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Limiti della strategia (di comunicazione) etico-sociale
Facendo riferimento al panorama aziendale degli ultimi venti anni, appare evidente un progressivo interesse nei confronti della rendicontazione etica. Le imprese europee hanno iniziato ad utilizzare modelli e concetti attinenti alle teorie di comportamento socialmente responsabile, già sviluppate negli anni '70 e '80 negli Stati Uniti. Oggi ci si trova di fronte ad un continuo aumento di codici etici, sezioni "ambientali" dei siti web aziendali, certificazioni internazionali (SA o ISO) ed aumenta costantemente la pubblicazione di bilanci sociali, di sostenibilità o ambientali.
Ma perché mai le imprese dovrebbero investire in questo ambito? E soprattutto, tutti questi generi di comunicazione, riescono effettivamente a rispondere ai bisogni di informazione degli stakeholders?
Come già accennato nel primo paragrafo del presente capitolo, aziende e imprese si concentrano principalmente sulla generazione di profitto, così come hanno sempre fatto nella loro storia. L'evoluzione dei mercati, la nascita forzosa di nuovi bisogni, la necessità costante di crescita per la sopravvivenza, hanno spinto le imprese ad individuare nuove strade che conducessero al profitto. Così, quando il mercato dei consumatori si è fatto più sensibile agli scandali finanziari, per il risalto mediatico dato ai danni arrecati ai risparmiatori, e all'argomento ambientale, di cui si è discusso "solo" scientificamente per anni e divenuto ultimamente, specie negli USA, una moda da seguire, le imprese hanno intuito tutta la valenza della "reputazione". Quello che fino a qualche decina di anni fa era un "asset" aziendale sul quale potevano influire pochi fattori, quasi tutti legati alla comunicazione sulla qualità del prodotto, per i consumatori, e sui profitti, per gli investitori, è divenuto il nuovo oggetto di attenzione, da espandere e sfruttare. Così l'impresa ha intuito il valore della reputazione e come da questa discendano persuasione ed approvazione sociale che si traducono in fiducia e fidelizzazione che a loro volta rientrano nell'obiettivo ultimo dell'impresa stessa: il profitto.
Quanto appena detto evidenzia ancora una volta la capacità delle imprese di intuire, seguire ed alle volte anticipare e guidare le esigenze e le tendenze dei mercati.
Venendo al secondo interrogativo in questione, c'è innanzitutto da chiedersi se le imprese moderne abbiano messo in atto tutte le modifiche richieste al fine di soddisfare i bisogni degli stakeholders, così anche se la attuale comunicazione sia sufficiente a fornire tutte le informazioni necessarie.
Guardando alle imprese che hanno intrapreso la strada della riorganizzazione per finalità etiche o sociali, si rileva facilmente lo sforzo fatto per modificare la strategia di azione, sia nella pratica dell'attività quotidiana, sia nella comunicazione all'esterno. L'impresa deve essere "accreditata" nella società civile, alla stregua del "buon cittadino", al fine di ottenere la fiducia delle terze parti e poter essere considerata un partner affidabile. Tale "accreditamento" non può che derivare dalla comunicazione. Il suo ruolo consiste dunque nel rendere possibile un dialogo aperto tra impresa e stakeholders da cui discende una revisione collegiale e congiunta dei processi aziendali. Lo sforzo dell'impresa è tanto evidente, quanto lo è la sua resistenza: ripensare comportamenti, azioni e mentalità non è un processo di semplice attuazione. Valorizzare quanto di "etico" è già interno all'impresa stessa, prima ancora di cominciare a riorganizzarsi, è forse il primo step da attuare. La resistenza al cambiamento, soprattutto mentale, può portare le imprese, specie in un primo momento, ad una comunicazione parziale in cui vengono pesantemente enfatizzati i risultati già presenti e tralasciati gli aspetti negativi. In questo si estrinseca il primo e più grande limite della reportistica sociale attuale: la volontarietà. Fino a quando le aziende saranno libere non solo di prendere la strada del comportamento etico-sociale (adesione che potrebbe essere obbligata dalle tendenze del mercato), ma soprattutto fino a quando non verrà stabilito un modello di riferimento che mostri e consenta di valutare tutte le variabili etiche, numeriche e qualitative, ci si troverà sempre di fronte a reports che si ispirano a modelli teorici ma che sono nella sostanza modificati più a fini propagandistici e pubblicitari che sostanziali. Nessuna impresa, impegnata nella sua costante attività di profitto, distrarrà delle risorse per collettare le informazioni indispensabili al calcolo di indici o, cosa di maggiore impatto organizzativo, per rivedere il piano dei conti affinché risponda meglio alle finalità etico-sociali.
