricevuto molte prove della perfidia degli Edui e pensava che la loro partenza avrebbe accelerato lo scoppio dell'insurrezione, tuttavia decise di non trattenerli, per non dare l'idea di voler recare offese o di nutrire timori. Prima della partenza, ai due illustrò i suoi meriti nei confronti degli Edui: chi erano, quanto erano deboli quando li aveva accolti sotto la sua protezione, costretti a barricarsi nelle città, con i campi confiscati, privi di tutte le truppe, costretti a pagare un tributo e a consegnare ostaggi, offesa gravissima; per contro, ricordò loro a quale prosperità e potenza li aveva poi condotti, non solo fino a recuperare il precedente stato, ma a raggiungere un grado di dignità e prestigio mai conosciuti in passato. Con tale incarico li congedò.
Novioduno era una città degli Edui sulle rive della Loira, in posizione favorevole. Qui Cesare aveva raccolto tutti gli ostaggi della Gallia, il grano, il denaro pubblico, gran parte dei bagagli suoi e dell'esercito, qui aveva inviato molti cavalli acquistati in Italia e in Spagna per la guerra in corso. Eporedorige e Viridomaro, non appena arrivarono a Novioduno e seppero come andavano le cose tra gli Edui (avevano accolto Litavicco a Bibracte, la loro città più importante; il magistrato Convictolitave e la maggior parte del senato lo aveva raggiunto; a titolo ufficiale erano stati inviati emissari a Vercingetorige per trattare pace e alleanza), ritennero di non doversi lasciar sfuggire un'occasione simile. Perciò, eliminarono la guarnigione di Novioduno e i commercianti che lì risiedevano, si spartirono il denaro e i cavalli. Condussero a Bibracte, dal magistrato, gli ostaggi dei vari popoli e, giudicando di non poterla difendere, incendiarono la città, per impedire ai Romani di servirsene. Tutto il grano che lì per lì riuscirono a caricare sulle navi, lo trasportarono via, il resto lo gettarono in acqua o lo bruciarono. Intrapresero la raccolta di truppe dalle regioni limitrofe, disposero presidi e guarnigioni lungo la Loira, mentre la loro cavalleria compariva in ogni zona per incutere timore, nella speranza di tagliare ai Romani l'approvvigionamento di grano oppure di costringerli al ripiegamento in provincia, dopo averli condotti allo stremo. Ad alimentare le loro speranze contribuiva molto la Loira in piena per le nevi, al punto che sembrava proprio impossibile guadarla.
Appena ne fu informato, Cesare ritenne di dover accelerare i tempi: se proprio doveva correre il rischio di costruire ponti, voleva combattere prima che si radunassero lì truppe nemiche più consistenti. Infatti, nessuno giudicava inevitabile modificare i piani e ripiegare verso la provincia, neppure in quel frangente: oltre all'onta e alla vergogna, lo impedivano i monti Cevenne e le strade impraticabili, che sbarravano il cammino; ma, soprattutto, Cesare nutriva grande apprensione per Labieno lontano e le legioni al suo seguito. Perciò, forzando al massimo le tappe e marciando di giorno e di notte, giunge alla Loira contro ogni aspettativa. I cavalieri trovano un guado adatto, almeno per quanto le circostanze permettevano: restavano fuori dall'acqua solo le braccia e le spalle per tenere sollevate le armi. Dispone la cavalleria in modo da frangere l'impeto della corrente e guida sano e salvo l'esercito sull'altra sponda, col nemico atterrito alla nostra vista. Nelle campagne trova grano e una grande quantità di bestiame, con cui rifornisce in abbondanza l'esercito. Dopo comincia la marcia sui Senoni.
Mentre Cesare prendeva tali iniziative, Labieno lascia ad Agedinco, a presidio delle salmerie, i rinforzi recentemente giunti dall'Italia e punta su Lutezia con quattro legioni- Lutezia è una città dei Parisi che sorge su un'isola della Senna. Quando i nemici vengono a sapere del suo arrivo, raccolgono numerose truppe inviate dai popoli limitrofi. Il comando supremo viene conferito all'aulerco Camulogeno, persona ormai piuttosto anziana, chiamata a rivestire tale carica per la sua straordinaria perizia in campo militare. Camulogeno, avendo notato una palude interminabile, che alimentava la Senna e rendeva poco praticabile tutta la zona, vi si stabilì e si apprestò a sbarrare la strada ai nostri.
Labieno prima tentò di spingere in avanti le vinee, di riempire la palude con fascine e zolle e di costruirsi un passaggio. Quando capi che l'operazione era troppo difficile, dopo mezzanotte uscì in silenzio dall'accampamento e raggiunse Metlosedo per la stessa strada da cui era venuto. Metlosedo è una città dei Senoni che sorge su un'isola della Senna, come Lutezia, di cui si è detto. Cattura circa cinquanta navi, le collega rapidamente e imbarca i soldati. Gli abitanti (i pochi rimasti, perché la maggior parte era lontana in guerra) rimangono atterriti dall'evento improvviso: Labieno prende la città senza neppure combattere. Ricostruisce il ponte distrutto dai nemici nei giorni precedenti, guida l'esercito sull'altra sponda e punta su Lutezia, seguendo il corso del fiume. I nemici, avvertiti dai fuggiaschi di Metlosedo, ordinano di incendiare Lutezia e di distruggere i ponti della città. Abbandonano la palude e si attestano lungo le rive della Senna, davanti a Lutezia, proprio di fronte a Labieno.
Era già corsa voce della partenza di Cesare da Gergovia e giungevano notizie sulla defezione degli Edui e sui successi dell'insurrezione; nei loro abboccamenti, i Galli confermavano che Cesare si era trovato la strada sbarrata dalla Loira e che aveva ripiegato verso la provincia, costretto dalla mancanza di grano. I Bellovaci, poi, che già in passato di per sé non si erano dimostrati alleati fedeli, alla notizia della defezione degli Edui avevano cominciato la raccolta di truppe e scoperti preparativi di guerra. Allora Labieno, di fronte a un tale mutamento della situazione, capiva di dover prendere decisioni ben diverse dai suoi piani e non mirava più a riportare successi o a provocare il nemico a battaglia, ma solo a ricondurre incolume l'esercito ad Agedinco. Infatti, su un fronte incombevano i Bellovaci, che in Gallia godono fama di straordinario valore, sull'altro c'era Camulogeno con l'esercito pronto e schierato. Inoltre, un fiume imponente separava le legioni dal presidio e dalle salmerie. Con tante, improvvise difficoltà, vedeva che era necessario far ricorso a un atto di coraggio.
Verso sera convoca il consiglio di guerra e incita a eseguire gli ordini con scrupolo e impegno. Ciascuna delle navi portate da Metlosedo viene affidata a un cavaliere romano. Li incarica di discendere in silenzio, dopo le nove di sera, il fiume per quattro miglia e di attendere lì il suo arrivo. Lascia a presidio dell'accampamento le cinque coorti che riteneva meno valide per il combattimento. Alle altre cinque della stessa legione comanda di partire con tutti i bagagli dopo mezzanotte e di risalire il corso del fiume con molto baccano. Si procura anche zattere: spinte a forza di remi con grande frastuono, le invia nella stessa direzione. Dal canto suo, poco dopo lascia in silenzio il campo alla testa di tre legioni e raggiunge il punto dove le navi dovevano approdare.
Appena giungono, i nostri sopraffanno gli esploratori nemici - ce n'erano lungo tutto il fiume - cogliendoli alla sprovvista per lo scoppio di un violento temporale. Sotto la guida dei cavalieri romani preposti alle operazioni, l'esercito e la cavalleria passano velocemente sull'altra riva. Quasi nello stesso istante, verso l'alba, i nemici vengono informati che un tumulto insolito regnava nel campo romano e che una schiera numerosa risaliva il fiume, mentre nella stessa direzione si udivano colpi di remi e, un po' più in basso, altri soldati trasbordavano su nave. A tale notizia, i nemici si convincono che le legioni stavano varcando il fiume in tre punti e si apprestavano alla fuga, sconvolte dalla defezione degli Edui. Allora anch'essi suddivisero in tre reparti le truppe. Lasciarono un presidio proprio di fronte all'accampamento e inviarono verso Metlosedo un piccolo contingente, che doveva avanzare a misura di quanto procedevano le navi. Poi, guidarono il resto dell'esercito contro Labieno.
All'alba tutti i nostri avevano ormai varcato il fiume ed erano in vista della schiera nemica. Labieno esorta i soldati a ricordarsi dell'antico valore e delle loro grandissime vittorie, a far conto che fosse presente Cesare in persona, sotto la cui guida tante volte avevano battuto il nemico. Quindi, dà il segnale d'attacco. Al primo assalto, all'ala destra, dove era schierata la settima legione, il nemico viene respinto e costretto alla fuga; sulla sinistra, settore presidiato dalla dodicesima legione, le prime file dei Galli erano cadute sotto i colpi dei giavellotti, ma gli altri resistevano con estrema tenacia e nessuno dava segni di fuga. Il comandante nemico stesso, Camulogeno, stava al fianco dei suoi e li incoraggiava. E l'esito dello scontro era ancora incerto, quando ai tribuni militari della settima legione venne riferito come andavano le cose all'ala sinistra: la legione comparve alle spalle del nemico e si lanciò all'attacco. Nessuno dei Galli, neppure allora, abbandonò il proprio posto, ma tutti vennero circondati e uccisi. La stessa sorte toccò a Camulogeno. I soldati nemici rimasti come presidio di fronte al campo di Labieno, non appena seppero che si stava combattendo, mossero in aiuto dei loro e si attestarono su un colle, ma non riuscirono a resistere all'assalto dei nostri vittoriosi. Così, si unirono agli altri in fuga: chi non trovò riparo nelle selve o sui monti, venne massacrato dalla nostra cavalleria. Portata a termine l'impresa, Labieno rientra ad Agedinco, dove erano rimaste le salmerie di tutto l'esercito. Da qui, con tutte le truppe raggiunge Cesare.
Quando si viene a sapere della defezione degli Edui, la guerra divampa ancor più. Si inviano ambascerie ovunque: ogni risorsa a loro disposizione, che fosse il prestigio, l'autorità o il denaro, la impiegano per sollevare gli altri popoli. Sfruttano gli ostaggi lasciati da Cesare in loro custodia, minacciano di metterli a morte e, così, spaventano chi ancora esita. Gli Edui chiedono a Vercingetorige di raggiungerli per concertare una strategia comune. Ottenuto ciò, pretendono il comando supremo. La cosa sfocia in una controversia, viene indetto un concilio di tutta la Gallia a Bibracte. Arrivano da ogni regione, in gran numero. La questione è messa ai voti. Tutti, nessuno escluso, approvano Vercingetorige come capo. Al concilio non parteciparono i Remi, i Lingoni, i Treveri: i primi due perché rimanevano fedeli all'alleanza con Roma; i Treveri perché erano troppo distanti e pressati dai Germani, motivo per cui non parteciparono mai alle operazioni di questa guerra e non inviarono aiuti a nessuno dei due contendenti. Per gli Edui è un duro colpo la perdita del primato, lamentano il cambiamento di sorte e rimpiangono l'indulgenza di Cesare nei loro confronti. Ma la guerra era ormai iniziata, ed essi non osano separarsi dagli altri. Loro malgrado, Eporedorige e Viridomaro, giovani molto ambiziosi, obbediscono a Vercingetorige.
Vercingetorige impone ostaggi agli altri popoli e ne fissa la data di consegna. Ordina che tutti i cavalieri, in numero di quindicimila, lì si radunino rapidamente. Quanto alla fanteria, diceva, si sarebbe accontentato delle truppe che aveva già prima. Non avrebbe tentato la sorte o combattuto in campo aperto; aveva una grande cavalleria, era assai facile impedire ai Romani l'approvvigionamento di grano e foraggio; bastava che i Galli si rassegnassero a distruggere le proprie scorte e a incendiare le case: la perdita dei beni privati, lo vedevano anch'essi, significava autonomia e libertà perpetue. Dopo aver così deciso, agli Edui e ai Segusiavi, che confinano con la provincia, impone l'invio di diecimila fanti. Vi aggiunge ottocento cavalieri. Ne affida il comando al fratello di Eporedorige e gli ordina di attaccare gli Allobrogi. Sul versante opposto, contro gli Elvi manda i Gabali e le tribù di confine degli Arverni, mentre invia i Ruteni e i Cadurci a devastare le terre dei Volci Arecomici. Non di meno, con emissari clandestini e ambascerie sobilla gli Allobrogi, perché sperava che dall'ultima sollevazione i loro animi non si fossero ancora assopiti. Ai capi degli Allobrogi promette denaro, al popolo invece, il comando di tutta la provincia.
Per far fronte a ogni evenienza, i nostri avevano provveduto a disporre un presidio di ventidue coorti: arruolate nella provincia stessa dal legato L. Cesare, formavano uno sbarramento lungo tutto il fronte. Gli Elvi, scesi per proprio conto a battaglia con i popoli limitrofi, vengono respinti e sono costretti a rifugiarsi all'interno delle loro città e mura, dopo aver registrato gravi perdite: tra i tanti altri, era caduto C. Valerio Domnotauro, figlio di Caburo e loro principe. Gli Allobrogi dislocano parecchi presidi lungo il Rodano, sorvegliano con cura e attenzione i propri territori. Cesare capiva che la cavalleria nemica era superiore e che, con tutte le strade tagliate, non poteva contare su rinforzi dalla provincia e dall'Italia. Allora invia emissari oltre il Reno, in Germania, alle genti da lui sottomesse negli anni precedenti: chiede cavalleria e fanti armati alla leggera, abituati a combattere tra i cavalieri. Appena arrivano, Cesare, notando che montavano su cavalli non di razza, requisisce i destrieri dei tribuni militari, degli altri cavalieri romani e dei richiamati e li distribuisce ai Germani.
