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DALLA NATURA COME RISORSA ALLA NATURA COME VALORE
sviluppo economico e sostenibilità ambientale
"Un vero viaggio di scoperta, non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi"
M. Proust
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INGLESE L'
ambientalista scettico - Bjorn Lomborg affronta il problema sostenendo che: "L'attività
umana sta distruggendo la terra; il problema è che l'evidenza non supporta
questa teoria." Secondo lui i dati di allarme che si stanno diffondendo
non sono giustificati. FRANCESE Dal
quotidiano "Le Monde" è tratto un articolo che pone in evidenza la
necessità di uno sviluppo sostenibile. "la nostra casa brucia e noi
guardiamo altrove, afferma Chirac, facciamo attenzione che il XXI° secolo
non diventi, per le generazioni future, quello di un crimine dell'umanità
contro la vita". PEDAGOGIA/
FILOSOFIA "L'educazione
ambientale non è un uovo in più da riporre in un paniere curricolare ormai
stracolmo; è piuttosto un paniere più capace in cui collocare i contenuti e
le materie esistenti." Il
ruolo della filosofia nell'educazione all'ambiente: La filosofia non offre nozioni
scientifiche utili alla sostenibilità ambientale, offre però visioni e
pensieri che supportano
l'ampliamento degli orizzonti
dialettici tra i problemi e le varie visioni.
EUGENIO MONTALE: "E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia com'è tutta la vita e il suo travaglio." Gli
oggetti, le immagini e le voci della natura diventano gli emblemi (correlativo
oggettivo) in cui è trascritto il destino dell'uomo. La natura conserva
dentro di sé la sua ragione oscura di essere ( il male di vivere). Alla poesia non resta che specchiare la
condizione di aridità. La visione
della natura è sempre senza sorrisi, assorta e perplessa che si limita a
comunicare sensazioni. Le immagini naturali proposte dimostrano la sua
sofferta vicenda di uomo di fronte alla realtà. Desolata è la concezione
della realtà, calata in un paesaggio elementare e intensamente allusivo e
rappresentata con un tono di colloquio intimo con se stesso, con le cose e
con l'Altro. Nel mondo fenomenico della natura e delle cose sembra
possibile intravedere uno spiraglio di verità, ma senza mai trovare risposte tranquillizzanti e definitive.
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EUGENIO MONTALE
Montale sceglie una poesia incentrata sulle piccole cose, sugli elementi di una realtà povera e comune che l'uomo può trovare in ogni momento intorno a sé, soprattutto nella natura.
Gli oggetti, le immagini e le voci della natura diventano gli emblemi in cui è trascritto il destino infelice dell'uomo e la condizione esistenziale senza certezze e illusioni. Desolata è la concezione della realtà calata in un paesaggio elementare e intensamente allusivo e rappresentata con un tono di colloquio intimo con se stesso, con le cose e con l'Altro. Gli elementi della natura rappresentano condizioni spirituali e morali (nuova forma di allegoria).
Montale non guarda alla natura con gli occhi innocenti del fanciullino del Pascoli.
La natura conserva dentro di sé la sua ragione oscura di essere. Il paesaggio vive in se stesso, vi è una incomunicabilità, è un tramite che lascia intravedere l'essenza delle cose, ma che al tempo stesso nega l'accesso alla verità. Nel mondo fenomenico della natura e delle cose sembra possibile intravedere uno spiraglio di verità, ma senza mai trovare risposte tranquillizzanti e definitive.
Ogni parola definisce e scava l'abisso dell'anima e del destino dell'uomo. Con un linguaggio aspro e pietroso esprime il dramma esistenziale del proprio io e dell'uomo moderno, incapace di credere e che, in un contesto storico di profonda crisi, vive senza speranza. Alla poesia non resta che rispecchiare la condizione d'aridità, è una povera testimonianza in un mondo dominato dall'incertezza e dalla contraddizione tradotta con "il male di vivere".
Il vivere è concepito come nulla (solido nulla come già lo aveva definito Leopardi). Paesaggi naturali aspri e inariditi ci rappresentano in modo allegorico la fatale condanna all'oscura pena di vivere che nasce dalla scoperta dell'assurdità del reale, dal rovesciamento delle certezze apparentemente più solide. Nella sua poesia non troviamo successioni di concetti, ma un fluire d'immagini che lasciano intravedere la tragedia dell'uomo moderno che sfocerà nell'ultima guerra. In ciò si ritrova la straordinaria attualità, la verità e la lucida disperazione di Montale. Concetti e sentimenti più astratti trovano definizione ed espressione in oggetti ben definiti e concreti (correlativo oggettivo). Attribuisce agli oggetti il compito di cogliere il senso indecifrabile dell'esistenza.
OPERE - Ossi di seppia: Meriggiare pallido e assorto, I limoni.
Montale
Le immagini del mondo sono deformate dallo specchio della sua
solitudine. I particolari descritti sono filtrati dalla sensibile visione del
poeta e si caricano di valenze allusive e simboliche. Rimanda sempre a qualcosa
che sta al di là e trasforma i suoi quadri in messaggi misteriosi e
affascinanti. Utilizza con precisione termini botanici per definire le cose
(rigore positivistico) perché dare il nome alle cose è come scoprile per la
prima volta, con occhi vergini e stupiti. Possiede intimamente ciò che descrive
fino ad arrivare ad immedesimarsi nelle cose di cui parla. Pascoli fugge dalla
socialità e si rifugia in un rapporto "smemorante" con la natura e nel "nido"
familiare tipico della condizione infantile. La piccola proprietà familiare (
Le visioni della natura vengono spesso presentante in forme antitetiche; le descrizioni si contrappongono: quadri solari e luminosi a cui seguono immagini cupe e tristi.
Nella descrizione della campagna (Novembre) l'ingannevole primavera in realtà è "l'estate fredda dei morti"; il canto del rapace notturno (L'assiuolo) diventa un canto di morte; il suono delle cavallette richiama il tintinnio di porte che non si aprono più; la magica fioritura primaverile lascia spazio ad un albero strano e triste (Il vischio). In queste visioni di natura si manifesta l'animo decadente di Pascoli tormentato da inquietudini e angosce. Il piccolo proprietario agricolo è una figura positiva che serenamente domina il suo piccolo mondo. (La siepe)
Il poeta "fanciullino" ha una vista più acuta degli uomini comuni e spinge il suo sguardo oltre i limiti della realtà visibile e ne coglie l'essenza segreta. La sua è una poesia pura che non deve ammonire, consigliare, profetizzare o persuadere, ma ha soprattutto una suprema utilità sociale e morale nel placare "l'instancabile desiderio" e crea condizioni di maggiore fratellanza umana. Coglie il mondo nella sua vergine freschezza e la parola poetica consente di mettersi in contatto col cuore delle cose con spontaneità e immediatezza. Il poeta assume un atteggiamento contemplativo della Natura e sa incantarsi dinanzi agli oggetti più umili e ne coglie la segreta poeticità.
Pascoli
GIACOMO LEOPARDI
Prima è madre amorosa che nasconde
la sventura creando illusioni consolatrici, poi è matrigna e nemica che non si
cura della felicità degli esseri da lei generati. Dialogo continuo e disperato
con
La
ginestra diviene
il simbolo di chi ha il coraggio di guardare fino in fondo la
tragica condizione umana e senza viltà accetta e combatte la natura matrigna.
Nell'opera LEOPARDIANA
Le OPERETTE MORALI E I GRANDI IDILLI rientrano invece nell'ambito del PESSIMISMO COSMICO: la natura (meccanicistica) è matrigna; la ragione è positiva perché disvelatrice della misera condizione umana. Esplicativa di quanto detto è l'operetta morale "Dialogo della natura e di un islandese": la natura è nemica, crudele e indifferente. Il dolore, la distruzione, la morte, lungi dall'essere errori accidentali nel piano della natura, sono elementi essenziali del suo stesso ordine.Il mondo è un ciclo eterno di produzione e distruzione indispensabile alla conservazione del mondo. Il dialogo con la natura si conclude con la domanda: a che serve questa vita infelicissima dell'universo? È la domanda che il pastore del canto notturno rivolgerà alla luna ed è una domanda che non ha risposta. Ma la natura in senso filosofico è crudele perché non restituisce nella maturità ciò che promette in gioventù.