Dal puro punto di vista del dibattito sulla responsabilità sociale è giusto interrogarsi su quale tipo di modulistica utilizzare, prevedere e suggerire la creazione di un "piano integrato della comunicazione etico-sociale", individuando i destinatari della comunicazione tramite una mappatura degli stakeholders e delle loro aspettative e valutando l'urgenza di tali aspettative e l'impatto di tali richieste sul comportamento dell'impresa. È altresì importante che le imprese introducano una contabilità parallela, che si affianchi a quella generale, mirata a fini sociali, che esamini i processi aziendali alla luce proprio delle aspettative e dei destinatari. Tale contabilità, analogamente a quella generale, consentirebbe la creazione di documenti riassuntivi da unire insieme in un Annual Report, integrato da un documento testuale che fornisca una chiave di lettura univoca e multidimensionale. Tutto ciò tenderebbe al risultato che già nel 1972 il Cassandro chiamava "bilancio oggettivo di impresa"[1].
Pur tuttavia, se tutto ciò appare corretto dal punto di vista dello studio e della teoria, non si può tralasciare l'esperienza della pratica aziendale. Infatti, nonostante la rapida diffusione degli strumenti di comunicazione etico-sociale, sono ancora poche le imprese che riescono a trarre da essi il massimo del ritorno possibile. Spesso sono gli stessi stakeholders che interrogati sull'argomento, dichiarano di non essere a conoscenza di questi documenti[2]. La pratica suggerisce due semplici conclusioni: o le imprese non hanno ancora investito a sufficienza in questo genere di comunicazione, oppure proprio la parte finale del processo di redazione di questi documenti, la diffusione, non ha ancora prodotto i risultati sperati. In entrambi questi casi, molteplici possono essere i problemi e le motivazioni. Le imprese sono probabilmente ancora restie ad investire in ambito etico in quanto, pur intuendone le potenzialità comunicative in termini di ritorni di reputazione, non hanno ancora chiaro il quadro complessivo dei costi da affrontare, differenti a seconda della direzione presa (certificarsi SA o ISO, oppure redigere il bilancio sociale nella sua forma più semplice rappresentano scelte differenti per impegno e costi). Altresì la mancanza di casi di un evidente ritorno economico legato alla reputazione da parte di imprese che per natura del business, per dimensione o per scelta iniziale, sono già classificabili come "eticamente corrette", rappresenta un'ulteriore motivazione per rimanere in attesa e cercare di intuire i prossimi movimenti del mercato. La diffusione dei documenti etici e sociali può non essere stata molto incisiva fino ad oggi, almeno a giudicare, come detto, dal numero delle imprese che hanno adottato questi modelli reportistici. Le motivazioni, che meriterebbero un approfondimento non disgiunto dalle problematiche legate al comportamento di investimento delle imprese stesse già esposto, intuitivamente sono molteplici: forse i "normali" canali non sono adatti a questo nuovo tipo di comunicazione oppure, proprio per la disomogeneità dei destinatari, non si può utilizzare la stessa metodologia comunicativa per tutti, oppure, infine, il ritorno economico atteso, derivazione diretta di fornitori e clienti, va ricercato tramite una comunicazione differente da un ritorno di investimento finanziario, derivazione di investitori istituzionali e azionariato.
In ogni caso, il mercato ha dato segnali precisi in direzione di una necessità di comportamento etico d'impresa, e questa è la strada che tutte le aziende hanno già iniziato ad intraprendere.
Infine si pone qui un ulteriore spunto argomentativo, che potrebbe essere oggetto di ulteriori approfondimenti ma che esula dal tema della presente trattazione. Un segnale potrebbe anche venire dallo Stato anziché solo dal mercato: obblighi specifici di "reportistica sociale" spingerebbero le imprese ad adeguarsi alle richieste, investendo pesantemente in questa direzione. Azioni a beneficio sociale, al di là del ritorno economico, rappresentano, del resto, più un obiettivo politico che economico. Si potrebbe persino prefigurare uno schema win win in cui lo Stato perseguirebbe un miglioramento del bene comune ed una riduzione dei costi sociali tramite il comportamento delle imprese e queste ultime migliorerebbero la loro reputazione, ottenendone un ritorno economico.
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