Nel frattempo, mentre accadevano tali fatti, giungono le truppe degli Arverni e i cavalieri che tutta la Gallia doveva fornire. Mentre raccoglievano, così, ingenti truppe, Cesare attraversa i più lontani territori dei Lingoni alla volta dei Sequani, allo scopo di portare aiuto con maggior facilità alla provincia. Vercingetorige si stabilisce a circa dieci miglia dai Romani, in tre distinti accampamenti. Convoca i comandanti della cavalleria e spiega che l'ora della vittoria è giunta: i Romani fuggivano in provincia, lasciavano la Gallia; al momento era sufficiente a ottenere la libertà, ma per il futuro non garantiva pace e quiete; i Romani avrebbero raccolto truppe più consistenti, sarebbero ritornati, non avrebbero posto fine alla guerra. Perciò bisognava attaccarli in marcia, quando erano impacciati dai bagagli. Se i legionari soccorrevano gli altri e si attardavano, non potevano proseguire la marcia; se abbandonavano le salmerie e pensavano a salvare la vita - e sarebbe andata così, ne era certo - perdevano ogni bene di prima necessità e, insieme, l'onore. Quanto ai cavalieri nemici, nessuno avrebbe osato nemmeno uscire dallo schieramento, non c'era dubbio. E perché muovessero all'attacco con maggior ardimento, avrebbe tenuto dinnanzi al campo tutte le truppe e atterrito il nemico. I cavalieri galli acclamano: bisognava giurare solennemente che si negava un tetto e la possibilità di avvicinare figli, genitori o moglie a chi, sul proprio cavallo, non attraversava per due volte le linee nemiche.
La proposta viene approvata e tutti prestano giuramento. Il giorno seguente dividono la cavalleria in tre gruppi: due compaiono sui fianchi del nostro schieramento, la terza comincia a contrastarci il passo all'avanguardia. Appena glielo comunicano, Cesare divide la cavalleria in tre parti e ordina di affrontare il nemico. Si combatteva contemporaneamente in ogni settore. L'esercito si ferma, le salmerie vengono raccolte in mezzo alle legioni. Se in qualche zona i nostri sembravano in difficoltà o troppo alle strette, lì Cesare ordinava di muovere all'attacco e di formare la linea. La manovra ritardava l'inseguimento nemico e rinfrancava i nostri con la speranza del sostegno. Alla fine, i Germani all'ala destra respingono i nemici, sfruttando un alto colle: inseguono i fuggiaschi sino al fiume, dove Vercingetorige si era attestato con la fanteria, e ne uccidono parecchi. Appena se ne accorgono, gli altri si danno alla fuga, temendo l'accerchiamento. È strage ovunque. Tre Edui di stirpe assai nobile vengono catturati e condotti a Cesare: Coto, il comandante della cavalleria. che aveva avuto nell'ultima elezione un contrasto con Convictolitave; Cavarillo, preposto alla fanteria dopo la defezione di Litavicco; Eporedorige, sotto la cui guida gli Edui avevano combattuto contro i Sequani prima dell'arrivo di Cesare.
Vista la rotta della cavalleria, Vercingetorige ritirò le truppe schierate dinnanzi all'accampamento e mosse direttamente verso Alesia, città dei Mandubi, ordinando di condurre rapidamente le salmerie fuori dal campo e di seguirlo. Cesare porta i bagagli sul colle più vicino e vi lascia due legioni come presidio. Lo insegue finché c'è luce: uccide circa tremila uomini della retroguardia e il giorno successivo si accampa davanti ad Alesia. Esaminata la posizione della città e tenuto conto che i nemici erano atterriti, perché era stata messa in fuga la loro cavalleria, ossia il reparto su cui più confidavano, esorta i soldati all'opera e comincia a circondare Alesia con un vallo.
La città di Alesia sorgeva sulla cima di un colle molto elevato, tanto che l'unico modo per espugnarla sembrava l'assedio. I piedi del colle, su due lati, erano bagnati da due fiumi. Davanti alla città si stendeva una pianura lunga circa tre miglia; per il resto, tutt'intorno, la cingevano altri colli di uguale altezza, poco distanti l'uno dall'altro. Sotto le mura, la parte del colle che guardava a oriente brulicava tutta di truppe galliche; qui, in avanti, avevano scavato una fossa e costruito un muro a secco alto sei piedi. Il perimetro della cinta di fortificazione iniziata dai Romani raggiungeva le dieci miglia. Si era stabilito l'accampamento in una zona vantaggiosa, erano state costruite ventitré ridotte: di giorno vi alloggiavano corpi di guardia per prevenire attacchi improvvisi, di notte erano tenute da sentinelle e saldi presidi.
Quando i lavori erano già iniziati, le cavallerie vengono a battaglia nella pianura che si stendeva tra i colli per tre miglia di lunghezza, come abbiamo illustrato. Si combatte con accanimento da entrambe le parti. In aiuto dei nostri in difficoltà, Cesare invia i Germani e schiera le legioni di fronte all'accampamento, per impedire un attacco improvviso della fanteria nemica. Il presidio delle legioni infonde coraggio ai nostri. I nemici sono messi in fuga: numerosi com'erano, si intralciano e si accalcano a causa delle porte, costruite troppo strette. I Germani li inseguono con maggior veemenza fino alle fortificazioni. Ne fanno strage: alcuni smontano da cavallo e tentano di superare la fossa e di scalare il muro. Alle legioni schierate davanti al vallo Cesare ordina di avanzare leggermente. Un panico non minore prende i Galli all'interno delle fortificazioni: pensano a un attacco imminente, gridano di correre alle armi. Alcuni, sconvolti dal terrore, si precipitano in città. Vercingetorige comanda di chiudere le porte, perché l'accampamento non rimanesse sguarnito. Dopo aver ucciso molti nemici e catturato parecchi cavalli, i Germani ripiegano.
Vercingetorige prende la decisione di far uscire di notte tutta la cavalleria, prima che i Romani portassero a termine la linea di fortificazione. Alla partenza, raccomanda a tutti di raggiungere ciascuno la propria gente e di raccogliere per la guerra tutti gli uomini che, per età, potevano portare le armi. Ricorda i suoi meriti nei loro confronti, li scongiura di tener conto della sua vita, di non abbandonarlo al supplizio dei nemici, lui che tanti meriti aveva nella lotta per la libertà comune. E se avessero svolto il compito con minor scrupolo, insieme a lui avrebbero perso la vita ottantamila uomini scelti. Fatti i conti, aveva grano a malapena per trenta giorni, ma se lo razionava, poteva resistere anche un po' di più. Con tali compiti, prima di mezzanotte fa uscire, in silenzio, la cavalleria nel settore dove i nostri lavori non erano ancora arrivati. Ordina la consegna di tutto il grano; fissa la pena capitale per chi non avesse obbedito; quanto al bestiame, fornito in grande quantità dai Mandubi, distribuisce a ciascuno la sua parte; fa economia di grano e comincia a razionarlo; accoglie entro le mura tutte le truppe prima schierate davanti alla città. Prese tali misure, attende i rinforzi della Gallia e si prepara a guidare le operazioni.
Cesare, appena ne fu informato dai fuggiaschi e dai prigionieri, approntò una linea di fortificazione come segue: scavò una fossa di venti piedi, con le pareti verticali, facendo sì che la larghezza del fondo corrispondesse alla distanza tra i bordi superiori; tutte le altre opere difensive le costruì più indietro, a quattrocento piedi dalla fossa: avendo dovuto abbracciare uno spazio così vasto e non essendo facile dislocare soldati lungo tutto il perimetro, voleva impedire che i nemici, all'improvviso o nel corso della notte, piombassero sulle nostre fortificazioni, oppure che durante il giorno potessero scagliare dardi sui nostri occupati nei lavori. A tale distanza, dunque, scavò due fosse della stessa profondità, larghe quindici piedi. Delle due, la più interna, situata in zone pianeggianti e basse, venne riempita con acqua derivata da un fiume. Ancor più indietro innalzò un terrapieno e un vallo di dodici piedi, a cui aggiunse parapetto e merli, con grandi pali sporgenti dalle commessure tra i plutei e il terrapieno allo scopo di ritardare la scalata dei nemici. Lungo tutto il perimetro delle difese innalzò torrette distanti ottanta piedi l'una dall'altra.
Bisognava contemporaneamente cercare legna e frumento e costruire fortificazioni così imponenti, mentre i nostri effettivi non facevano che diminuire, perché i soldati si allontanavano sempre più dal campo. E alle volte i Galli assalivano le nostre difese e dalla città tentavano sortite da più porte, con grande slancio. Perciò, Cesare ritenne opportuno aggiungere altre opere alle fortificazioni già approntate, per poterle difendere con un numero minore di soldati. Allora tagliò tronchi d'albero con i rami molto robusti, li scortecciò e li rese molto aguzzi sulla punta; poi, scavò fosse continue per la profondità di cinque piedi. Qui piantò i tronchi e, perché non li potessero svellere, li legò alla base, lasciando sporgere i rami. A cinque a cinque erano le file, collegate tra loro e raccordate: chi vi entrava, rimaneva trafitto sui pali acutissimi. Li chiamammo cippi. Davanti ai cippi scavò buche profonde tre piedi, leggermente più strette verso il fondo e disposte per linee oblique, come il cinque nei dadi. Vi conficcò tronchi lisci, spessi quanto una coscia, molto aguzzi e induriti col fuoco sulla punta, non lasciandoli sporgere dal terreno più di quattro dita. Inoltre, per renderli ben fermi e saldi, in basso aggiunse terra per un piede d'altezza e la pressò; il resto del tronco venne ricoperto di vimini e arbusti per nascondere l'insidia. Ne allineò otto file, distanti tre piedi l'una dall'altra. Le denominammo, per la somiglianza con il fiore, gigli. Davanti a esse vennero interrati pioli lunghi un piede, forniti di un artiglio di ferro: ne disseminammo un po' ovunque, a breve distanza. Presero il nome di stimoli.
Terminate tali opere, seguendo i terreni più favorevoli per conformazione naturale, costruì una linea difensiva dello stesso genere, lunga quattordici miglia, ma opposta alla prima, contro un nemico proveniente dalle spalle: così, anche nel caso di un attacco in massa dopo la sua partenza, gli avversari non avrebbero potuto circondare i presidi delle fortificazioni, né i nostri si sarebbero trovati costretti a sortite rischiose. Ordina a tutti di portare con sé foraggio e grano per trenta giorni.
Così andavano le cose ad Alesia. Nel frattempo, i Galli indicono un concilio dei capi, stabiliscono di non chiamare alle armi tutti gli uomini abili, come aveva chiesto Vercingetorige, ma di imporre ad ogni popolo la consegna di un contingente determinato, perché temevano che fosse impossibile, tra tanta confusione di popoli, mantenere la disciplina, riconoscere le proprie truppe, amministrare le provviste di grano. Agli Edui e ai loro alleati, ossia i Segusiavi, gli Ambivareti, gli Aulerci Brannovici, i Blannovi, ordinano di fornire trentacinquemila uomini; altrettanti agli Arverni insieme agli Eleuteti, ai Cadurci, ai Gabali, ai Vellavi, da tempo clienti degli Arverni stessi; ai Sequani, ai Senoni, ai Biturigi, ai Santoni, ai Ruteni, ai Carnuti dodicimila ciascuno; ai Bellovaci diecimila; ottomila ciascuno ai Pictoni, ai Turoni, ai Parisi e agli Elvezi; agli Ambiani, ai Mediomatrici, ai Petrocori, ai Nervi, ai Morini, ai Nitiobrogi cinquemila ciascuno; altrettanti agli Aulerci Cenomani; agli Atrebati quattromila; ai Veliocassi, ai Lexovi e agli Aulerci Eburovici tremila ciascuno; ai Rauraci e ai Boi mille ciascuno; ventimila a tutti quei popoli che si affacciano sull'Oceano e che, come dicono loro stessi, si chiamano Aremorici, tra i quali ricordiamo i Coriosoliti, i Redoni, gli Ambibari, i Caleti, gli Osismi, i Lemovici, gli Unelli. Di tutti i popoli citati, solo i Bellovaci non inviarono il contingente completo, dicendo che avrebbero mosso guerra ai Romani per proprio conto e arbitrio e che non avrebbero preso ordini da nessuno. Tuttavia, su preghiera di Commio, in ragione dei vincoli di ospitalità che li legavano a lui, inviarono duemila soldati.