Ne "La ginestra", l'ideologia leopardiana
giunge a completa maturazione approdando al pessimismo eroico:
appello alla solidarietà fra gli uomini per ergersi contro
OPERE: Dialogo
della natura e di un'islandese-
Leopardi
VISIONE GEO-POLITICA DELLA NATURA
Approccio politico
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Il nostro modo di vivere, di consumare, di comportarsi, decide la velocità del degrado ambientale, la velocità con cui viene dissipata l'energia utile e il periodo di sopravvivenza della specie umana. Si arriva così al concetto di sviluppo sostenibile, inteso come l'insieme di relazioni tra le attività umane, la loro dinamica e la biosfera che ha delle dinamiche più lente. Queste relazioni devono essere tali di permettere alla vita umana di continuare, agli individui di soddisfare le loro necessità e alle diverse culture umane di svilupparsi, ma in modo tale che le variazioni apportate alla natura dalle attività umane stiano entro certi limiti così da non distruggere il contesto biofisico globale. Se riusciremo ad arrivare ad un'economia da equilibrio sostenibile, le future generazioni potranno avere almeno le stesse opportunità che la nostra generazione ha avuto: è un rapporto tra economia ed ecologia, ancora in gran parte da costruire, che passa dalla strada dell'equilibrio sostenibile.
Giorgio Nebbia osserva: "occorre avviare un grande movimento di liberazione per sconfiggere le ingiustizie fra gli esseri umani e con la natura, una nuova protesta per la sopravvivenza capace di farci passare dalla ideologia della crescita a quella dello sviluppo.
Nessuno ci salverà se non le nostre mani, il nostro senso di responsabilità verso le generazioni future, verso il "prossimo del futuro" di cui non conosceremo mai il volto ma la cui vita, la cui felicità dipendono da quello che noi faremo o non faremo domani e nei decenni futuri.
La costruzione di uno sviluppo sostenibile e la pace si conquistano soltanto con la giustizia nell'uso dei beni della Terra, unica nostra casa comune nello spazio."
Conferenza di Nairobi, 6-17 novembre 2006: dodicesima conferenza internazionale ONU sui cambiamenti climatici. All'ordine del giorno gli interventi per ridurre i danni dei cambiamenti climatici già in atto, il confronto sull'attuazione degli obiettivi fissati dal protocollo di Kyoto e le trattative per cercare di gettare le basi per un suo rinnovo con obiettivi molto più ambiziosi a partire dal 2012, quando scade la prima ratifica che fissa il traguardo di un -5% nelle emissioni di gas serra rispetto ai livelli dei 1990.
Previsioni drammatiche: il tempo a disposizione sta scadendo e rimangono tra i 10 e i 15 anni per ingranare la retromarcia e scongiurare gli effetti più drammatici del riscaldamento globale.
Qualcosa è cambiato: maggiore consapevolezza della minaccia che incombe sull'umanità.
I costi economici: si prevedono costi elevatissimi. Intervenire ora costa relativamente poco, farlo dopo avrebbe un prezzo esorbitante.
Consapevolezza europea: il problema dei costi della lotta ai cambiamenti climatici è uno dei nodi principali al centro di Nairobi.
(articolo,Clima, al via il vertice di Nairobi il mondo
davanti alla sfida più difficile, Valerio Gualerzi,
Il protocollo di Kyoto
Il Protocollo di Kyoto è un trattato internazionale in materia di ambiente sottoscritto nella città giapponese l'11 dicembre da più di 160 paesi in occasione della Conferenza COP3 della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) ed il riscaldamento globale.
È entrato in vigore il 16 febbraio , dopo la ratifica da parte della Russia. Il 16 febbraio si è celebrato l'anniversario del 2° anno di adesione al Protocollo di Kyoto, e lo stesso anno ricorre il decennale dalla sua stesura.
Termini e condizioni:
Il trattato prevede l'obbligo in capo ai paesi industrializzati di operare una drastica riduzione delle emissioni di elementi inquinanti (biossido di carbonio e altri cinque gas serra, precisamente metano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoro di zolfo) in una misura non inferiore al 5,2% rispetto alle emissioni rispettivamente registrate nel (considerato come anno base), nel periodo - .
È anche previsto lo scambio (acquisto e vendita) di quote di emissione di questi gas.
Perché il trattato potesse entrare nella pienezza di vigore si richiedeva che fosse ratificato da non meno di 55 nazioni firmatarie, e che le nazioni che lo avessero ratificato producessero almeno il 55% delle emissioni inquinanti; quest'ultima condizione è stata raggiunta solo nel novembre del 2004, quando anche la Russia ha perfezionato la sua adesione.
Il protocollo prevede che i Paesi industrializzati riducano del 5% le proprie emissioni di CO2. Il mondo immette 6.000 Mt di CO2, 3.000 dai Paesi industrializzati e 3.000 da quelli in via di sviluppo. Per cui con Kyoto dovrebbe immetterne 5.850 anziché 6.000, sul totale di 3 milioni: dato l'elevatissimo costo della riduzione è facile capire perché il protocollo non abbia raggiunto grandi adesioni.
Per raggiungere questi obiettivi ora si lavora su due vie:
il risparmio energetico attraverso l'ottimizzazione sia nella fase di produzione che negli usi finali (impianti, edifici e sistemi ad alta efficienza, nonché educazione al consumo consapevole);
lo sviluppo delle fonti alternative di energia invece del consumo massiccio di combustibili fossili.
Paesi aderenti e non aderenti:
Una delle principali caratteristiche di questo protocollo è la distinzione dei Paesi in tre fasce:
A. I Paesi industrializzati, responsabili della stragrande maggioranza delle emissioni, che sono ora tenuti a ridurre le loro emissioni complessive del 5,2% rispetto alle emissioni globali misurate nel 1990. Questo obiettivo dovrà essere raggiunto entro il periodo 2008-2012
Lo hanno ratificato: Austria, Belgio, Canada, Comunità Europea, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Portogallo, Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Spagna, Svezia, Svizzera.
Non lo hanno ancora ratificato: Australia, Liechtenstein, Monaco, Stati Uniti d'America.
B. I Paesi in via di transizione, per i quali sono stabiliti tetti massimi di emissione, talora superiori ai livelli di emissione misurati nel 1990.
Lo hanno ratificato: Bulgaria, Estonia, Federazione Russa, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Ungheria.
Non lo hanno ancora ratificato: Croazia, Ucraina.
C. I Paesi in via di sviluppo a cui è riconosciuto il diritto a seguire un proprio sviluppo industriale. Ne consegue che essi non sono soggetti a vincoli particolari e avranno maggiori margini di manovra
Tutti i Paesi del gruppo lo hanno ratificato: Antigua e Barbuda, Argentina, Armenia, Azerbaigian, Bahamas, Bangladesh, Barbados, Benin, Bhutan, Bolivia, Botswana, Brasile, Burundi, Cambogia, Camerun, Cile, Cina, Cipro, Colombia, Cook, Corea del Sud, Costarica, Cuba, Rep. Dominicana, Ecuador, El Salvador, Figi, Gambia, Georgia, Ghana, Giamaica, Gibuti, Giordania, Grenada, Guatemala, Guinea, Guinea Equatoriale, Guyana, Honduras, India, Kiribati, Kirghizistan, Laos, Lesotho, Liberia, Malawi, Malaysia, Maldive, Mali, Malta, Marocco, Marshall, Mauritius, Messico, Micronesia, Moldavia, Mongolia, Myanmar, Namibia, Nauru, Nicaragua, Niue, Palau, Panama, Papua Nuova Guinea, Paraguay, Perù, Salomone, Samoa, Santa Lucia, Senegal, Sri Lanka, Sudafrica, Tanzania, Thailandia, Trinidad e Tobago, Tunisia, Turkmenistan, Tuvalu, Uganda, Uruguay, Uzbekistan, Vanuatu, Vietnam
Per ciascun Paese dei primi due gruppi il Protocollo prevede obiettivi precisamente quantificati di riduzione di emissioni di gas ad effetto serra da raggiungere entro il 2012. Questi obiettivi sono determinati attraverso una percentuale rispetto alle emissioni misurate nel 1990.