Dei fidati e preziosi servigi di Commio, Cesare si era avvalso negli anni precedenti, lo abbiamo detto. In cambio, aveva decretato che gli Atrebati fossero esenti da tributi, aveva loro restituito diritto e leggi e assegnato la tutela dei Morini. Ma il consenso della Gallia, che voleva riacquistare l'indipendenza e recuperare l'antica gloria militare, era così unanime, da rendere chiunque insensibile anche ai benefici e al ricordo dell'amicizia: tutti si gettavano nel conflitto col cuore e con ogni risorsa. Vengono raccolti ottomila cavalieri e circa duecentoquarantamila fanti; nelle terre degli Edui si procede a passarli in rassegna, a contarli, a nominare gli ufficiali. Il comando supremo viene affidato all'atrebate Commio, agli edui Viridomaro ed Eporedorige, all'arverno Vercassivellauno, cugino di Vercingetorige. A essi vengono affiancati alcuni rappresentanti dei vari popoli, che formavano il consiglio per condurre le operazioni. Pieni di ardore e di fiducia si dirigono ad Alesia. Nessuno credeva possibile reggere alla vista di un tale esercito, tanto meno in uno scontro su due fronti, quando i Romani, mentre combattevano per una sortita dalla città, avessero scorto alle loro spalle truppe di fanteria e cavalleria così imponenti.
Ma gli assediati in Alesia, scaduto il giorno previsto per l'arrivo dei rinforzi ed esaurite tutte le scorte di grano, ignari di ciò che stava accadendo nelle terre degli Edui, convocarono un'assemblea e si consultarono sull'esito della propria sorte. E tra i vari pareri - c'era chi propendeva per la resa, chi per una sortita, finché le forze bastavano - crediamo di non dover tralasciare il discorso di Critognato per la sua straordinaria ed empia crudeltà. Persona di altissimo lignaggio tra gli Arverni e molto autorevole, così parlò: 'Non spenderò una parola riguardo al parere di chi chiama resa una vergognosissima schiavitù: costoro non li considero cittadini e non dovrebbero avere neppure il diritto di partecipare all'assemblea. È mia intenzione rivolgermi a chi approva la sortita, soluzione che conserva l'impronta dell'antico valore, tutti voi ne convenite. Non essere minimamente capaci di sopportare le privazioni, non è valore, ma debolezza d'animo. È più facile trovare volontari pronti alla morte piuttosto che gente disposta a sopportare pazientemente il dolore. E anch'io - tanto è forte in me il senso dell'onore - sarei dello stesso avviso, se vedessi derivare un danno solo per la nostra vita. Ma nel prendere la decisione, rivolgiamo gli occhi a tutta la Gallia, che abbiamo chiamato in soccorso. Quale sarà, secondo voi, lo stato d'animo dei nostri parenti e consanguinei, quando vedranno ottantamila uomini uccisi in un sol luogo e dovranno combattere quasi sui nostri cadaveri? Non negate il vostro aiuto a chi, per salvare voi, non ha curato pericoli. Non prostrate la Gallia intera, non piegatela a una servitù perpetua a causa della vostra stoltezza e imprudenza o per colpa della fragilità del vostro animo. Sì, i rinforzi non sono giunti nel giorno fissato, ma per questo dubitate della loro lealtà e costanza? E allora? Credete che ogni giorno i Romani là, nelle fortificazioni esterne, lavorino per divertimento? Se non potete ricevere una conferma perché le vie sono tutte tagliate, prendete allora i Romani come testimonianza del loro imminente arrivo: è il timore dei nostri rinforzi che li spinge a lavorare giorno e notte alle fortificazioni. Che cosa suggerisco, dunque? Di imitare i nostri padri quando combattevano contro i Cimbri e i Teutoni, in una guerra che non aveva nulla a che vedere con la nostra: costretti a chiudersi nelle città e a patire come noi dure privazioni, si mantennero in vita con i corpi di chi, per ragioni d'età, sembrava inutile alla guerra, e non si arresero ai nemici. Se non avessimo già un precedente del genere, giudicherei giusto istituirlo per la nostra libertà e tramandarlo ai posteri come fulgido esempio. E poi, quali somiglianze ci sono tra la loro guerra e la nostra? I Cimbri, devastata la Gallia e seminata rovina, si allontanarono una buona volta dalle nostre campagne e si diressero verso altre terre, lasciandoci il nostro diritto, le leggi, i campi, la libertà. I Romani, invece, che altro cercano o vogliono, se non stanziarsi nelle campagne e città di qualche popolo, spinti dall'invidia, appena sanno che è nobile e forte in guerra? Oppure che altro, se non assoggettarlo in un'eterna schiavitù? Non hanno mai mosso guerra con altre intenzioni. E se ignorate le vicende delle regioni più lontane, volgete gli occhi alla Gallia limitrofa, ridotta a provincia: ha mutato il diritto e le leggi, è soggetta alle scuri e piegata in una perpetua servitù'.
Espressi i vari pareri, decidono di allontanare dalla città chi, per malattia o età, non poteva combattere e di tentare tutto prima di risolversi alla proposta di Critognato; tuttavia, in caso di necessità o di ritardo dei rinforzi, bisognava giungere a un tale passo piuttosto che accettare condizioni di resa o di pace. I Mandubi, che li avevano accolti nella loro città, sono costretti a partire con i figli e le mogli. Giunti ai piedi delle difese romane, tra le lacrime e con preghiere d'ogni genere, supplicavano i nostri di prenderli come schiavi e di dar loro del cibo. Ma Cesare, disposte sentinelle sul vallo, impediva di accoglierli.
Nel frattempo, Commio e gli altri capi, a cui era stato conferito il comando, giungono ad Alesia con tutte le truppe, occupano il colle esterno e si attestano a non più di un miglio dalle nostre difese. Il giorno seguente mandano in campo la cavalleria e riempiono tutta la pianura che si stendeva per tre miglia, come sopra ricordato. Quanto alla fanteria, la dispongono poco distante, nascosta sulle alture. Dalla città di Alesia la vista dominava sulla pianura. Appena scorgono i rinforzi, i Galli accorrono: esultano, gli animi di tutti si schiudono alla gioia. Così, guidano le truppe fuori dalle mura e si schierano di fronte alla città, coprono la prima fossa con fascine, la colmano di terra si preparano all'attacco, al tutto per tutto.
Cesare dispone l'esercito lungo entrambe le linee fortificate, perché ciascuno, in caso di necessità, conoscesse il proprio posto e lì si schierasse. Poi, guida la cavalleria fuori dal campo e ordina di dar inizio alla battaglia. Da ogni punto del campo, situato sulla cima del colle, la vista dominava; tutti i soldati, ansiosi, aspettavano l'esito dello scontro. I Galli tenevano in mezzo alla cavalleria pochi arcieri e fanti dall'armatura leggera, che avevano il compito di soccorrere i loro quando ripiegavano e di frenare l'impeto dei nostri cavalieri. Gli arcieri e i fanti avevano colpito alla sprovvista parecchi dei nostri, costringendoli a lasciare la mischia. Da ogni parte tutti i Galli, sia chi era rimasto all'interno delle difese, sia chi era giunto in rinforzo, convinti della loro superiorità e vedendo i nostri pressati dalla loro massa, incitavano i loro con grida e urla. Lo scontro si svolgeva sotto gli occhi di tutti, perciò nessun atto di coraggio o di viltà poteva sfuggire: il desiderio di gloria e la paura dell'ignominia spronavano al valore gli uni e gli altri. Si combatteva da mezzogiorno, il tramonto era ormai vicino e l'esito era ancora incerto, quand'ecco che, in un settore, a ranghi serrati i cavalieri germani caricarono i nemici e li volsero in fuga. Alla ritirata della cavalleria, gli arcieri vennero circondati e uccisi. Anche nelle altre zone i nostri inseguirono fino all'accampamento i nemici in fuga, senza permetter loro di raccogliersi. I Galli che da Alesia si erano spinti in avanti, mesti, disperando o quasi della vittoria, cercarono rifugio in città.
I Galli lasciarono passare un giorno, durante il quale approntarono una gran quantità di fascine, scale, ramponi. A mezzanotte, in silenzio, escono dall'accampamento e si avvicinano alle nostre fortificazioni di pianura. All'improvviso lanciano alte grida: era il segnale convenuto per avvisare del loro arrivo chi era in città. Si apprestano a gettare fascine, a disturbare i nostri sul vallo con fionde, frecce e pietre, ad azionare ogni macchina che serve in un assalto. Contemporaneamente, appena sente le grida, Vercingetorige dà ai suoi il segnale con la tromba e li guida fuori dalla città. I nostri raggiungono le fortificazioni, ciascuno nel posto che gli era stato assegnato nei giorni precedenti. Usando fionde che lanciano proiettili da una libbra e con pali disposti sulle difese, atterriscono i Galli e li respingono. Le tenebre impediscono la vista, gravi sono le perdite in entrambi gli schieramenti. Le macchine da lancio scagliano nugoli di frecce. E i legati M. Antonio e C. Trebonico cui era toccata la difesa di questi settori, chiamano rinforzi dalle ridotte più lontane e li mandano nelle zone dove capivano che i nostri si trovavano in difficoltà.
Finché i Galli erano abbastanza distanti dalle nostre fortificazioni, avevano un certo vantaggio, per il nugolo di frecce da loro lanciate; una volta avvicinatisi, invece, presi alla sprovvista, finivano negli stimoli o cadevano nelle fosse rimanendo trafitti oppure venivano uccisi dai giavellotti scagliati dal vallo e dalle torri. In tutti i settori subirono parecchie perdite e non riuscirono a far breccia in nessun punto; all'approssimarsi dell'alba ripiegarono, nel timore che i nostri tentassero una sortita dall'accampamento più alto e li accerchiassero dal fianco scoperto. E gli assediati, intenti a spingere in avanti le macchine preparate da Vercingetorige per la sortita e a riempire le prime fosse, mentre procedevano con troppa lentezza, vengono a sapere che i loro si erano ritirati prima di aver raggiunto le nostre difese. Così, senza aver concluso nulla, rientrano in città.
I Galli, respinti due volte con gravi perdite, si consultano sul da farsi. Chiamano gente pratica della zona. Da essi apprendono com'era disposto e fortificato il nostro accampamento superiore. A nord c'era un colle che, per la sua estensione, i nostri non avevano potuto abbracciare nella linea difensiva: erano stati costretti a porre il campo in una posizione quasi sfavorevole, in leggera pendenza. Il campo era occupato dai legati C. Antistio Regino e C. Caninio Rebilo con due legioni. Gli esploratori effettuano un sopralluogo della zona, mentre i comandanti nemici scelgono sessantamila soldati tra tutti i popoli ritenuti più valorosi. In segreto mettono a punto il piano e le modalità d'azione. Fissano l'ora dell'attacco verso mezzogiorno. Il comando delle truppe suddette viene affidato all'arverno Vercassivellauno, uno dei quattro capi supremi, parente di Vercingetorige. Vercassivellauno uscì dal campo dopo le sei di sera e giunse quasi a destinazione poco prima dell'alba, si nascose dietro il monte e ordinò ai soldati di riposarsi dopo la fatica della marcia notturna. Quando ormai sembrava avvicinarsi mezzogiorno, puntò sull'accampamento di cui abbiamo parlato. Al contempo, la cavalleria cominciò ad accostarsi alle nostre difese di pianura e le truppe rimanenti comparvero dinnanzi al loro campo.
Vercingetorige vede i suoi dalla rocca di Alesia ed esce dalla città. Porta fascine, pertiche, ripari, falci e ogni altra arma preparata per la sortita. Si combatte contemporaneamente in ogni zona, tutte le nostre difese vengono attaccate: dove sembravano meno salde, là i nemici accorrevano. Le truppe romane sono costrette a dividersi per l'estensione delle linee, né è facile respingere gli attacchi sferrati contemporaneamente in diversi settori. Il clamore che si alza alle spalle dei nostri, mentre combattevano, contribuisce molto a seminare il panico, perché capivano che la loro vita era legata alla salvezza degli altri: i pericoli che non stanno dinnanzi agli occhi, in genere, turbano con maggior intensità le menti degli uomini.
Cesare, trovato un punto di osservazione adatto, vede che cosa accade in ciascun settore. Invia aiuti a chi è in difficoltà. I due eserciti sentono che è il momento decisivo, in cui occorreva lottare allo spasimo: i Galli, se non forzavano la nostra linea, perdevano ogni speranza di salvezza; i Romani, se tenevano, si aspettavano la fine di tutti i travagli. Lo scontro era più aspro lungo le fortificazioni sul colle, dove, lo abbiamo detto, era stato inviato Vercassivellauno. La posizione sfavorevole dei nostri, in salita, aveva un peso determinante. Dei Galli, alcuni scagliano dardi, altri formano la testuggine e avanzano. Forze fresche danno il cambio a chi è stanco. Tutti quanti gettano sulle difese molta terra, che permette ai Galli la scalata e ricopre le insidie nascoste nel terreno dai Romani. Ai nostri, ormai, mancano le armi e le forze.
Quando lo viene a sapere, a rinforzo di chi si trova in difficoltà Cesare invia Labieno con sei coorti. Gli ordina, se non riusciva a respingere l'attacco, di portar fuori le coorti e di tentare una sortita, ma solo in caso di necessità estrema. Dal canto suo, raggiunge gli altri, li esorta a non cedere, spiega che in quel giorno, in quell'ora era riposto ogni frutto delle battaglie precedenti. I nemici sul fronte interno, disperando di poter forzare le difese di pianura, salde com'erano, attaccano i dirupi, cercando di scalarli: sulla sommità ammassano tutte le armi approntate. Con nugoli di frecce scacciano i nostri difensori dalle torri, riempiono le fosse con terra e fascine, spezzano il vallo e il parapetto mediante falci.
Cesare prima invia il giovane Bruto con alcune coorti, poi il legato C. Fabio con altre. Alla fine egli stesso, mentre si combatteva sempre più aspramente, reca in aiuto forze fresche. Capovolte le sorti dello scontro e respinti i nemici, si dirige dove aveva inviato Labieno. Preleva quattro coorti dalla ridotta più vicina e ordina che parte della cavalleria lo segua, parte aggiri le difese esterne e attacchi il nemico alle spalle. Poiché né i terrapieni, né le fosse valevano a frenare l'impeto dei nemici, Labieno raduna trentanove coorti, che la sorte gli permise di raccogliere dalle ridotte più vicine. Quindi, invia a Cesare messaggeri per informarlo delle sue intenzioni.
Cesare si affretta, per prendere parte alla battaglia. I nemici, dominando dall'alto i declivi e i pendii dove transitava Cesare, mossero all'attacco, non appena notarono il suo arrivo per il colore del mantello che di solito indossava in battaglia e videro gli squadroni di cavalleria e le coorti che avevano l'ordine di seguirlo. Entrambi gli eserciti levano alte grida, un grande clamore risponde dal vallo e da tutte le fortificazioni. I nostri lasciano da parte i giavellotti e mettono mano alle spade. All'improvviso compare la cavalleria dietro i nemici. Altre coorti stavano accorrendo: i Galli volgono le spalle. I cavalieri affrontano gli avversari in fuga. È strage. Sedullo, comandante e principe dei Lemovici aremorici, cade; l'arverno Vercassivellauno è catturato vivo, mentre tentava la fuga; a Cesare vengono portate settantaquattro insegne militari; di tanti che erano, solo pochi nemici raggiungono salvi l'accampamento. Dalla città vedono il massacro e la ritirata dei loro: persa ogni speranza di salvezza, richiamano le truppe dalle fortificazioni. Appena odono il segnale di ritirata, i Galli fuggono dall'accampamento. E se i nostri soldati non avessero risentito delle continue azioni di soccorso e della fatica di tutta la giornata, avrebbero potuto annientare le truppe avversarie. Verso mezzanotte la cavalleria si muove all'inseguimento della retroguardia nemica: molti vengono catturati e uccisi; gli altri, proseguendo la fuga, raggiungono i rispettivi popoli.
Il giorno seguente, Vercingetorige convoca l'assemblea e spiega che quella guerra l'aveva intrapresa non per proprio interesse, ma per la libertà comune. E giacché si doveva cedere alla sorte, si rimetteva ai Galli, pronto a qualsiasi loro decisione, sia che volessero ingraziarsi i Romani con la sua morte o che volessero consegnarlo vivo. A tale proposito viene inviata una legazione a Cesare, che esige la resa delle armi e la consegna dei capi dei vari popoli. Pone il suo seggio sulle fortificazioni, dinnanzi all'accampamento: qui gli vengono condotti i comandanti galli, Vercingetorige si arrende, le armi vengono gettate ai suoi piedi. A eccezione degli Edui e degli Arverni, tutelati nella speranza di poter riguadagnare, tramite loro, le altre genti, Cesare distribuisce, a titolo di preda, i prigionieri dei rimanenti popoli a tutto l'esercito, uno a testa.
Terminate le operazioni, parte verso le terre degli Edui; accetta la resa del loro popolo. Qui lo raggiungono emissari degli Arverni che promettono obbedienza, ordina la consegna di un gran numero di ostaggi. Invia le legioni ai campi invernali. Restituisce agli Edui e agli Arverni circa ventimila prigionieri. Ordina a T. Labieno di recarsi nella regione dei Sequani con due legioni e la cavalleria e pone ai suoi ordini M. Sempronio Rutilo. Alloggia il legato C. Fabio e L. Minucio Basilo con due legioni nei territori dei Remi, per proteggere quest'ultimi da eventuali attacchi dei Bellovaci. Manda C. Antistio Regino tra gli Ambivareti, T. Sestio presso i Biturigi, C. Caninio Rebilo tra i Ruteni, ciascuno alla testa di una legione. Pone Q. Tullio Cicerone e P. Sulpicio a Cavillono e Matiscone, lungo la Saona, nelle terre degli Edui, incaricandoli di provvedere ai rifornimenti di grano. Dal canto suo, decide di svernare a Bibracte. Quando a Roma si ha notizia dell'accaduto da una lettera di Cesare, gli vengono tributati venti giorni di feste solenni di ringraziamento.
LIBRO OTTAVO
Costretto dalle tue assidue esortazioni, Balbo, visto che il mio quotidiano rifiuto non sembrava ammettere la scusa della difficoltà, ma incontrava il biasimo dell'inerzia, ho assunto un compito davvero difficile: i commentari del nostro Cesare sulle sue imprese in Gallia, li ho integrati con le vicende che non comparivano e li ho collegati ai suoi scritti successivi; inoltre, l'ultima opera, da lui lasciata incompiuta, l'ho terminata a partire dalle imprese alessandrine per arrivare non dico al termine della guerra civile, di cui non vediamo ancora la fine, ma alla morte di Cesare. Vorrei che i lettori sapessero quanto malvolentieri mi sia assunto il compito di scriverli, per essere con più facilità assolto dall'accusa di stoltezza e arroganza, io che ho inserito tra gli scritti di Cesare i miei. Tutti lo sanno: non c'è opera di altri autori che sia stata composta con altrettanta cura e che non sia superata dall'eleganza di questi commentari. Furono pubblicati perché agli storici non mancasse il materiale su imprese così grandi; ma tutti ne riconobbero il valore, al punto che sembrava preclusa, e non offerta, la possibilità di narrarle. In tal senso, comunque, la nostra ammirazione supera quella degli altri: perché tutti ne vedono la bellezza e la perfezione. ma noi sappiamo anche con quale facilità e rapidità li abbia composti. Cesare, infatti, aveva sia una straordinaria disposizione ed eleganza nello scrivere, sia un'autentica capacità di illustrare i suoi disegni. Io non ho partecipato direttamente alla guerra alessandrina e africana; sebbene in parte esse mi siano note per bocca di Cesare, tuttavia un conto è udire i fatti che ci colpiscono per la loro singolarità o che ci riempiono d'ammirazione, un altro è esporre gli avvenimenti per testimonianza diretta. Ma proprio mentre cerco ogni motivo di scusa per non essere accostato a Cesare, mi espongo all'accusa di arroganza, per aver pensato che qualcuno possa paragonarmi a lui. Stammi bene.
Piegata tutta la Gallia, Cesare, che dall'estate precedente non aveva mai cessato di combattere, voleva concedere un po' di riposo ai soldati negli accampamenti invernali, dopo tante fatiche. Giungeva, però, notizia che diversi popoli contemporaneamente rinnovavano i piani di guerra e stringevano alleanze. Motivo di tali iniziative, verosimilmente, era che tutti i Galli ben sapevano che nessun esercito concentrato in un solo luogo poteva resistere ai Romani e che, se parecchie genti, nello stesso istante, li avessero attaccati su diversi fronti, l'esercito del popolo romano non avrebbe avuto appoggi, tempo, truppe sufficienti per fronteggiare tutti. E nessun popolo doveva sottrarsi al destino d'un rovescio, se, impegnando i Romani, avesse permesso agli altri di riacquistare la libertà.
Per evitare che le aspettative dei Galli trovassero conferme, Cesare affida al questore M. Antonio il comando dei suoi quartieri d'inverno; la vigilia delle calende di gennaio, con una scorta di cavalieri parte da Bibracte verso la tredicesima legione, da lui stanziata nei territori dei Biturigi, non lontano dagli Edui. Alla tredicesima unisce l'undicesima legione, la più vicina. Lasciate due coorti a guardia delle salmerie, guida il resto dell'esercito nelle fertilissime campagne dei Biturigi. Quest'ultimi avevano vasti territori e molte città, per cui la presenza di una sola legione nei campi invernali non era valsa a impedire i preparativi di guerra e i patti di alleanza.
Al repentino arrivo di Cesare accadde l'inevitabile per gente colta alla sprovvista e sparpagliata: mentre i nemici, senza timore alcuno, attendevano ai lavori nei campi, vennero sopraffatti dalla cavalleria prima di potersi rifugiare nelle città. Infatti, per ordine di Cesare, era stato eliminato anche l'indizio più comune di un'incursione nemica, ovvero il fuoco appiccato agli edifici, sia perché in caso di ulteriore avanzata non venissero a mancare foraggio e grano, sia perché i nemici non fossero messi in allarme dagli incendi stessi. Dopo la cattura di molte migliaia di uomini, chi tra i Biturigi, in preda alla paura, era riuscito a sfuggire al primo attacco dei Romani, era riparato presso i popoli vicini, fidando o in vincoli personali d'ospitalità oppure nell'alleanza comune. Invano: a marce forzate Cesare accorre dappertutto e non lascia a nessun popolo il tempo di pensare alla salvezza altrui più che alla propria. Con la rapidità della sua azione teneva a freno gli alleati fedeli, con il terrore costringeva alla pace i titubanti. Di fronte a tale situazione, i Biturigi, vedendo che la clemenza di Cesare lasciava spazio per un ritorno all'alleanza con lui e che i popoli limitrofi non avevano subito pena alcuna, ma dietro la consegna di ostaggi erano stati accolti sotto la sua protezione, ne seguirono l'esempio.
Ai soldati, che avevano senza sosta condotto le operazioni con straordinario impegno anche nelle giornate invernali, lungo strade davvero disagevoli e con un freddo insopportabile, come premio a titolo di bottino Cesare promette, per le tante fatiche e sopportazioni, duecento sesterzi a testa, e ai centurioni mille. Invia le legioni ai quartieri d'inverno e ritorna a Bibracte dopo quaranta giorni. Mentre vi amministrava la giustizia, i Biturigi gli inviano emissari per chiedergli aiuto contro i Carnuti, lamentando attacchi da parte loro. Appena ne è informato, dopo aver sostato nei campi invernali non più di diciotto giorni, richiama la diciottesima e la sesta legione dagli accampamenti sulla Saona, dove erano state dislocate per occuparsi del vettovagliamento, come si è detto nel libro precedente. Così, con due legioni parte all'inseguimento dei Carnuti.
Quando la notizia di truppe in movimento giunse ai nemici, i Carnuti, edotti dalle sciagure altrui, abbandonano i villaggi e le città in cui abitavano dopo aver frettolosamente allestito piccole costruzioni per ripararsi dall'inverno (infatti, in seguito alla recente sconfitta avevano perduto parecchie città) e fuggono sbandati. Cesare non voleva che i soldati affrontassero i rigori della stagione, tremendi proprio in quel periodo: pone il campo in una città dei Carnuti, Cenabo, ammassa parte dei soldati nelle case dei Galli, parte in ripari approntati gettando alla svelta paglia sulle tende. Comunque, manda i cavalieri e i fanti ausiliari in tutte le direzioni in cui si diceva che si fossero mossi i nemici. E non invano: i nostri, infatti, rientrano per lo più con un ricco bottino. I Carnuti si trovarono stretti dalle difficoltà dell'inverno e atterriti dal pericolo; cacciati dalle loro case, non osavano fermarsi stabilmente in nessun luogo, né potevano sfruttare il riparo delle selve per l'inclemenza della stagione. Divisi, perdono gran parte dei loro e si sparpagliano presso le popolazioni vicine.
Cesare, in una stagione davvero ostile, al fine di prevenire l'inizio di una guerra riteneva di aver fatto a sufficienza per disperdere le forze nemiche che si stavano concentrando ed era convinto, per quanto si poteva ragionevolmente supporre, che nessun grave conflitto potesse scoppiare fino all'estate. Allora, alloggiò a Cenabo, nei quartieri d'inverno, C. Trebonio alla testa delle due legioni che aveva con sé. I Remi, con frequenti ambascerie, lo informavano che i Bellovaci, superiori a tutti i Galli e ai Belgi quanto a gloria militare, e i popoli limitrofi, sotto la guida del bellovaco Correo e dell'atrebate Commio, allestivano truppe e le radunavano in un solo luogo, per attaccare in massa le terre dei Suessioni, vassalli dei Remi. Che alleati benemeriti verso la nostra repubblica non patissero alcun torto, Cesare la ritenne questione riguardante non solo la sua dignità, ma anche la sua sicurezza. Perciò, richiama nuovamente dal campo invernale l'undicesima legione, poi invia una lettera a C. Fabio, perché guidi nei territori dei Suessioni le due legioni che aveva ai suoi ordini; a Labieno richiede una delle due legioni di cui disponeva. Così, conciliando le necessità dei campi invernali e le esigenze del conflitto, alle legioni imponeva a turno l'onere delle spedizioni, ma non concedeva mai riposo a se stesso.