Ciò che lascia avviliti è che la tutela ambientale e sociale finisce sempre col cedere il passo alla crescita economica ed ai relativi interessi. Ma forse il vero fallimento è riconducibile alla stessa idea di sviluppo sostenibile, che rimane tale, solo un'idea e perciò teorica e che non riesce ad influenzare la realtà politica ed economica che decide le sorti del nostro Pianeta.
The United States of America
Natural Resources
Minerals, metals, oil, natural gas, forests, water: the USA has plenty of each. Minerals and metals were and are fundamental to American basic industries. Iron, the country's major natural resource, indispensable to steel mills for the production of a huge number of products, is found in large quantities in the Lake Superior region. The USA is fortunate enough to have reserves of this valuable metal to last for centuries.
Coal is also available in abundance. Lead, copper, silver, phosphate rock are mined on a large scale, especially in the Rockies, while zinc is found in the Appalachians.
Since the days (1859) when oil started its commercial path, production has expanded enormously. Now the USA is the world's major oil producer, though its 2,300m barrels per year are still not sufficient for the country's needs. It is reckoned that petroleum reserves will yield the precious liquid for only another 70years. The main production areas are Texas, Alaska and Louisiana.
China
"Quando
(Federico Rampini, Il secolo cinese, Oscar Mondadori, aprile 2006)
Nature as resource
There's no lack of primary resources (China is the third mineral power in the world). China is the first world-wide rice and wheat producer, the most important industrial crops are cotton, tobacco and tea.
The good availability of mineral and energetic wealth - oil, but above all coal - has improved the heavy industry development ( steel industry, metallurgic industry and basic chemical industry).
What the USA did for Nature in the past.
The National Parks
In 1872, with their decision to offer a vast area of Montana and Wyoming as " a pleasuring ground" for the enjoyment of the public, the American Congress officially created the country's first National Park - Yellowstone. It is one of the world's most varied wildlife sanctuaries. Over 300species of animals live here. The park has also a record number of thermal features: geyser basins, bubbling springs, coloured hot pools and mud pots.
Sequoia is the USA's second oldest National Park. Sequoias are the oldest inhabitants of the Earth.
Since 1872 other extraordinary landscapes and beautiful man-made works - Mesa Verde and Casa Grande Ruin, for example - have been given the same status.
Until the 1920s the National Parks could be found mainly in the West, because the lands of those protected areas were owned by the Government. Then in 1926 the system began expanding eastwards, although the Government authorised the creation of the new parks only if the lands were donated. Through the great fund-raising efforts of John Rockefeller Jr. and other philanthropists, this huge undertaking was accomplished in about ten years.
After the Second World War the parks became the target of a great domestic travel boom, made possible by increasing popularity of the car.
A complex system such as the American National Parks requires a vast caretaking organisation.
There are now nearly 400 sites designated as National Parks in the USA, including places as different as the Colorado chasm and the White House! About 300m visitors flock to the parks every year and inevitably tourism is threatening these preserves.
In the 1970s the USA was a world leader on serious long-term environmental issues. The USA joined many groups in protecting endangered species, oceans and fisheries. Its honourable and wise actions continued through the 1980s.
In the mid 1980s the US led efforts to address the problem of the ozone layer. The 1987 Montreal Protocol imposed a stringent ban on the production and use of many substances widely used around the world: deoderants, refrigerants and propellants for aerosol tins.
In 1990 the US brokered amendments to the protocol allowing India and China to join. The Protocol has now been ratified by almost every country in the world, and the hole in the ozone layer is closing. American political clout and creativity played a major part in this success.
China: environmental protection
Today, the strong peopling
and the very rapid economic growth are causing enormous environmental problems.
The most serious situation is the one in the big coast
cities, which are growing at giddy rhythm, without any types of environmental
limits: eight of the ten most polluted
cities of the world are Chinese and Beijing is at the top of the global list. Remarkable
is the river pollution too On the river Yangtze Kiang the
Chinese government has realised the biggest dam of the world, which has flooded
about
Nature overlooks outright in the West regions, scarcely populated, where high summits, steppes and deserts predominate, while in East regions, where the peopling is intense, environment and development are two words that Chinese government is not able to conciliate. The only positive note in environmental politics, which is one of the weakest among developing countries, is the creation of some natural reserves in the most wasted zones by economic development. The Xishuangbanna reserve, the South zone of Yunnan, is a tropical forest and it hosts half of the Chinese protected species; the Wolong reserve, in the Sichuan region, near Chengdu, is an oasis of biodiversity and hosts the animal symbol of the country: the giant panda.
Kyoto Protocol : The USA and China
The United States of America
In
At the end of March 2001, U.S. President George Bush said that he 'opposed the Kyoto Protocol.' One of the reasons he cited was because India and China would not be subject to Kyoto measures and would increase their emissions. Yet he ignored that on a per capita basis, India and China's emissions are far less than the United States, which is the worst.
President Bush has repeatedly stated that he will not adopt such protocols if they harm American economy. Commercialism and greed overcome all common sense and thought for the welfare of future generations. This failure causes hatred not only of the Bush administration, but of American commercialism in general.
The US also opposed the Bonn refinement of Kyoto because of the cost to US business of Kyoto's prescriptions on the reduction of environmentally harmful emissions which contribute to climate change.
In February 2002, Bush has proposed a different means to address Climate Change instead of following the Kyoto plans, which again met with the same criticism. An interesting thing to note has been his Administration's play on words, saying green house gas intensity will be reduced, rather than emissions.
This despite pressure for many years on Washington to sign the Kyoto Protocol when over 36 countries, including all members of the European Union, have already signed.
The USA is the most powerful and influential country in the world (and incidentally, the worst polluter). However, the Republicans and business industry have always been opposed to the convention.
The business lobby in the USA is extremely powerful and is afraid of the economic ramifications of this treaty. There were huge propaganda events and advertisements by Congress and by the Global Climate Coalition, making it harder for Washington to sign.
Also, the US wishes to suggest an emission trading policy instead of the suggested policies of the Kyoto protocol. However, it has been criticized as an ineffective and inequitable system.
Carbon Dioxide Emissions of the three biggest polluters:
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The USA |
EU Countries |
China |
Total |
Population of world: |
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World economy: |
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CO2 Emissions: |
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China and the EU, both lesser polluters than the US, have one thing in common: they are both committed to further reducing their rate of emissions. Despite economic growth China has cut emissions by 17% since the mid 1990s. The odd one out is the USA. Immensely richer than China, but with less population than Europe, it emits more harmful chemicals than both of them. In addition, it has so far stubbornly refused to endorse international protocols designed to reduce such emissions. The world looks on flabbergasted as the world's greatest polluter cares not to take care or responsibility in the face of international pressure.
The world's largest polluter, America has recently not backed pollution treaties to reduce car emissions or petrol consumption. The US alone accounted for 36.1% of worldwide greenhouse emissions in 1990.
The US contains 4% of the world's population but produces about 25% of all carbon dioxide emissions.
Many environmentalists understand that developing countries do not have the technology or means to use the most modern or environmentally friendly industrial equipment. But when such a rich country as the USA fails to take responsibility for its own pollution it really annoys a lot of people worldwide.
The USA is by far the world's biggest polluter and is also the country that is seen as least active in fighting world pollution. Failure to ratify the Kyoto Protocol is a serious mistake and much of the world is left in shock and horror that the USA ignores these issues.
There is hope, by 2002 Jun 03 the US Government has acknowledged for the first time that man-made pollution is largely to blame for global warming .
China
China, Brazil and India, in the first phase of the Kyoto Protocol have been exonerated from cutting greenhouse gas not to compromise their growth. In this phase the three nations have been object of big investment in clean technologies and sustainable sources from Western countries, who "pay" for the reductions they are not able to achieve at home. A flux of funds and "know how" especially appreciated, above all by Beijing, engaged with devastant environmental problem. Climate changes, it's China, India and Brazil reasoning, are responsibilities of the States who have polluted until now and it's western countries task to resolve them.
Recently Bush has said that if China signs the Kyoto protocol, also the USA will join it.
INGLESE
The sceptical environmentalist
Environmentalists have developed a sort of "litany" of four big environmental fears:
● Natural resources are running out.
● The population is ever growing, leaving less and less to eat.
● Forests are disappearing and species are becoming extinct in vast numbers.
● The planet's air and water are becoming ever more polluted.
Human activity is thus destroying the earth. The problem is that the evidence does not support this theory. Take this points one by one.
First, the exhaustion of natural resources: concern that the mineral resources on which modern industry depends will run out. Clearly, there is a limit to the amount of fossil fuels and metal that we can extract from the earth - but that limit is far greater than many environmentalists believe.
The fact is that we are continually discovering new deposits; energy and other natural resources have become more abundant, not less so over the last 30 years. In the case of oil, for example, known reserves would keep the world economy running for about 150 years at present consumption rates. Cement, aluminium, iron, copper, gold, nitrogen and zinc account for more than 75% of global expenditure on raw materials. Despite a massive increase in consumption of these materials over the past 50 years, the number of available reserves has actually grown. This abundance is reflected in ever-decreasing prices.
Next, the population explosion and predictions of worldwide starvation are also turning out to be a false alarm. More food is now produced per head of the world's population than at any time in history and fewer people are starving. According to the United Nations, agricultural production in the developing world has increased by 52% per person since 1961. The daily food intake in poor countries increased from 1,932 calories, barely enough for survival, in 1961 to over 2,650 calories in 2000, and should rise to over 3000 by 2030. similarly, the proportion of people in developing countries who are starving has dropped from 45% in 1949 to 18% today, and is expected to decline to 6% in 2030. food is becoming more abundant and this is reflected in prices, which, according to the World Bank, were lower in 2000 than ever before.
Moreover, as people grow richer and healthier, they have smaller families.
The growth rate of the human population reached its peak, of more than 2% a year, in the early 1960s. the rate of increase has been declining ever since. It is now 1.26%, and is expected to fall to 0.46% in 2050. the United Nations estimates that world population will stabilise by 2100 at just below 11 billion.
The threat of biodiversity loss is real, but exaggerated. Although species are indeed becoming extinct, only about 0.7% of them are expected to disappear in the next 50 years, not 25.50%, as so often predicted. In the eastern United States, forests were reduced over two century to just 1-2% of their original area, yet this resulted in the extinction of only one spaces of beard. In any case tropical forests are not being lost at annual rates of 2-4%, as many environmentalists claim: the latest United Nations figures indicate a loss of less than 0.5%.
As for pollution, many analyses show that air pollution diminishes when a society becomes rich enough to be able to afford concern about the environment. For London, the city for which the best data are available, air pollution peaked around 1890. Today, the air is cleaner than it has been since 1585. There is good reason to believe that this is true for all developed countries. So, although air pollution is increasing in many developing countries, they are merely replicating the development of the industrialised countries. When they grow sufficiently rich they, too, will start to reduce their air pollution.
FRANCESE
Le développement durable vu par les Français
Face au développement économique aveugle et lourd de conséquences pour l'environnement, le développement durable semble aujourd'hui l'ultime mesure de bon sens avant les catastrophes. La tache est immense, mais chacun peut participer à l'édifice. Il en va de l'avenir des prochaines générations.
Dans des domaines aussi divers que la biologie, l'écologie, l'économie ou la démographie, des experts de bonne foi font ce constat alarmant: lentement mais sûrement, on court à la catastrophe. Et le problème est complexe dans la mesure où sont imbriquées des crises environnementales, économiques et sociales. Globalement, le vivant se détériore, les ressources naturelles (eau matières premières) se raréfient, la pollution et les changements climatiques inquiètent, les inégalités Nord-Sud augmentent, la croissance économique n'est plus créatrice d'emplois, et la liste n'est pas exhaustive. Mais la prise de conscience progressive du caractère tragique de la situation semble être déjà un premier pas. Et, en 2006, Koffi Annan (encore secrétaire général de l'ONU) faisait cette remarque: 'Nous sommes la première génération qui possède les moyens techniques d'un développement harmonieux, la connaissance globale du fonctionnement de la planète.' Ainsi, à contre-courant de la satisfaction des besoins et des désirs dans l'immédiateté ou de l'égoïsme et de l'arrogance des pays les plus riches, des esprits avisés avancent qu'il n'y a désormais plus qu'une seule issue: le développement durable. [.]
L'apparition du terme remonte à 1987: ' Le développement durable répond aux besoins du présent sans compromettre les capacités des générations futures de répondre aux leurs.'
Reposant pourtant sur trois principes assez simple - la responsabilité, la prévention et la précaution -, force est de constater que tous les États ne tirent pas dans le même sens. Le fait que les États-Unis ne respecte pas le protocole de Kyoto montre les limites de l'adhésion universelle au principe de responsabilité; la notion de 'pollueur - payeur' y est pourtant centrale.
Les objectifs sont: de l'eau pour tous, une meilleure gestion des nappes phréatiques et la lutte contre le gaspillage. Plutôt que d'investir dans des équipements onéreux en ce qui concerne son traitement, on veillera, en amont, à ne pas la polluer; c'est là, en résumé, tout l'esprit du développement durable. [.]
Nous devons être plus responsables, plus précautionneux, plus équitable, et globalement avoir plus d'éthique. [.]
Les alternatives aux combustibles fossiles sont
nombreuses et performantes. Le principe consiste à tirer partout profit de
l'énergie du soleil, de l'énergie du vent, de l'énergie géothermique (interne à
Dans l'attente de réaliser un investissement de type habitat durable, il est possible d'agir au quotidien, par de petits actes. [.]
La sensibilisation du public est un point crucial pour le succès du développement durable. Opter pour une consommation raisonnée est également déterminant. En matière d'alimentation, privilégier les produits locaux et de saison, ceux qui sont les moins emballés, les produits issus de l'agriculture biologique ou du commerce équitable proscrire les espèces menacées.
Après la consommation, le tri sélectif des déchets en vue du recyclage est un geste élémentaire. En matière de développement durable, le but ultime est d'atteindre un équilibre, une forme d'harmonie planétaire. Les petites et les grands idées foisonnent, les outils et les équipements se mettent en place; reste à changer ses habitudes.et les mentalités.
(Article, Dans l'air développement durable, Thomas Séron, Buzz Buzz, 1er Avril 2007)
La quête de l'or vert
La protection de l'environnement est l'affaire de tous.
Développement durable, une idée neuve? Pas vraiment. Dès 1987, Gro Harlem Brundtland, la chef du gouvernement norvégien, en donne une première définition dans un rapport intitulé Notre avenir à tous, commandé par l'ONU: « Un développement qui répond aux besoins présents sans compromettre la capacité des générations futures à répondre aux leurs. »
Cette démarche devait, selon elle, reposer sur trois piliers: économique, par l'utilisation raisonnée des ressources naturelles (eau, forêts, hydrocarbures.), l'équité des relations commerciales Nord-Sud et l'intégration des coûts environnementaux dans les prix; social, avec la lutte contre la pauvreté et le respect des salariés et des cultures; environnemental, à travers le maintien des grands équilibres (climat, biodiversité.) et la prévention des risques. [.]
L'édifice ne pouvait tenir sans une solidarité entre les générations, les peuples et les territoires, une bonne gouvernance dans chaque pays et une participation de tous aux affaires de la planète.
« objecteur de croissance »
Ce monde un peu merveilleux, les responsables politiques ont essayé de le dessiner lors des sommets sur le développement durable de Rio de Janeiro (1992) et de Johannesburg (2002), ou des conférences sur le changement climatique de Kyoto (1997) et de Montréal (2005). Autant de grand-messes auxquelles ont participé de nombreux chefs d'entreprise.
Pour quels résultats? « Notre maison brûle et nous regardons ailleurs, lançait le président français Jacques Chirac, à Johannesburg. Prenons garde que le XXIe siècle ne devienne pas, pour les générations futures, celui d'un crime de l'humanité contre la vie. » Et, dans un premier temps, contre la vie économique.