Riunite queste truppe, punta sui Bellovaci, stabilisce il campo nei loro territori e manda dappertutto squadroni di cavalleria per catturare prigionieri, che lo avrebbero messo al corrente dei piani nemici. I cavalieri, eseguito l'ordine, riferiscono di aver trovato solo pochi nemici in case isolate, ma non si trattava di gente rimasta a coltivare i campi (tutte le zone, infatti, erano state scrupolosamente evacuate), bensì di osservatori rispediti a sorvegliare le nostre mosse. Avendo chiesto ai prigionieri dove si trovava il grosso dei Bellovaci e quali ne fossero i disegni, Cesare ricevette le seguenti indicazioni: tutti i Bellovaci in grado di portare armi si erano radunati in un solo luogo, come pure gli Ambiani, gli Aulerci, i Caleti, i Veliocassi, gli Atrebati; avevano scelto per l'accampamento una località in alto, in una selva circondata da una palude e avevano ammassato tutti i bagagli nei boschi alle spalle. Parecchi erano i capi, fautori della guerra, ma la massa obbediva in particolare a Correo, in quanto era noto il suo odio mortale per il nome del popolo romano. Pochi giorni prima, l'atrebate Commio si era allontanato dal campo in cerca di rinforzi presso i Germani, che erano vicini e di numero sterminato. Poi, i Bellovaci, col consenso di tutti i capi, tra l'entusiasmo generale, avevano deciso di esporsi a un combattimento, se davvero Cesare fosse giunto con tre legioni, come si diceva; in tal modo, non sarebbero stati costretti, in seguito, a lottare contro tutto l'esercito in condizioni più difficili e ardue; se, invece, Cesare avesse condotto truppe più numerose, si sarebbero attestati nella posizione che avevano scelto e avrebbero impedito ai Romani, mediante imboscate, la raccolta di foraggio (che non solo scarseggiava, ma era anche disperso qua e là per via della stagione), nonché di grano e di altri viveri.
Quando da diverse e concordi fonti conobbe il piano nemico e giudicò molto accorti i propositi che gli venivano illustrati e ben lontani dalla solita avventatezza dei barbari, decise di sfruttare ogni mezzo per indurre gli avversari a scendere in campo al più presto, per disprezzo dell'esiguità dei suoi effettivi. Aveva con sé, infatti, le legioni più anziane, la settima, l'ottava, la nona, straordinarie per valore, nonché una legione di belle speranze, composta da giovani scelti, l'undicesima, che già da otto anni riceveva la paga, ma, in confronto alle altre, non si era ancora guadagnata la stessa fama di provato valore. Così, convocato il consiglio di guerra, espone tutte le notizie che gli erano state riferite e rafforza il coraggio delle truppe. Per attirare i nemici a battaglia, illudendoli di avere di fronte tre legioni, fissa l'ordine di marcia come segue: la settima, l'ottava e la nona legione dovevano procedere in testa, seguite dalla colonna delle salmerie, poco numerose ovviamente, come succede di solito nelle spedizioni; l'undicesima doveva costituire la coda, per non mostrare ai nemici una consistenza numerica superiore a quanto essi sperassero. Con tale schieramento, formando in pratica il quadrato, arriva con i suoi in vista dei nemici più presto di quanto essi pensassero.
Non appena vedono all'improvviso le nostre legioni, schierate a battaglia, avanzare con passo deciso, i Galli, benché i loro propositi, secondo le informazioni avute da Cesare, fossero molto baldanzosi, schierano le truppe dinnanzi al campo e non scendono dalle alture, forse per evitare i rischi dello scontro o per la sorpresa del nostro arrivo repentino oppure in attesa delle nostre mosse. Cesare, anche se prima desiderava il combattimento, colpito adesso dalla massa degli avversari, da cui ci separava una valle più profonda che larga, piazza il campo davanti a quello nemico. Ordina di fortificarlo con un vallo di dodici piedi e di aggiungervi un piccolo parapetto di altezza proporzionata; fa scavare una coppia di fosse di quindici piedi a pareti verticali, erigere parecchie torri a tre piani, raccordate mediante ponti, coperti e protetti verso l'esterno da un parapetto di graticcio. Così, la difesa era assicurata da una coppia di fosse e da un duplice ordine di combattenti: il primo ordine, dai ponti, più sicuro per via dell'altezza, poteva scagliare le frecce con maggior audacia e più lontano; l'altro, situato più vicino al nemico, proprio sul vallo, grazie ai ponti stessi era protetto dalla pioggia di dardi. Dota di battenti le porte e le affianca con torri più alte.
Lo scopo di tale fortificazione era duplice. Sperava, appunto, che la mole dei lavori e la sua simulata paura infondessero fiducia ai barbari; inoltre, vedeva che, grazie appunto alle opere di fortificazione, era possibile difendere il campo anche con pochi uomini, quando occorreva allontanarsi troppo in cerca di foraggio e di grano. Frattanto, piccoli gruppi dei due eserciti davano luogo a frequenti scaramucce tra gli accampamenti, che pure erano separati da una palude. Talvolta, comunque, o le nostre truppe ausiliarie, Galli e Germani, attraversavano la palude e incalzavano con maggior vigore i nemici, o erano i barbari, a loro volta, a superarla e a ricacciare i nostri, costringendoli al ripiegamento. Poi, durante le quotidiane spedizioni in cerca di foraggio, accadeva l'inevitabile, dato che la ricerca avveniva per casolari sparsi e isolati: i nostri soldati, disuniti, venivano circondati in zone difficilmente praticabili. Il che ci procurava solo la perdita di pochi animali e servi, ma alimentava gli stolti pensieri dei barbari, tanto più che Commio, partito per chiedere aiuti ai Germani, come ho già detto, era rientrato con un contingente di cavalieri. Non erano più di cinquecento, tuttavia l'arrivo dei Germani esaltò i barbari.
Cesare, constatato che ormai da parecchi giorni il nemico si teneva nell'accampamento, difeso dalla palude e dalla conformazione naturale della zona, si era anche reso conto che non poteva né espugnare il loro campo senza un combattimento rovinoso, né circondarlo con opere d'assedio, a meno dell'impiego di truppe più ingenti. Allora invia una lettera a Trebonio, ordinandogli di richiamare quanto prima la tredicesima legione (che svernava nelle terre dei Biturigi con il legato T. Sestio) e di raggiungerlo con le tre legioni a marce forzate. Intanto, ai cavalieri dei Remi, dei Lingoni e degli altri popoli, che aveva richiesto in gran numero, dà l'incombenza di scortare a turno i nostri in cerca di foraggio, per proteggerli da improvvisi attacchi dei nemici.
La cosa accadeva ogni giorno, e ormai le precauzioni diminuivano per via dell'abitudine, come spesso accade quando si ripetono le stesse azioni. I Bellovaci, una volta conosciuti i punti dove stazionavano quotidianamente i nostri cavalieri, con un gruppo scelto di fanti preparano un agguato in una zona ricca di vegetazione. Lì inviano, il giorno seguente, dei cavalieri, che dovevano attirare i nostri nel bosco, dove poi i fanti appostati li avrebbero circondati e assaliti. La mala sorte capitò ai Remi, a cui quel giorno era toccato il servizio di scorta. Quando all'improvviso videro i cavalieri nemici, i nostri, sentendosi superiori per numero, disprezzarono le forze avversarie: li inseguirono con troppa foga e vennero circondati dai fanti. Scossi dall'accaduto, si ritirarono più rapidamente di quanto non comporti, di regola, un combattimento di cavalleria; ma persero il principe del loro popolo e comandante della cavalleria, Vertisco, persona ormai anziana, a stento in grado di cavalcare, che però, com'è costume dei Galli, non aveva accampato la scusa dell'età al momento di rivestire il comando, né aveva voluto che si lottasse senza di lui. Il successo nello scontro esalta e accende lo spirito dei nemici, vista anche l'uccisione del principe e comandante dei Remi, mentre la sconfitta insegna ai nostri a disporre i posti di guardia dopo aver esplorato con più attenzione i luoghi e a inseguire con maggior criterio il nemico in fuga.
Frattanto, non conoscono pausa le scaramucce quotidiane al cospetto dei due accampamenti, nei pressi dei guadi e dei passaggi della palude. In una di esse i Germani, che Cesare aveva portato al di qua del Reno perché combattessero frammischiati ai cavalieri, varcarono tutti la palude con molta decisione, uccisero i pochi che tentavano la resistenza e inseguirono piuttosto caparbiamente gli altri, seminando il panico non solo in chi era pressato da vicino o veniva colpito da distante, ma anche tra i rincalzi, che stazionavano più lontano, come al solito. Fu una rotta vergognosa: scalzati, via via, dalle posizioni dominanti, non si fermarono finché non trovarono riparo nel loro accampamento; altri, in preda alla vergogna, proseguirono la fuga anche oltre il campo. Il pericolo corso sconvolse l'intero corpo nemico, al punto che si rende difficile stabilire se i Galli siano più inclini alla boria per insignificanti vittorie oppure pavidi di fronte a mediocri avversità.
Dopo aver trascorso parecchi giorni sempre nell'accampamento, i capi dei Bellovaci, quando vennero a sapere che il legato C. Trebonio si stava avvicinando con le legioni, nel timore di un assedio come ad Alesia, fanno allontanare di notte le persone inutili troppo anziane o deboli o prive di armi; con loro mandano tutti i bagagli. Mentre dispiegavano la colonna, ancora in scompiglio e in disordine (un gran numero di carri, infatti, segue di solito i Galli anche negli spostamenti brevi), vengono sorpresi dal sorgere del sole. Allora schierano le truppe dinnanzi al loro campo, per impedire ai Romani l'inizio dell'inseguimento prima che la colonna dei bagagli si fosse allontanata abbastanza. Cesare, visto il pendio così erto, non giudicò opportuno attaccare i nemici pronti alla difesa e decise invece di far avanzare le legioni di quel tanto, che impedisse ai barbari di muoversi dalla loro posizione senza rischi, data la minaccia dei nostri. Poi notò che i due accampamenti erano sì divisi da una palude impraticabile - un ostacolo in grado di frenare la rapidità dell'inseguimento - ma che una catena di colli, al di là della palude, raggiungeva quasi il campo nemico e ne era separata solo da una piccola valle. Allora, getta ponti sulla palude, la varca con le legioni e giunge rapidamente su una spianata in cima ai colli, protetta su entrambi i lati da scoscesi pendii. Qui ricompone le legioni e raggiunge l'estremità della spianata, dove forma la linea di battaglia. Da qui, i dardi scagliati dalle macchine da lancio potevano piovere sui nemici disposti a cuneo.
I barbari, forti della posizione, non avrebbero rifiutato lo scontro, se i Romani avessero tentato un attacco al colle; ma non potevano inviare soldati in piccoli gruppi, per evitare che si scoraggiassero, una volta sparpagliati; perciò mantennero la stessa formazione. Cesare, di fronte alla loro pervicacia, lascia pronto un distaccamento di venti coorti e, tracciato il campo, ordina di fortificarlo. Terminati i lavori, schiera le legioni, le dispone, in pieno assetto, dinnanzi al vallo e piazza di guardia i cavalieri con i loro cavalli tenuti a briglia. I Bellovaci, vedendo i Romani pronti all'inseguimento e non potendo né pernottare, né rimanere più a lungo in quel luogo senza correre pericoli, decidono la ritirata con il seguente stratagemma: le fascine di paglia e frasche su cui sedevano (infatti, i Galli sono soliti sedere su fascine, come ricorda Cesare nei precedenti commentari) e che abbondavano nel loro accampamento, se le passarono di mano in mano e le posero dinnanzi alla loro linea. Quando il giorno volgeva al termine, contemporaneamente, a un segnale stabilito, le incendiano. Così, un muro di fiamme, all'improvviso, coprì ai Romani la vista di tutte le truppe nemiche. E subito i barbari ripiegarono con grandissima rapidità.
Cesare, anche se non aveva potuto vedere la ritirata dei nemici per le fiamme che gli si paravano dinnanzi, sospettava comunque che lo stratagemma servisse a una fuga. Perciò, fa avanzare le legioni e lancia all'inseguimento gli squadroni di cavalleria. Temendo, però, un'imboscata, nel caso che i nemici fossero rimasti nella loro posizione e cercassero solo di attirare i nostri in una zona svantaggiosa, procede con una certa lentezza. I cavalieri non osavano spingersi nella densissima cortina di fumo e di fiamme; se qualcuno vi era entrato per l'eccessivo slancio, vedeva a stento la testa del proprio cavallo; temendo, dunque, un agguato, lasciarono che i Bellovaci si ritirassero senza difficoltà. Così, dopo una fuga dettata dal timore, ma al contempo piena di astuzia, senza aver subito alcuna perdita, i nemici procedettero per non più di dieci miglia e si attestarono in una zona ben munita. Da lì, appostandosi di continuo con i cavalieri e i fanti, infliggevano gravi perdite ai Romani in cerca di foraggio.
Mentre gli agguati si facevano sempre più frequenti, da un prigioniero Cesare venne a sapere che Correo, il capo dei Bellovaci, aveva scelto seimila fanti tra i più forti e mille cavalieri tra il numero totale, per tendere una trappola nella zona in cui presumeva che si sarebbero spinti i Romani, vista l'abbondanza di grano e foraggio. Avvertito del piano, Cesare guida fuori dal campo più legioni del solito e manda in avanti la cavalleria, che, come di consueto, scortava i soldati in cerca di foraggio. Inserisce tra i cavalieri gruppi di ausiliari armati alla leggera. Dal canto suo, si avvicina il più possibile con le legioni.
I nemici, in agguato, dopo aver scelto una pianura non più ampia di un miglio in tutte le direzioni, circondata su ogni lato da selve o da un fiume inguadabile, si erano disposti tutt'attorno, per accalappiare la preda. I nostri, al corrente delle intenzioni nemiche, erano pronti alla lotta sia con le armi, sia nell'animo, e visto l'arrivo imminente delle legioni, non avrebbero rinunciato a nessun tipo di scontro: sul luogo dell'imboscata giunsero squadrone per squadrone. Al loro arrivo, Correo pensò che gli si offrisse l'occasione di agire: cominciò a mostrarsi con pochi uomini e attaccò i primi squadroni. I nostri resistono saldamente all'assalto, non si ammassano in un sol luogo, cosa che, quando si verifica negli scontri di cavalleria per un senso di paura, determina un grave danno proprio per il numero dei soldati.