M. Stern demande que 1% du PIB mondial soit affecté à la réduction des gaz à effet de serre et prône des taxes pour les pollueurs et des détaxes pour les industriels vertueux. Face au pillage des ressources de la planète, militants écologistes et alter - mondialistes ont vite remis au goût du jour les propositions des « objecteurs de croissance », assurant que le productivisme effréné conduit à la catastrophe. [.]
La perspective du maintien de cours élevés rend certaines énergies renouvelables compétitives par rapport au charbon ou au gaz. Dans l'énergie, elles sont même devenues un business.
« C'est une décision stratégique, les énergies renouvelables font partie de notre avenir. On ne peut pas être des prédateurs, on doit se soucier des générations futures ».
Tous les grands groupes d'énergie ont des filiales ou des divisions « énergies renouvelables ».
Les collaborations entre entreprises et organisations non gouvernementales ( ONG ) se développent et les business schools rivalisent d'initiatives.
Toutes les entreprises sont concernées.
Daniel Lebègue, ex-directeur
général de
Il plaide pour une plus grande implication des entreprises. Une manière pour elles de prévenir les risques qui peuvent à tout moment compromettre leur rentabilité, d'accroitre leurs performances économiques et d'améliorer leur image.
On y parle désormais de développement durable presque aussi souvent que de compétitivité et de profits.
Non seulement la sauvegarde de la planète peut doper la recherche et donner naissance à de nouvelles activités (énergies renouvelables, centrales propres), mais le respect de critères économiques, sociaux et environnementaux stricts donne un avantage compétitif à ceux qui les appliquent.
Le vert, c'est de l'or, assènent de plus en plus d'hommes d'affaires américains.
Daniel Esty et Andrew Winston, professeurs à l'université Yale et spécialistes reconnus de l'implication des entreprises dans le développement durable. Ils estiment que ces dirigeants « savent qu'en ouvrant à la protection de la planète, ils protègent leurs propres compagnes en sauvegardant ses actifs, en inspirant leurs employés et en attirant de la matière grise ».
Les banques s'y mettent et assurent de vérifier que les projets qu'elles financent ne sont pas seulement rentables, mais aussi socialement et environnementalement responsables.
Et voilà que le développement durable est devenue un argument publicitaire. Areva a trouvé son slogan: « Nos énergies ont de l'avenir. Un avenir sans CO2 ». Pour le groupe EDF, le « zéro carbone » est devenue un puissant argument de vente du nouveau réacteur EPR. Le développement vert, c'est de l'or !
(Article, La quête de l'or vert, Jean-Michel Bezat, Le Monde, 1er Avril 2007)
UNA NUOVA VISIONE ECONOMICA
Approccio economico
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Serge Latouche è nato a Vannes, in Bretagna, nel 1940. È economista di formazione e antropologo per esperienza. Negli anni settanta ha trascorso molto tempo in Africa occidentale, e qui ha maturato una svolta del suo pensiero, che lo ha portato ad una critica radicale delle ideologie del "progresso" e dello "sviluppo".
Far fronte ai pericoli del mercato mondiale
Che cosa fare di fronte alla mondializzazione, alla mercificazione totale del mondo e al trionfo planetario del mercato globale? Il divario tra la vastità del problema da risolvere e la modestia dei rimedi concepibili a breve termine dipende soprattutto dalla pregnanza delle idee che conservano il sistema sulle sue basi immaginarie. Bisogna cominciare a vedere le cose in un altro modo perché possano diventare altre, perché si possano concepire delle soluzioni veramente originali ed innovatrici. Bisognerebbe decolonizzare i nostri spiriti per cambiare veramente il mondo prima che il cambiamento del mondo ci condanni a farlo nel dolore. Quello di cui c'è bisogno è una concezione completamente nuova rispetto al passato, una visione del mondo che metta al centro della vita umana altri significati anziché l'espansione della produzione e del consumo, che ponga agli esseri umani obiettivi di vita nuovi, riconoscibili come qualcosa per cui valga la pena di vivere.
Questa è l'immensa difficoltà alla quale bisogna far fronte. Dovremmo volere una società nella quale i valori economici hanno smesso di essere centrali (o unici), nella quale l'economia è rimessa al proprio posto come semplice mezzo della vita umana e non come meta ultima e nella quale si rinuncia, quindi, a questa folle corsa al consumo sempre in aumento. Non è necessario solo per evitare la distruzione definitiva dell'ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per uscire dalla miseria psichica e morale degli uomini contemporanei.
Mentre si lavora a questo cambiamento, sarebbe auspicabile trovare strumenti di difesa alle minacce più gravi. Il problema è che la maggior parte delle soluzioni concepibili, avrebbero buone possibilità di riuscire solo se si fosse già verificata quella diseconomizzazione degli spiriti che ne è la conseguenza. Risolvere questa quadratura del cerchio è con ogni probabilità la più grande sfida con la quale si deve confrontare il pensiero critico contemporaneo. La difficoltà è accentuata dal fatto che la maggior parte dei problemi locali attuali, come i danni dell'ambiente, sono conseguenze del sistema mondiale. Si possono trovare soluzioni solo con un'azione condotta a livello globale. Si tratta di trovare, nello stesso tempo, soluzioni locali a problemi globali e soluzioni globali a problemi locali. Le proposte di riforma devono essere realistiche per ottenere il consenso dei nostri concittadini ed imporsi con il loro "buon senso", senza apparire inaccettabili ad un certo modo di vivere e di pensare.
Visto che sembra impossibile nel mondo attuale fare a meno del mercato e della concorrenza, è importante precisare alcune regole ed alcuni limiti, sviluppare dei contrappesi perché siano più "equi", in altri termini tentare di modificare "le regole del gioco" nell'impossibilità o nell'attesa di poter giocare un altro gioco o persino di poter rifiutare di giocare.
I nostri governi non fanno che ripeterci che siamo coinvolti in una guerra economica senza pietà, che dobbiamo tirare la cinghia ed imporre a noi stessi dei piani d'adeguamento strutturale così come li imponiamo ai popoli del Sud, e questo allo scopo di guadagnare quote di mercato.
La grande maggioranza dei nostri concittadini vuole la pace economica così come vuole la pace civile e sociale. Desiderano vivere in pace e in sintonia con gli altri uomini ed anche con la natura, anche se bisogna rinunciare a conquistare quote di mercato (a discapito degli altri e della natura).
Questo programma di guerra alla guerra economica ad oltranza e di dichiarazione di pace è suscettibile di un vasto consenso. Implica una serie d'azioni concrete:
Rimettere in discussione la tirannia dei mercati finanziari ed anche la perversione degli interessi passivi sul debito pubblico, che costituiscono un'insopportabile dittatura dei creditori.
Combattere il mercato mondiale, in quanto "tutto - mercato". Quest'ultimo è il principale responsabile della distruzione del pianeta. Essendo il clima attuale di competizione senza regole, suicida per tutti e disastroso per gli ecosistemi, parrebbe sano ed adeguato alzare delle barriere a livello europeo per la protezione sociale e per quella dell'ambiente. È necessario riabilitare un protezionismo selettivo di fronte all'impero indecente dello sfrenato libero scambio. Una popolazione non può vivere dignitosamente se non produce, almeno in parte, anche con difetti, i prodotti di cui ha un bisogno essenziale. Ridurre alla miseria e alla disperazione intere regioni, con tutto il seguito di drammi familiari ed individuali che questo implica, in nome di un calcolo economico ottuso che non tiene conto né dei patrimoni organizzativi e culturali acquisiti, né dell'impatto ambientale, è irragionevole e spesso criminale.
Rimettere in discussione l'estensione senza limiti e a tutti i settori della vita della mercificazione e determinare democraticamente il livello auspicabile di internazionalizzazione dell'economia. Se è giusto organizzare alcuni mercati di beni e servizi, è ancora più giusto organizzare questa non concorrenza fra gli uomini. Oltre a queste misure, converrebbe forse proporre l'instaurazione di un reddito massimo, per affermare simbolicamente e concretamente un limite all' "hybris", cioè alla "dismisura". Ci può essere una democrazia senza un minimo di uguaglianza delle condizioni, comprese quelle economiche? Se il "molto ricco" non si sente in debito nei confronti del "molto povero", non c'è più legame sociale.
Imporre dei "codici di buona condotta" alle imprese multinazionali e lottare - se siamo ancora in tempo - perché siano smantellate.
Aiutare l'autorganizzazione degli esclusi, degli emarginati, degli informali del Sud e del Nord, astenendosi dal distruggersi con la repressione, il racket o la normalizzazione. L'autolimitazione delle nostre economie predatrici è la condizione per una rinascita e una buona vita delle popolazioni del Sud.
Esigere che gli oltraggi all'ambiente, e in particolare le mutazioni genetiche, le aggressioni nei confronti delle altre specie viventi (dai sacrifici di animali all'erosione della biodiversità), siano discussi democraticamente e decisi da organizzazioni rappresentative e non dalla mano invisibile o dai poteri tecno-scientifici della megamacchina. Anche se il principio di cautela non è applicabile alla lettera, devo fornire un orientamento per una decisione ragionevole.
L'integrazione del progresso tecnologico dovrebbe essere accettata solo a condizione di non colpire né l'ambiente, né l'occupazione, e dovrebbe tradursi, invece, in una diminuzione dell'orario di lavoro, un aumento delle remunerazioni e un miglioramento della qualità della vita.
Né il corpo, né la terra, né i beni ambientali dovrebbero essere normalmente considerati delle merci come le altre, visto che riguardano l'uomo, la sua vita, la sua cultura e i suoi legami. Non dovrebbe essere ammesso che delle popolazioni, delle collettività, siano costrette dalle "leggi del mercato" ad essere spogliate delle loro terre, delle loro risorse naturali, né tanto meno a vendere i propri membri, interi o a pezzi, come spesso succede oggi.
Alla fine è inevitabile che queste proposte, se vengono separate dalla loro dinamica, portino al rischio del volontarismo utopistico. L'importante non è tanto nel dettaglio delle misure concrete, quanto nel manifestare una chiara volontà di resistenza ai "nuovi padroni del mondo". Di fronte alla megamacchina anonima e senza volto, ma i cui rappresentanti si chiamano G8, Club di Parigi, complesso F.M.I. (Fondo Monetario Internazionale) Banca Mondiale O.M.C. (Organizzazione Mondiale del Commercio), Camera di Commercio internazionale, Forum di Davos, ecc., diventa urgente costruire dei contro-poteri, imporre delle regolamentazioni, trovare dei compromessi.
La parola d'ordine di fronte ai pericoli della mondializzazione contemporanea potrebbe quindi essere "resistenza e dissidenza". Resistenza e dissidenza con la testa ma anche con i piedi. Resistenza e dissidenza come atteggiamento mentale di rifiuto, come igiene di vita: rifiuto della complicità e della collaborazione, rifiuto di diventare complici di quest'impresa che produce perdita di sé e distruzione planetaria. Resistenza e dissidenza come atteggiamento concreto di ogni forma di autorganizzazione alternativa. Tali esperienze, oltre a rappresentare il modello per una soluzione locale al problema globale della crisi, costituiscono anche uno straordinario laboratorio di ricostruzione del legame sociale, a partire dalle sue fondamenta.
Resistenza e dissidenza sono anche la condizione per poter limitare le devastazioni dell'omologazione planetaria e dell'occidentalizzazione del mondo.
Abbasso l'economia
La crescita, il PIL, lo sviluppo? Sono invenzioni che causano infelicità e rischiano di portare alla rovina il pianeta.
Provocazione di un economista che dice: fermiamo il progresso.
L'economia in sé non esiste. È un'invenzione umana che ha colonizzato il nostro immaginario, creando feticci duri a morire. Primo fra tutti quello dello sviluppo.
Speculazioni finanziarie, crisi energetica e cataclismi climatici spingono molti ad interrogarsi sulle bontà e sulle sostenibilità del nostro modello economico.
Crescita e sviluppo sono due miti dell'economia che stanno conducendo il mondo alla rovina, ci hanno fatto credere che fossero la condizione necessaria del benessere e della felicità. Ma non è vero. Chi l'ha detto che produrre di più per consumare di più sia la strada giusta? Creare nuove ricchezze non significa necessariamente favorire l'interesse della collettività. Finora però la crescita è stata considerata un fine in sé che non ha altro scopo che la crescita stessa, è un dogma che nessuno osa mettere in discussione. Eppure la crescita dell'economia viene presentata come la soluzione per migliorare le condizioni di vita degli uomini. È vero che lo sviluppo ha favorito il benessere dell'occidente. Ma ciò che ha funzionato, in parte, in passato, oggi diventa un'impostura, perché pretende di presentarsi come un modello assoluto, da adottare dappertutto. In realtà, l'idea della crescita non è altro che l'esportazione nel resto del mondo della guerra economica che ha fondato il capitalismo e bruciato metà delle risorse del pianeta. Oggi questo modello non è più sostenibile.
Perché le leggi dell'economia vengono considerate come un dato di natura indiscutibile. L'economia invece è solo una costruzione umana, che però ha fagocitato totalmente la nostra vita. Noi affrontiamo tutta la realtà e i suoi problemi attraverso il filtro dell'economia. Ancora oggi in molte società non occidentali l'economia è una parola che non dice niente alla gente. Tanto è vero che è difficile far comprendere nozioni come crescita o inflazione che a noi sembrano evidenti. Gli scambi economici però sono sempre esistiti. Le attività economiche sono diventate un fine in sé. È questa l'invenzione dell'economia. Il termine <<economia>> indica al contempo una pratica e una riflessione.
L'economia finisce per occupare, gradualmente, la totalità dello spazio sociale solamente con l'ascesa del capitalismo.
L'imperialismo economico conquista l'intera società, tanto che oggi tutto è ridotto a un problema di costi e di benefici. Anche la sfera privata viene investita dalla logica economica. Oggi la nostra cultura è colonizzata dall'immaginario economico, per il quale, qualsiasi scelta umana deve essere dettata dalla logica economica. Quella stessa logica che, attraverso il mito dello sviluppo, condurrà al collasso del pianeta.
Il resto del mondo ha il diritto a godere del nostro stesso livello di vita. Dobbiamo però essere onesti e dire quali saranno le conseguenze per tutti e soprattutto abbiamo il dovere di mostrare un'altra strada per far capire che una società equilibrata, più giusta e più ecologica, non deve inseguire necessariamente una crescita illimitata. Se i paesi africani hanno il diritto di vivere meglio, noi abbiamo il dovere di ridurre drasticamente i nostri consumi, prefigurando un sistema che non sia solo predazione del mondo. Latouche propone la decrescita. È uno slogan che si oppone alla propaganda e al mito dello sviluppo. Dobbiamo sbarazzarci della mitologia del PIL e della dittatura del mercato. La sopravvivenza del pianeta è minacciata dalla corsa alla produzione e al consumo. Bisogna invece far decrescere la produzione materiale e i consumi di beni, in modo da ridurre l'impatto ecologico del nostro sistema economico sul pianeta. Per questa riconversione dell'economia, abbiamo però bisogno di una rivoluzione culturale capace di cambiare i nostri comportamenti. La battaglia rischia di essere difficile, anche perché è ancora molto diffusa l'idea che la crescita sia la soluzione e non il problema. Per fortuna, molte persone iniziano a rendersi conto del vicolo cieco in cui siamo finiti, anche se poi, quando si tratta di cambiare il proprio modo di agire, si preferisce che gli sforzi siano gli altri a farli. La scelta della decrescita non è una guerra già vinta, è piuttosto una scommessa che dobbiamo tentare. Non abbiamo scelta. Altrimenti corriamo verso la catastrofe.
Un ossimoro rampante: sviluppo sostenibile
"Sviluppo sostenibile" è un'impostura, un ossimoro come dire - una luce
oscura- dal momento che lo sviluppo, che l'unico sviluppo che noi conosciamo è
quello che è sorto nella seconda metà del
È impossibile chiedere allo sviluppo di essere "sostenibile", è contro la sua stessa sostanza.