I nostri, divisi in squadroni, si impegnavano a turno e in ordine sparso, senza permettere che il nemico aggirasse dai fianchi la fanteria. Ed ecco che, mentre Correo combatteva, altri rincalzi erompono dalle selve. Si scatenano accese mischie qua e là. Mentre la lotta si protraeva incerta, a poco a poco dalle selve avanza a ranghi serrati il grosso della fanteria nemica, che costringe alla ritirata i nostri cavalieri. In loro soccorso interviene rapidamente la nostra fanteria leggera, che precedeva le legioni, come avevo già detto: mescolati ai nostri squadroni di cavalleria affrontano con fermezza gli avversari. Per un certo tratto ci si batte con pari ardore; poi, conforme a una legge dei fatti d'arme, chi aveva resistito ai primi assalti dell'imboscata, ha la meglio, proprio perché non aveva patito lo svantaggio della sorpresa. Nel frattempo, le legioni si avvicinano e pervengono, di continuo, ai nostri e ai nemici notizie sull'arrivo del comandante con l'esercito in assetto di guerra. Di conseguenza, i nostri, rassicurati dal sostegno delle coorti, moltiplicano gli sforzi per non dover dividere l'onore del successo con le legioni, nel caso in cui la battaglia fosse andata troppo per le lunghe. I nemici si perdono d'animo e cercano da ogni parte vie di salvezza. Invano: vengono intrappolati dalle difficoltà dei luoghi, in cui avevano voluto rinserrare i Romani. Vinti e travolti, dopo aver perso il grosso delle truppe, scappano in preda al terrore, dirigendosi verso le selve o verso il fiume, ma tutti i fuggiaschi vengono massacrati dai nostri che li inseguivano con accanimento. Al contempo nessuna traversia piegò Correo: né si risolse a lasciare la mischia e a cercar riparo nelle selve, né acconsentì alla resa, che pure i nostri gli offrivano. Anzi, poiché combatté con estremo valore e ferì parecchi dei nostri, i vincitori, pieni d'ira, furono costretti a bersagliarlo di frecce.
Conclusasi così l'operazione, Cesare sopraggiunse mentre erano ancora freschi i segni della battaglia e pensò che i nemici, alla notizia di una tale disfatta, avrebbero spostato il campo, non distante - a quanto si diceva - oltre le otto miglia, più o meno, dal luogo della strage; perciò, nonostante il serio ostacolo rappresentato dal fiume, lo varca con l'esercito e avanza. I Bellovaci e gli altri popoli, intanto, accolgono i fuggiaschi, pochi e per di più feriti, che avevano evitato il peggio grazie alle boscaglie: apprendono che era stata una catastrofe, Correo era morto, la cavalleria e i fanti più valorosi annientati. Convinti che i Romani sarebbero ben presto sopraggiunti, al suono delle trombe radunano rapidamente l'assemblea e chiedono a gran voce di inviare a Cesare emissari e ostaggi.
Poiché tutti approvano la proposta, l'atrebate Commio ripara presso le genti germaniche da cui aveva ricevuto rinforzi per la guerra in corso. Gli altri inviano lì per lì un'ambasceria a Cesare e gli chiedono di accontentarsi, come punizione, dei danni che avevano subito: non l'avrebbe certo mai riservata, nella sua clemenza e umanità, neppure a nemici nel pieno delle forze e ai quali la potesse infliggere senza colpo ferire; le forze di cavalleria dei Bellovaci erano state distrutte; avevano perduto la vita molte migliaia di fanti scelti, a stento si erano salvati i pochi che avevano dato la notizia della strage. Comunque, pur di fronte a una disfatta così grave, dalla battaglia i Bellovaci un vantaggio lo avevano conseguito: Correo, il fautore della guerra, l'agitatore della folla, era morto. Finché lui era in vita, infatti, il senato non aveva mai avuto tanto potere, quanto la plebe ignorante.
Agli emissari che così lo pregavano, Cesare ricorda che nello stesso periodo, l'anno precedente, i Bellovaci e gli altri popoli della Gallia avevano intrapreso la guerra; ma proprio loro, più di tutti, erano rimasti ostinatamente attaccati alla decisione, né la resa degli altri li aveva ricondotti alla ragione. Sapeva e capiva che era assai facile attribuire ai morti la colpa dell'accaduto. Nessuno, però, è così potente da poter provocare e sostenere guerre con il solo, fragile appoggio della plebe, se incontra l'ostilità dei nobili, la resistenza del senato e l'opposizione della gente onesta. Si sarebbe accontentato, tuttavia, della pena che si erano attirati da soli.
La notte successiva, gli emissari riferiscono ai loro la risposta di Cesare e si radunano gli ostaggi. Si precipitano da Cesare le legazioni degli altri popoli, che stavano a vedere cosa sarebbe successo ai Bellovaci. Consegnano ostaggi, obbediscono agli ordini, tutti eccetto Commio: la paura gli impediva di mettere la propria vita nelle mani di chicchessia. L'anno precedente, infatti, mentre Cesare si trovava nella Gallia cisalpina per amministrare la giustizia, T. Labieno, avendo saputo che Commio sobillava i popoli e promuoveva una coalizione contro Cesare, pensò che si potesse soffocare il tradimento del Gallo senza venir tacciato di slealtà. Ritenne che Commio non avrebbe risposto a una convocazione all'accampamento; allora, per non renderlo più cauto con un tentativo del genere, inviò C. Voluseno Quadrato dietro pretesto di un colloquio, ma col solo scopo di eliminarIo. Mise a sua disposizione centurioni scelti, adatti al compito. Quando l'abboccamento ebbe luogo e Voluseno, come erano d'accordo, afferrò la mano di Commio, il centurione, o perché turbato dal compito insolito o per il pronto intervento del seguito del Gallo, non riuscì a ucciderlo; tuttavia, con il primo colpo lo ferì gravemente al capo. Le due parti sguainarono le spade, non tanto con l'intenzione di affrontarsi, quanto di fuggire: i nostri credevano che la ferita di Commio fosse mortale, i Galli avevano capito che si trattava di una trappola e temevano che le insidie non si limitassero a quanto avevano visto. Da allora, così almeno si diceva, Commio aveva deciso di non presentarsi mai più al cospetto di un Romano.
Dopo aver assoggettato le genti più bellicose, Cesare vide che ormai più nessun popolo preparava la guerra per resistergli e che, anzi, molti lasciavano le città e fuggivano dalle campagne per non sottostare al dominio in atto. Decide, perciò, di inviare l'esercito in diverse zone del paese. Unisce a sé il questore M. Antonio con la dodicesima legione. Con venticinque coorti manda il legato C. Fabio al capo opposto della Gallia, perché gli giungeva notizia che là alcuni popoli erano in armi e stimava insufficiente il presidio delle due legioni agli ordini del legato C. Caninio Rebilo, che si trovava nella zona. Richiama T. Labieno; la quindicesima legione, che aveva svernato con Labieno, la spedisce nella Gallia togata, a difesa delle colonie dei cittadini romani; lo scopo era di evitare guai - dovuti alle scorrerie dei barbari - simili a quelli capitati l'estate precedente ai Tergestini, che erano stati sorpresi da un attacco improvviso e avevano visto saccheggiate le loro terre. Dal canto suo, punta verso la regione di Ambiorige per devastarla e far razzie; disperando di ridurre in suo potere l'uomo - Ambiorige, atterrito, continuava a fuggire - stimava come cosa più confacente alla propria dignità devastarne i territori, con popolazione, case, bestiame: Ambiorige, odiato dai suoi, se la sorte ne avesse risparmiato qualcuno, non avrebbe potuto ritornare nella sua città, dopo le tante sciagure che aveva provocato.
Dopo aver inviato in ogni angolo del paese di Ambiorige legioni o truppe ausiliarie e aver seminato la desolazione con stragi, incendi, rapine, dopo aver ucciso o catturato un gran numero di uomini, Cesare spedisce Labieno con due legioni nelle terre dei Treveri. I Treveri, per la vicinanza con i Germani, erano abituati a far guerra tutti i giorni; per il loro grado di civiltà e la loro natura selvaggia non erano molto diversi dai Germani stessi e non ubbidivano mai agli ordini, se non costretti da un esercito.
Nel frattempo, grazie a una lettera e ai messi inviati da Durazio - rimasto sempre fedele all'alleanza con i Romani, mentre una parte del suo popolo aveva defezionato - il legato C. Caninio, avvertito che un gran numero di nemici si era raccolto nelle terre dei Pictoni, si dirige alla città di Lemono. Era sul punto di raggiungerla, quando riceve dai prigionieri informazioni più dettagliate: alla testa di molte migliaia di uomini Dumnaco, capo degli Andi, aveva stretto d'assedio Durazio in Lemono. Così, non osando arrischiare in uno scontro coi nemici le sue legioni, troppo deboli, stabilì il campo in una zona ben munita. Dumnaco, saputo dell'arrivo di Caninio, volge tutte le truppe contro le legioni e comincia l'assalto all'accampamento dei Romani. Dopo aver speso diversi giorni nell'attacco, a prezzo di gravi perdite e senza riuscire a far breccia in nessun punto delle fortificazioni, Dumnaco torna ad assediare Lemono.
Nello stesso tempo il legato C. Fabio accetta la resa di parecchi popoli, la sancisce mediante ostaggi e viene avvisato di ciò che stava accadendo tra i Pictoni da una lettera di Caninio. A tale notizia, muove in soccorso di Durazio. Appena lo informano dell'arrivo di Fabio, Dumnaco dispera ormai della salvezza, perché avrebbe dovuto, a un tempo, affrontare sia i Romani, sia i rinforzi esterni, nonché sorvegliare e temere gli abitanti di Lemono. Con rapidità, dunque, ripiega con tutte le truppe e pensa di non poter essere abbastanza al sicuro, se non dopo aver condotto l'esercito oltre la Loira, un fiume che, per la sua imponenza, poteva essere varcato solo su ponte. Fabio, anche se non aveva ancora avvistato i nemici, né si era ricongiunto a Caninio, avvalendosi delle informazioni di chi conosceva la natura della zona, ritenne assai probabile che i nemici, atterriti, si sarebbero diretti là, dove effettivamente si stavano dirigendo. Così, con le sue truppe muove verso lo stesso ponte e ordina alla cavalleria di precedere l'esercito, ma a una distanza di marcia tale, che le consentisse il rientro nell'accampamento comune senza affaticare i cavalli. I nostri cavalieri, secondo gli ordini, partono all'inseguimento e si rovesciano sulla schiera di Dumnaco: avendo aggredito i nemici, già in fuga e atterriti, mentre erano ancora carichi di bagagli e in marcia, ne uccidono molti, si impadroniscono di un ricco bottino. Eseguita con successo la missione, rientrano al campo.
La notte successiva Fabio manda in avanscoperta i cavalieri, pronti allo scontro e a ritardare la marcia di tutto l'esercito nemico fino all'arrivo di Fabio stesso. Perché le cose procedessero secondo gli ordini, Q. Azio Varo, prefetto della cavalleria, uomo di straordinario coraggio e senno, sprona i suoi e, dopo aver inseguito le schiere nemiche, dispone una parte degli squadroni in zone favorevoli, mentre con il resto attacca battaglia. La cavalleria nemica si batte con particolare audacia, perché a essa subentravano i fanti, che, piazzatisi lungo tutta la colonna, recavano aiuto ai propri cavalieri contro i nostri. Si accende un'aspra battaglia. I nostri, infatti, disprezzavano i nemici già sconfitti il giorno precedente e, ben sapendo che le legioni erano in arrivo, combattevano contro i fanti con straordinario ardore, sia per la vergogna di un'eventuale ritirata, sia per il desiderio di risolvere da soli la battaglia; i nemici, dal canto loro, in base all'esperienza del giorno precedente, credevano che non sarebbero giunte altre truppe romane e pensavano di avere trovato l'occasione per annientare la nostra cavalleria.
La battaglia proseguiva già da un pezzo, violentissima. Dumnaco schiera in formazione i fanti, in modo che loro e i cavalieri potessero darsi reciproco aiuto. Ma ecco apparire, all'improvviso, le legioni a ranghi serrati. A tale vista gli squadroni nemici sono colti da terrore, si diffonde il panico tra i fanti, lo scompiglio regna tra le salmerie: con alti clamori corrono qua e là, si danno a una fuga disordinata. Allora i nostri cavalieri, che poco prima si erano battuti con estremo valore contro la resistenza degli avversari, trascinati dalla gioia per la vittoria, levano alte grida da ogni parte e circondano i nemici in rotta: finché i cavalli hanno la forza di inseguire e le destre di tirar fendenti, seminano morte. Così, dopo aver ucciso più di dodicimila nemici, che fossero in armi oppure che le avessero gettate per il panico, catturano tutta la colonna delle salmerie.
Si viene a sapere che, dopo la fuga, il senone Drappete aveva raccolto non più di duemila fuggiaschi e puntava contro la provincia (costui, all'inizio dell'insurrezione in Gallia, aveva raccattato dovunque dei furfanti, spinto gli schiavi alla libertà, chiamato a sé gli esuli di tutte le genti, riuscendo poi, con razzie improvvise, a intercettare le salmerie e i rifornimenti dei Romani). Con lui aveva preso l'iniziativa il cadurco Lucterio, che all'inizio della defezione della Gallia aveva deciso di attaccare la provincia, come sappiamo dal precedente commentario. Il legato Caninio, alla testa di due legioni, parte al loro inseguimento, per evitare che, per via dei danni o dei timori nutriti dalla provincia, su di noi ricadesse grave onta per le scorrerie di un gruppo di criminali.
C. Fabio, con il resto delle truppe, si dirige verso i Carnuti e gli altri popoli, perché sapeva che le loro truppe avevano registrato gravi perdite nella battaglia da lui combattuta contro Dumnaco. Non dubitava che dopo la recente disfatta avrebbero abbassato la testa; ma passato un certo periodo di tempo, avrebbero anche potuto riprendere la rivolta per istigazione dello stesso Dumnaco. Nella circostanza C. Fabio agisce con la più felice e rapida prontezza nel sottomettere i vari popoli. I Carnuti, che nonostante i ripetuti rovesci non avevano mai chiesto pace, adesso gli consegnano ostaggi e si arrendono; le altre genti, stanziate nelle regioni più lontane della Gallia, che si affacciano sull'Oceano e si chiamano aremoriche, indotte dal prestigio dei Carnuti, obbediscono agli ordini senza frapporre indugi, appena arriva C. Fabio con le legioni. Dumnaco, cacciato dalle sue terre, è costretto a vagare, solo e nascosto, e a dirigersi verso le regioni estreme della Gallia.
Ma Drappete e Lucterio, appreso l'arrivo di Caninio e delle legioni, convinti di non poter entrare in provincia senza andar incontro a una sicura disfatta - tanto più che li inseguiva l'esercito romano - e di non aver più la libera possibilità di spostarsi e di compiere razzie, si fermano nei territori dei Cadurci. Un tempo, quando le cose erano tranquille, Lucterio aveva presso i suoi concittadini grande potere e anche adesso, instancabile fautore di piani di rivolta, godeva tra i barbari di grande autorità. Perciò, con i soldati suoi e di Drappete, occupa la città di Uxelloduno, molto ben protetta per posizione e che era già stata in passato sotto la sua tutela, e guadagna alla sua causa gli abitanti.
C. Caninio giunge lì in tutta fretta e si accorge che la città, su tutti i lati, era difesa da rocce a picco, di modo che, pur in assenza di difensori, la scalata risultava comunque difficile per degli armati. D'altro canto, vede la quantità di salmerie degli assediati: se i barbari avessero cercato di portarle via di nascosto, non avrebbero potuto sfuggire non dico alla cavalleria, ma neppure alle legioni. Allora divide in tre gruppi le coorti e pone tre distinti campi in un luogo molto elevato. Da qui, a poco a poco, per quanto permetteva il numero delle sue truppe, cominciò a circondare la città con un vallo.
Appena se ne accorgono, gli assediati, inquieti per il tristissimo ricordo di Alesia, temono l'eventualità di un blocco simile. Tra tutti Lucterio in particolare, che quel pericolo lo aveva corso, invita a preoccuparsi del grano. Decidono, per consenso generale, di lasciare lì parte dell'esercito e di recarsi personalmente in cerca di frumento con truppe leggere. Approvata la decisione, la notte successiva Drappete e Lucterio lasciano duemila armati in città e si allontanano con i rimanenti. Si trattengono pochi giorni e raccolgono una gran quantità di grano nelle terre dei Cadurci, che in parte desideravano aiutarli nell'approvvigionamento, in parte non potevano impedirne la raccolta. Di tanto in tanto, poi, attaccano le nostre ridotte con assalti notturni. Per tale motivo, Caninio rallenta i lavori di fortificazione tutt'intorno alla città, nel timore di non poterli difendere, una volta terminati, oppure di essere costretto a dislocare in più settori guarnigioni troppo deboli.
Dopo essersi procurati grandi scorte di grano, Drappete e Lucterio si attestano a non più di dieci miglia dalla città, nell'intento di portare da qui, a poco a poco, il grano entro le mura. Si dividono le incombenze: Drappete con parte delle truppe rimane al campo per difenderlo, Lucterio guida verso la città le bestie da soma. Dispone dei presidi e, verso l'ora decima della notte, comincia a introdurre il grano in città per anguste strade tra i boschi. Ma i rumori della colonna in movimento erano stati uditi dalle sentinelle del nostro campo: quando gli uomini mandati in esplorazione riferiscono cosa stava accadendo, dalle ridotte più vicine Caninio esce rapidamente con le coorti già pronte e, sul fare dell'alba, attacca i nemici occupati nel trasporto del grano. I Galli, sconvolti dall'attacco improvviso, fuggono verso i loro posti di difesa; non appena i nostri videro i nemici armati, con furia ancora maggiore si lanciarono su di essi e non ne fecero prigioniero nessuno. Da qui Lucterio cerca scampo con pochi dei suoi, senza neppure rientrare al campo.
Condotta a termine con successo l'operazione, Caninio apprende dai prigionieri che parte delle truppe, con Drappete, era rimasta nell'accampamento a non più di dodici miglia. La cosa gli viene confermata da diverse fonti ed egli si rende conto che, dopo la rotta di uno dei due capi, poteva con facilità schiacciare gli altri nemici atterriti, ma riteneva ben difficile l'eventualità per lui più fortunata, ossia che qualche superstite fosse rientrato all'accampamento nemico, portando a Drappete la notizia della disfatta subita. Fare un tentativo, comunque, gli sembrava che non comportasse alcun rischio: manda in avanti, verso il campo nemico, la cavalleria al completo e i fanti germanici, uomini straordinariamente veloci; dal canto suo, sistema una legione nei tre diversi accampamenti, l'altra la porta con sé senza bagagli. Quando è ormai vicino al nemico, gli esploratori, mandati in avanscoperta, lo avvisano che i barbari, secondo la loro consuetudine, avevano lasciato le alture e posto il campo lungo le rive del fiume; inoltre, i Germani e i cavalieri erano piombati all'improvviso sui nemici che non se l'aspettavano e avevano attaccato battaglia. Appena lo sa, avanza con la legione in armi e schierata. Così, al segnale, da tutte le parti repentinamente i nostri occupano le alture. Subito i Germani e i cavalieri, avendo visto le insegne della legione, combattono con estremo ardore. Le coorti si lanciano immediatamente all'attacco da ogni lato: tutti i nemici vengono uccisi o catturati, i nostri si impadroniscono di un grande bottino. Nella battaglia cade prigioniero lo stesso Drappete.
Caninio, dopo aver compiuto con grande successo la missione, quasi senz'alcun ferito, ritorna ad assediare la città. Adesso che aveva annientato il nemico esterno, per timore del quale prima non aveva potuto dividere i presidi e stringere d'assedio gli abitanti con un'opera di fortificazione, ordina di procedere ai lavori su tutta la linea. Il giorno seguente giunge C. Fabio con tutte le truppe e assume il comando delle operazioni d'assedio per un settore della città.
Cesare, frattanto, lascia il questore M. Antonio tra i Bellovaci con quindici coorti, per togliere ai Belgi la possibilità di scatenare altre rivolte. Dal canto suo, visita gli altri popoli, impone nuovi ostaggi, tranquillizza e rassicura la gente tutta in preda alla paura. Poi, giunge nelle terre dei Carnuti, dove era scoppiata l'insurrezione, come Cesare ha esposto nel precedente commentario. Siccome intuiva che i Carnuti, consci della loro colpa, nutrivano forti apprensioni, al fine di liberare al più presto la popolazione da ogni timore esige la punizione del responsabile del crimine e istigatore della guerra, Gutuatro. Tutti, anche se non si era mai messo nelle mani dei suoi concittadini, gli dettero rapidamente la caccia con zelo, e fu condotto al nostro campo. Cesare, contro la propria natura, è costretto a giustiziarlo per l'accorrere in massa dei soldati, che in Gutuatro vedevano il responsabile di tutti i pericoli e le pene patite in guerra; colpito a nerbate fino a perdere la conoscenza, fu poi decapitato con la scure.
Mentre era ancora dai Carnuti, grazie alle frequenti lettere di Caninio viene informato delle novità di Drappete e Lucterio e dell'irriducibile resistenza degli abitanti di Uxelloduno. Cesare, sebbene ne disprezzasse lo scarso numero, giudicava di dover infliggere a tanta pervicacia una dura lezione, perché la Gallia intera non pensasse che nella resistenza ai Romani le era mancata non la forza, ma la costanza, oppure per evitare che, seguendo l'esempio, gli altri popoli cercassero di rendersi liberi, confidando sui vantaggi dei luoghi; inoltre, a tutti i Galli - ben lo sapeva - era noto che gli restava una sola estate da passare in provincia, e se per quel lasso di tempo riuscivano a resistere, non avrebbero più dovuto temere alcun pericolo. Così, lascia il legato Q. Caleno con due legioni e lo incarica di seguirlo a tappe normali; dal canto suo, si dirige il più velocemente possibile alla volta di Caninio con tutta la cavalleria.
Dopo aver raggiunto Uxelloduno contro le aspettative di tutti, vede che la città è già serrata dalle nostre fortificazioni e si rende conto che non si può più recedere dall'assedio. Saputo dai fuggiaschi che in città c'erano abbondanti scorte di grano, cercò di tagliare i rifornimenti idrici. Un fiume scorreva in mezzo a una valle profonda, che attorniava quasi tutto il monte su cui sorgeva Uxelloduno. La conformazione naturale della zona impediva di deviarlo: scorreva, infatti, così vicino ai piedi del monte, che non era assolutamente possibile scavare canali di derivazione. Ma gli assediati, per raggiungere il fiume, dovevano discendere una china disagevole e molto ripida: se i nostri li ostacolavano, non sarebbero riusciti né ad arrivare al fiume, né a ritirarsi per l'erta salita, senza il rischio di ferite o addirittura di morte. Appena Cesare si rese conto di tale difficoltà dei nemici, appostò arcieri e frombolieri e dispose anche macchine da lancio proprio nelle zone di fronte ai sentieri più praticabili, impedendo agli abitanti di attingere acqua dal fiume.
Allora tutta la gente della città scese a prendere l'acqua in un solo luogo, proprio ai piedi delle mura, dove sgorgava una grande fonte, in corrispondenza della zona in cui, per un intervallo di circa trecento piedi, il fiume non chiudeva il suo anello intorno al monte. Tutti avrebbero voluto impedire agli assediati di avvicinarsi alla fonte, ma solo Cesare ne vide il modo: proprio dirimpetto cominciò a spingere le vinee sulle falde del monte e a costruire un terrapieno, a prezzo di grandi fatiche e continui scontri. Gli assediati, infatti, correvano giù dalle loro posizioni dominanti e dall'alto combattevano senza rischi e colpivano molti dei nostri che continuavano ad avanzare con tenacia; i nostri soldati, comunque, non si lasciano distogliere dal sospingere le vinee e dal superare le difficoltà del terreno con faticosi lavori. Al contempo, scavano gallerie sotterranee verso le vene e l'alveo della sorgente, un'operazione che si poteva effettuare senza alcun rischio. né sospetto da parte dei nemici. Viene costruito un terrapieno alto sessanta piedi, su cui è posta una torre di dieci piani, che doveva non tanto raggiungere l'altezza delle mura (un risultato impossibile con qualsiasi tipo di costruzione), quanto sovrastare il luogo dove nasceva la sorgente. Dalla torre le macchine da lancio scagliavano dardi verso l'accesso alla fonte e gli abitanti non potevano rifornirsi senza pericolo. Così, non solo il bestiame e i giumenti soffrivano la sete, ma anche la grande massa dei nemici.
Atterriti dal pericolo, gli abitanti riempiono barili di sego, pece, assicelle, gli danno fuoco e li fanno rotolare sulle nostre costruzioni. Nello stesso tempo attaccano risolutamente, in modo che la lotta minacciosa distolga i Romani dall'estinguere l'incendio. Subito alte fiamme si levano in mezzo alle nostre opere di difesa. Infatti, i barili, dovunque rotolassero a precipizio lungo la china, bloccati dalle vinee e dal terrapieno, appiccavano il fuoco agli ostacoli sul loro cammino. Tuttavia, i nostri soldati, benché costretti a un genere di combattimento pericoloso e in posizione sfavorevole, tenevano testa a tutte le avversità con indomito coraggio. Lo scontro difatti si svolgeva in alto, davanti agli occhi del nostro esercito; da entrambe le parti si levavano alte grida. Così, quanto più uno era conosciuto per il suo coraggio, tanto più si esponeva ai dardi dei nemici e alle fiamme, per rendere ancor più noto e provato il suo valore.
Cesare, vedendo che parecchi dei suoi venivano colpiti, ordina alle coorti di scalare il monte da tutti i lati della città e di levare dappertutto violenti clamori, simulando di dover occupare le mura. Gli abitanti, terrorizzati dalla nostra manovra, inquieti su ciò che succedeva altrove, richiamano i soldati che attaccavano le nostre costruzioni e li dispongono sulle mura. Così, i nostri, chiusosi lo scontro, presto in parte domano, in parte isolano l'incendio che si era propagato sulle nostre difese. Eppure gli assediati continuavano testardamente la difesa e, pur avendo perso per sete gran parte dei loro, rimanevano fermi nel loro proposito; alla fine i nostri, con le gallerie, riuscirono a tagliare le vene della sorgente e a deviare l'acqua. Il che inaridì all'improvviso una fonte perenne e provocò negli abitanti la caduta di ogni speranza, al punto che pensarono si trattasse non di opera umana, ma della volontà divina. Così, costretti dalla necessità, si arresero.