Queste parole d'ordine retoriche invece di aprire la ricerca verso modi di vivere che siano rispettosi dell'ecologia ambientale, mirano all'eternizzazione dello sviluppo, alla consacrazione del così detto "sviluppo durevole".
Se lo sviluppo sostenibile traduce il primato dell'economia nella vita, decolonizzando l'immaginario non c'è bisogno di un'altra parola d'ordine.
Contro l'universalismo
Latouche conduce da anni una polemica contro il pensiero utilitarista e universalista, per liberare la società occidentale dalla dimensione economicista che la imprigiona e dall'ipertrofia della tecnoscienza, insomma, come egli dice, per "decolonizzare l'immaginario". Latouche propugna un ritorno a quella dimensione di reciprocità, convivialità, solidarietà (e d'attenzione agli aspetti ecologici) che sola può consentire di sfuggire alla catastrofe verso cui ci porta lo "sviluppo".
Maurizio Pallante
Maurizio Pallante è nato a Roma.
Laureato in lettere, consulente del Ministero dell'Ambiente per l'efficienza
energetica, è principalmente attivo come saggista. Ricercatore e divulgatore
scientifico, ha collaborato con
Ricchezza ecologica
Nella prima parte di questo libro, Per una riconversione ecologica, l'autore avanza qualche riserva sul fatto che la sistematica sostituzione dei valori d'uso con valori di scambio, del vecchio col nuovo, dell'autoproduzione e degli scambi non mercantili con gli scambi mercantili, costituisca, sempre e comunque, un miglioramento per la vita degli uomini e per gli equilibri ambientali.
Senza sottovalutare i vantaggi apportati dall'economia mercantile in termini di diffusione del benessere, né il suo ruolo nello sviluppo scientifico e tecnologico, non si ignorano nemmeno i problemi causati dalla sua progressiva estensione a tutte le sfere dell'attività umana e i limiti inerenti alle sue pretese totalizzanti: la sostituzione dei criteri qualitativi con criteri esclusivamente quantitativi nella valutazione della produzione, il super sfruttamento delle risorse rinnovabili e non rinnovabili, la crescita delle emissioni inquinanti e dei rifiuti, la crisi sociale derivante dalla mercificazione di tutti i rapporti interpersonali, l'acuirsi dei problemi occupazionali con la crescita della produzione.
L'accettazione acritica di questo processo e la convinzione che non si possa fare altrimenti, sono analizzati nella seconda parte del libro.
Nella terza parte, per una riconversione economica dell'ecologia, l'inefficacia delle politiche ecologiste a contrastare il processo di degrado ambientale in atto viene ricondotto alla loro impostazione prevalentemente moralistica e se ne propone un superamento mediante lo sviluppo di tecnologie che rendano conveniente economicamente ridurre l'impatto ambientale dei processi di produzione. L'ipotesi di fondo da cui muove il ragionamento è che tutti i problemi ecologici, derivano in ultima analisi dall'inefficienza con cui si usano le risorse. La via maestra per ridurli è costituita pertanto da innovazioni tecnologiche indirizzata ad accrescere i rendimenti e a ridurre gli sprechi. In questo modo si riducono anche i costi di gestione e si ottengono risparmi economici con cui si possono pagare i costi d'investimento di queste tecnologie. L'ecologia diventerebbe così il futuro dell'economia e l'economia il futuro dell'ecologia.
Nella quarta parte del libro, sfuggendo all'omologazione culturale sui modelli del fare fine a se stesso e del consumismo, si analizza come si possono costruire modelli di vita, di lavoro e rapporti sociali più rispettosi di sé, degli altri e del mondo, mediando i rapporti con gli ecosistemi con tecnologie che riducono al minimo l'impatto ambientale, utilizzando con discrezione le risorse, valutando con criteri qualitativi e non quantitativi il fare, preferendo il fare bene al fare tanto, riscoprendo la dimensione della contemplazione, preservando la biodiversità delle specie viventi e valorizzando la diversità delle culture.
Un libro sull'utilità della decrescita economica e della felicità che può derivarne
I segnali sulla necessità di rivedere il parametro della crescita su cui si fondano le società industriali continuano a moltiplicarsi: l'avvicinarsi dell'esaurimento delle fonti fossili di energia e le guerre per averne il controllo, l'innalzamento della temperatura terrestre, i mutamenti climatici, lo scioglimento dei ghiacciai, la crescita dei rifiuti, le devastazioni e l'inquinamento ambientale.
Eppure gli economisti e i politici, gli industriali e
i sindacalisti con l'ausilio dei mass media continuano a porre nella crescita
del prodotto interno lordo il senso stesso dell'attività produttiva. Basterebbe il buon senso a capire che in un
mondo finito, con risorse finite e con capacità di carico limitate, una crescita infinita è impossibile,
anche se le innovazioni tecnologiche venissero indirizzate a ridurre l'impatto
ambientale, il consumo di risorse e la produzione di rifiuti. Basta pensare a come queste
misure sarebbero travolte dalla crescita della produzione e dei consumi in
paesi come
La crescita si è incorporata nell'economia, come l'anima nelle nostre povere spoglie mortali e non è più possibile separarle. La produzione non può crescere all'infinito perché le risorse del pianeta non lo sono e non è infinita la sua capacità di metabolizzare le sostanze di scarto emesse dai processi produttivi, dai prodotti nel corso della loro vita e dai rifiuti in cui prima o poi si trasformano.
Fare della politica energetica e ambientale il fulcro della politica economica
I problemi energetici, nonostante la loro forte incidenza, sia sull'ecosistema terrestre, in particolare sui mutamenti climatici, sia nelle cause dei conflitti internazionali in corso e nella iniqua ripartizione delle risorse tra i popoli del nord e del sud del mondo, sia sulla qualità della vita e sulla salute degli uomini, non vengono considerati dalle forze politiche con l'attenzione e l'impegno che sarebbero necessari. Ci sono persone che ritengono che per essere affrontati in modo efficace debbano essere posti al centro della politica economica e industriale dei paesi industriali avanzati. E che solo cosi facendo si possano anche affrontare in modo efficace i problemi economici e occupazionali che questi paesi attraversano nell'attuale fase storica.
L'efficienza con cui si usa l'energia in Italia e molto bassa.
1. Allo stato attuale della tecnologia è quindi possibile dimezzare i consumi di fonti fossili accrescendo l'efficienza dei processi di trasformazione energetica e utilizzando quei veri e propri giacimenti nascosti di energia costituiti dagli sprechi, dalle inefficienze e dagli usi impropri.
2. Accrescendo l'efficienza, si riducono i consumi di energia alla fonte a parità di servizi finali. I vantaggi ecologici sono direttamente proporzionali a quelli economici.
3. Questo e inoltre il pre-requisito per favorire lo sviluppo delle fonti rinnovabili, che hanno rendimenti molto inferiori e molto più irregolari delle fonti fossili.
4. Una politica energetica finalizzata a ridurre le emissioni di CO2 deve pertanto articolarsi in due fasi: la riduzione al minimo dei consumi e la soddisfazione dei consumi residui nei modi meno inquinanti a parità d'investimento.
5. Il passo preliminare per favorire lo sviluppo delle tecnologie che riducono le emissioni di CO2 è un'accurata diagnosi energetica degli utilizzatori finali di energia per capire dove e come, a parità d'investimento, si possono ottenere le maggiori riduzioni di sprechi, inefficienze e usi impropri. E i risultati migliori in termini ambientali sono i risultati migliori in termini economici.
6. La chiave di volta per avviare un meccanismo di questo genere sono le ESCO (Energy Service Company), società che realizzano a proprie spese le ristrutturazioni energetiche dei loro clienti, richiedendo in cambio, per un numero di anni prefissato contrattualmente, i risparmi economici conseguenti ai risparmi energetici che riescono a ottenere. Queste imprese si assumono il rischio finanziario e più sono capaci di accrescere l'efficienza, cioè di ridurre le emissioni di CO2 a parità di servizi energetici finali, più guadagnano.