Cesare sapeva che a tutti era nota la sua mitezza e non temeva di apparire un individuo crudele se avesse assunto provvedimenti piuttosto severi; d'altronde, non vedeva sbocco ai suoi disegni, se in diverse zone i Galli avessero continuato a prendere iniziative del genere. Ritenne opportuno, allora, dissuadere gli altri con un castigo esemplare. Dunque, mozzò le mani a chiunque avesse impugnato le armi, ma li mantenne in vita, per lasciare più concreta testimonianza di come puniva i traditori. Drappete, catturato da Caninio, come ho detto, o per l'umiliazione e il dolore delle catene o per la paura di un supplizio ancor più atroce non toccò cibo per un po' di giorni e così morì. Nello stesso tempo Lucterio, che era fuggito dopo la battaglia, come ho scritto in precedenza, aveva affidato la propria persona all'arverno Epasnacto (infatti, mutando luogo di frequente, si metteva nelle mani di molti, poiché gli sembrava rischioso dimorare troppo a lungo in qualsiasi posto, ben conscio di quanto doveva essergli nemico Cesare). L'arverno Epasnacto, però, fedelissimo alleato del popolo romano, senz'alcuna esitazione lo mette in catene e lo consegna a Cesare.
Labieno, nel frattempo, giunge a uno scontro di cavalleria nelle terre dei Treveri, con successo; uccisi molti dei Treveri e dei Germani, che non negavano a nessuno rinforzi contro i Romani, ridusse in suo potere, vivi, i capi nemici, tra cui l'eduo Suro, che godeva di straordinaria fama quanto a valore e nobiltà ed era il solo tra gli Edui a non aver ancora deposto le armi.
Appena ne è informato, Cesare, constatato che in tutte le parti della Gallia le operazioni erano state condotte con successo, giudicando che dopo la campagna estiva dell'anno precedente il paese era ormai vinto e piegato, visto che non si era mai recato in Aquitania, ma l'aveva solo parzialmente sconfitta grazie a P. Crasso, con due legioni si dirige in quella regione della Gallia, per spendervi l'ultimo periodo della campagna estiva. Come in tutti gli altri casi, porta a termine le operazioni con rapidità e successo. Infatti, tutti i popoli dell'Aquitania inviarono a Cesare emissari e gli consegnarono ostaggi. Quindi, con la scorta della cavalleria parte per Narbona e incarica i legati di condurre l'esercito ai quartieri d'inverno. Stanziò in Belgio quattro legioni con M. Antonio e i legati C. Trebonio e P. Vatinio; due le trasferì nelle terre degli Edui, di cui ben conosceva il prestigio in tutta la Gallia; presso i Turoni, al confine coi Carnuti, ne collocò due per tenere a bada tutta quella regione che si affacciava sull'Oceano; le due rimanenti le pose nei territori dei Lemovici, non lontano dagli Arverni, per non lasciare sguarnita nessuna parte della Gallia. Si trattenne in provincia pochi giorni, toccò rapidamente tutti i centri giudiziari, venne informato dei conflitti politici, attribuì premi ai benemeriti (del resto, per lui era assai facile capire quali sentimenti ciascuno avesse nutrito durante l'insurrezione di tutta la Gallia, a cui aveva potuto far fronte grazie alla lealtà e al sostegno della suddetta provincia). Sistemate tali faccende, rientrò presso le legioni stanziate in Belgio e svernò a Nemetocenna.
Qui lo avvertirono che l'atrebate Commio era venuto a battaglia con la sua cavalleria. Quando Antonio era giunto agli accampamenti invernali, il popolo degli Atrebati era rimasto fedele. Ma Commio, da quando era stato ferito - l'ho ricordato in precedenza - era sempre a disposizione dei suoi concittadini, pronto a ogni sollevazione, perché non mancasse, a chi voleva la guerra, un fomentatore e un capo. Adesso, poiché il suo popolo obbediva ai Romani, Commio viveva di scorrerie con i suoi cavalieri e, infestando le strade, intercettava spesso le colonne di rifornimenti dirette ai quartieri d'inverno dei Romani.
Ad Antonio era stato assegnato il prefetto della cavalleria C. Voluseno Quadrato, che svernava con lui. Antonio lo manda a inseguire la cavalleria nemica. Voluseno, allo straordinario valore, accompagnava un odio feroce nei confronti di Commio, perciò obbedì all'ordine ancor più volontieri. Così, tendendo imboscate, attaccava con notevole frequenza i cavalieri nemici e dava vita a scontri coronati da successo. In ultimo, mentre si combatteva con particolare asprezza, Voluseno, con pochi dei suoi, insegue Commio con eccessiva ostinazione, per la smania di catturarlo; e quello, fuggendo a precipizio, costringe Voluseno ad allontanarsi troppo. Poi, nemico com'era di Voluseno, all'improvviso fa appello alla fedeltà e all'aiuto dei suoi, chiede loro di non lasciar invendicate le ferite che gli erano state inferte a tradimento: volge il cavallo e, spingendosi davanti a tutti, si lancia inaspettatamente contro il prefetto. Altrettanto fanno i suoi cavalieri: costringono i pochi nostri a volgere le spalle e li inseguono. Commio, pungolando ferocemente coi talloni il cavallo, affianca il destriero di Quadrato e, lancia in resta, gli trapassa con violenza la coscia. Vedendo il prefetto colpito, i nostri non esitano a bloccarsi di colpo, volgono i cavalli e respingono il nemico. Subito molti degli avversari, scombussolati dall'impetuoso assalto dei nostri, vengono feriti; alcuni cadono sotto gli zoccoli dei cavalli mentre cercavano la fuga, altri sono catturati. Il comandante nemico, grazie alla velocità del suo cavallo, riesce a scamparla; in quella battaglia vittoriosa, però, il prefetto romano rimase gravemente ferito, al punto che sembrava dovesse morire, e fu riportato all'accampamento. Ma Commio, vuoi, che sentisse placato il proprio rancore, vuoi per la perdita della maggior parte dei suoi, invia una legazione ad Antonio: sarebbe rimasto dove gli avesse ordinato e avrebbe obbedito a ogni comando, sancendo la promessa con l'invio di ostaggi; di una sola cosa lo pregava, che, in ragione del suo timore, gli fosse concesso di non comparire al cospetto di nessun romano. Antonio, giudicando che la richiesta nasceva da una giusta paura, accordò il permesso e accolse gli ostaggi.
So che Cesare ha composto singoli commentari per ciascun anno, ma non ho ritenuto il caso di fare altrettanto, perché l'anno seguente, durante il consolato di L. Paolo e C. Marcello, non si verificarono in Gallia imprese di rilievo. Tuttavia, perché si sappia in quali zone rimasero in quell'anno Cesare e l'esercito, ho deciso di scrivere poche pagine e di unirle al presente commentario.
Cesare, mentre svernava in Belgio, mirava a un unico scopo: tener legate all'alleanza le varie genti e non fornire a nessuno speranze o motivi di guerra. Infatti, niente gli pareva meno auspicabile, alla vigilia della sua uscita di carica, che trovarsi costretto ad affrontare un conflitto; altrimenti, al momento della sua partenza con l'esercito, si sarebbe lasciato alle spalle una guerra che tutta la Gallia avrebbe intrapreso con entusiasmo, liberata dal pericolo della sua presenza. Così, distribuendo titoli onorifici ai vari popoli, accordando grandissime ricompense ai loro principi, non imponendo nuovi oneri, la Gallia, prostrata da tante sconfitte, riuscì con facilità a tenerla in pace, garantendo più lieve l'assoggettamento.
Alla fine dell'inverno, contro la sua abitudine, si diresse a marce forzate in Italia, per rivolgersi ai municipi e alle colonie, a cui aveva raccomandato la candidatura al sacerdozio di M. Antonio, suo questore. Da un lato, ben volentieri faceva valere tutto il suo prestigio per un uomo a lui così legato, che poco prima aveva mandato a presentare la sua candidatura; dall'altro voleva colpire duramente il potente partito di quei pochi che, con una sconfitta elettorale di M. Antonio, desideravano minare l'autorità di Cesare, allo scadere della sua carica. E anche se durante il viaggio, prima di giungere in Italia, aveva saputo che M. Antonio era stato eletto augure, stimò di avere, nondimeno, un buon motivo per visitare i municipi e le colonie, perché voleva ringraziarli di aver accordato ad Antonio il loro favore con un'affluenza davvero massiccia. Allo stesso tempo voleva raccomandare la propria candidatura per il consolato dell'anno successivo, visto che i suoi avversari con insolenza menavano vanto sia per l'elezione di L. Lentulo e C. Marcello, creati consoli, al solo scopo di spogliare Cesare di ogni carica e dignità, sia di aver sottratto il consolato a Ser. Galba, che, nonostante godesse di maggior credito e avesse raccolto più voti, era stato escluso per i suoi vincoli di parentela con Cesare e la lunga militanza come suo legato.
L'arrivo di Cesare fu accolto con incredibili onoranze e manifestazioni d'affetto da parte dei municipi e delle colonie. Era la prima volta, infatti, che giungeva dopo la famosa sollevazione generale della Gallia. Di tutto ciò che si poteva escogitare, niente fu tralasciato per ornare le porte, le vie e tutti i luoghi in cui Cesare doveva passare. Tutta la popolazione, insieme ai bambini, gli si faceva incontro, dappertutto venivano immolate vittime, le piazze e i templi erano pieni di mense imbandite: si poteva pregustare la gioia di un trionfo davvero attesissimo. Così grande era la magnificenza dispiegata dai ricchi, l'entusiasmo manifestato dai poveri.
Dopo aver percorso tutte le regioni della Gallia togata, con estrema rapidità Cesare rientrò a Nemetocenna presso l'esercito; richiamate nelle terre dei Treveri le legioni che erano nei campi invernali, le raggiunse e passò in rassegna le truppe. Pose T. Labieno a capo della Gallia togata, per guadagnare un maggior favore alla sua candidatura al consolato. Spostava l'esercito di tanto, quanto gli pareva utile mutare i luoghi per ragioni igieniche. In quel periodo gli giungeva ripetutamente voce che i suoi avversari facevano pressioni su Labieno e veniva avvertito che, per le manovre di pochi, si cercava di sottrargli parte delle truppe mediante un intervento del senato. Tuttavia, non prestò fede alle voci su Labieno, né si lasciò indurre ad atti che contrastassero con l'autorità del senato. Era convinto, infatti, che se vi fosse stata una libera votazione dei senatori, la sua causa avrebbe prevalso con facilità. E C. Curione, tribuno della plebe, avendo preso a difendere le ragioni e l'onore di Cesare, aveva più volte detto al senato che, se il timore delle armi di Cesare infastidiva qualcuno, il potere assoluto e gli armamenti di Pompeo incutevano al foro non meno terrore, e aveva proposto che entrambi deponessero le armi e congedassero i loro eserciti: la città, così, sarebbe ritornata libera e indipendente. E non si limitò a proporlo, ma prese, lui, l'iniziativa di una votazione per spostamento: a essa si opposero i consoli e gli amici di Pompeo e tirarono in lungo la cosa fino a che l'assemblea non si sciolse.
Era una prova lampante dell'unanimità del senato e coincideva con quanto era accaduto in precedenza. L'anno prima, infatti, M. Marcello aveva cercato di scalzare Cesare dalla sua carica e, contro una legge di Pompeo e Crasso, aveva tenuto al senato una relazione sulle province di Cesare, prima della scadenza del mandato. Dopo la discussione, Marcello, che ricercava ogni prestigio politico dalla sua ostilità contro Cesare, aveva messo ai voti la sua proposta, ma il senato, compatto, l'aveva respinta. L'insuccesso non aveva demoralizzato i nemici di Cesare, anzi li incitava a prepararsi a misure più gravi, con cui costringere il senato ad approvare ciò che loro volevano.
Il senato, in seguito, decise che per la guerra contro i Parti Cn. Pompeo e C. Cesare inviassero una legione a testa; ma è chiaro che le due legioni sono sottratte a uno solo. Cn. Pompeo, infatti, diede, come proveniente dalle sue, la prima legione, da lui inviata a Cesare dopo averla arruolata nella provincia di Cesare stesso. Quest'ultimo, tuttavia, benché non ci fossero dubbi sulle intenzioni dei suoi avversari, restituì la legione a Pompeo e, a proprio titolo, rispettando la delibera del senato, invia la quindicesima, dislocata in Gallia cisalpina. Al posto di questa, invia in Italia la tredicesima legione, a protezione dei posti di difesa evacuati dalla quindicesima. Assegna all'esercito i quartieri d'inverno: situa C. Trebonio in Belgio con quattro legioni e con altrettante invia C. Fabio nelle terre degli Edui. Pensava che, così, la Gallia sarebbe stata veramente sotto controllo, se le truppe avessero tenuto a bada i Belgi, che erano i più valorosi, e gli Edui, che godevano di grandissimo prestigio. Dal canto suo, parte per l'Italia.
Appena vi giunge, viene a sapere che, per iniziativa del console C. Marcello, le due legioni da lui fornite per la guerra contro i Parti, come da ordine del senato, erano invece state assegnate a Cn. Pompeo e trattenute in Italia. L'accaduto non lasciava dubbi su che cosa stessero tramando contro di lui, ma Cesare decise di sopportare tutto, finché gli restava qualche speranza di risolvere la questione in termini di diritto piuttosto che con le armi. Si diresse
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