7. Una politica energetica impostata in chiave economica, e non ideologica, può essere il fulcro di una ripresa produttiva e occupazionale che consentirebbe ai paesi industrializzati di uscire dalla attuale fase di recessione, mentre gli strumenti tradizionali di governo dell'economia hanno dimostrato di essere diventati inefficaci.
8. La stessa metodologia operativa può essere applicata in tutti gli altri settori che generano gravi forme d'impatto ambientale (ad esempio: i rifiuti), o a quelle risorse che iniziano a scarseggiare (l'acqua); perché la causa di questi fenomeni consiste soprattutto negli usi inefficienti e negli sprechi. Molto di quanto negli attuali processi produttivi diventa rifiuto o emissione inquinante, con opportune tecnologie può tornare ad essere materia prima per altri processi produttivi, determinando una riduzione di costi direttamente proporzionale alla riduzione dell'impatto ambientale.
9. Fare uscire dalla sua specificità la politica energetica e ambientale per farla diventare la chiave di volta della politica industriale ed economica e l'unico modo per ottenere risultati significativi sia in termini ecologici, sia in termini produttivi e occupazionali. Questo e l'unico modo per avviare un circolo virtuoso nei paesi industriali avanzati, con effetti benefici anche per i paesi non industrializzati, sia perché consente una più equa ridistribuzione delle risorse, sia perché indica un modello di sviluppo ecologicamente più compatibile di quello che alcuni di essi stanno intraprendendo. L'uso più efficiente delle risorse diminuisce, infatti, i costi di produzione e i risparmi economici che ne conseguono consentono di pagare gli investimenti, i salari e gli stipendi nei settori produttivi e nelle tecnologie che accrescono l'efficienza nell'uso delle risorse. Più si accresce l'efficienza, più si risparmia, più si può investire nella crescita dell'efficienza. Questo è il nuovo circolo virtuoso che deve essere innescato per risanare l'ambiente e il sistema economico e produttivo.
10. Un sistema d'incentivi e disincentivi fiscali finalizzato ad accrescere gli investimenti nelle tecnologie che migliorano l'efficienza energetica, e più in generale nell'uso delle risorse, è pertanto l'elemento decisivo per rilanciare l'economia, consentendo contemporaneamente di accrescere l'occupazione e ridurre l'impatto ambientale.
VISIONE PEDAGOGICA/FILOSOFICA
Approccio culturale
PEDAGOGIA/FILOSOFIA
Approccio pedagogico: La natura e la salvaguardia dell'ambiente
L'importanza dell'educazione all'ambiente
(da E. Bardulla, Pedagogia ambiente società sostenibile ; Anicia Roma 98)
Una crescita economica ed uno sviluppo tecnologico senza precedenti, accanto ad innegabili vantaggi, hanno prodotto effetti nefasti sulla società e sull'ambiente naturale. Occorre creare una diversa concezione dello sviluppo in grado di soddisfare i bisogni di tutti gli abitanti del globo e di assicurare al tempo stesso un rapporto equilibrato tra umanità ed ambiente naturale.
Per attuare ciò si richiede una rivoluzione culturale: è necessaria una nuova etica universale adeguata alla posizione che l'uomo occupa all'interno della biosfera fondata sulla consapevolezza dei rapporti complessi che legano gli esseri umani ai loro simili e alla natura.
È necessario quindi che milioni d'individui rivedano le loro scelte, assumano un'etica universale, personale e individualizzata, e manifestino in tutti i loro comportamenti, un impegno per il miglioramento dell'ambiente e della qualità della vita.
L'educazione è molto importante, ma occorre una nuova educazione in materia d'ambiente. Questa deve fondarsi sui principi fondamentali sanciti dall'ONU: l'educazione in favore dell'ambiente. Questa non sarebbe un'ulteriore materia da introdurre, ma un denominatore comune d'insegnamento rinnovato. Le nuove generazioni potrebbero dare vita ad un rapporto con l'ambiente meno distruttivo e maggiormente compatibile con la sopravvivenza del pianeta.
L'obiettivo che ci si propone di raggiungere è far in modo che ogni studente, confrontando il proprio atteggiamento ed il proprio giudizio morale su una questione specifica con gli atteggiamenti ed i giudizi dei compagni, diventi consapevole dei principi morali e delle logiche che lo hanno indotto ad assumere una determinata posizione.
L'educazione non può non avere una rilevanza ambientale.
L'educazione ambientale non è un uovo in più da riporre in un paniere curricolare ormai stracolmo; è piuttosto un paniere più capace in cui collocare i contenuti e le materie esistenti.
L'educazione ambientale ha quindi la necessità di affrontare alle radici la questione dell'origine della crisi, indicando chiaramente le responsabilità non solo dell'industria, ma anche della pubblicità e della politica. Le strategie educative utilizzate fino ad ora si sono ispirate ad un modello antropocentrico, anziché ecocentrico. È necessario che l'educazione all'ambiente realizzata nella scuola favorisca la messa in discussione di tutti quei modi di pensare, entrati ormai a far parte della mentalità collettiva, cui il movimento ambientalista imputa le principali responsabilità della crisi che stiamo attraversando. Si tratta in pratica di esaminare criticamente i miti del dualismo, del dominio, del potere della scienza e della tecnica, del successo economico, del nazionalismo, dell'individualismo, del progresso, ecc.
Approccio pragmatico:il modello imperniato sulla soluzione razionale dei problemi.
Si tratta di un modello di soluzione razionale dei problemi assolutamente lineare, il cui presupposto fondamentale consiste nel ritenere che la crisi dipenda più che altro da una mancanza di informazioni o da una scarsa consapevolezza della effettiva gravità del problema e del rapporto di strettissima interdipendenza che deve sussistere tra gli esseri umani e l'ambiente naturale.
Obiettivi:
consapevolezza (sensibilità per l'ambiente globale e per i problemi ad esso relativi), conoscenza (del funzionamento dell'ambiente, dei modi in cui l'uomo interagisce con esso, delle cause e delle possibili soluzioni dei problemi ambientali), atteggiamenti (valori e sentimenti di attenzione all'ambiente, motivazione e fiducia nell'efficacia dell'impegno a favore dell'ambiente), abilità (richieste per individuare i problemi, per affrontarli e per contribuire alla loro soluzione), partecipazione (impiego delle conoscenze e abilità in esperienze concrete di soluzione dei problemi).
È fuori dubbio che il ritmo del degrado ambientale continua ad accelerarsi e non ci resta che un'amara constatazione: siamo la prima generazione cui spetti stabilire, grazie alle decisione che prenderemo, se la terra debba rimanere o meno un luogo abitabile.
I limiti e gli insuccessi del modello "razionale".
A provocare la messa in discussione dell'approccio pragmatico e del modello incentrato sul comportamento razionale sono stati anzitutto gli esiti alquanto deludenti dei programmi su di esso fondati. Non vi sono stati, nell'arco degli ultimi vent'anni, sensibili modificazioni nel grado di attenzione alla problematica ambientale e negli atteggiamenti ad essa relativi da parte della pubblica opinione.
In seguito ad analisi effettuate sulle conoscenze degli studenti in campo ambientale è risultato che molti studenti sono ignoranti in tale materia e che la maggior parte dei soggetti dimostra una conoscenza soltanto elementare dei problemi ambientali e si rivela incapace di comprenderne le conseguenze e di pensare alle possibili soluzioni.
Atteggiamenti e comportamenti difficili da sradicare.
Pensare di modificare le abitudini della gente suscitando una generica disponibilità a compiere delle rinunce non è certo realistico. Se si vogliono produrre cambiamenti e sacrifici specifici, anche il messaggio educativo deve essere mirato. Deve cioè definire in modo esplicito la natura del problema, specificare quale rapporto vi sia tra questo ed i comportamenti di ogni singolo individuo ed indicare come tali comportamenti debbano essere concretamente modificati.
L'educazione minacciata di estinzione
Per verificare questa ipotesi, si è risaliti alle origini dell'attenzione ai risvolti educativi della crisi "ecologica" e si è constatato come gli elementi di criticità presenti fin dall'inizio nel contributo di alcuni autori siano stati sopraffatti dall'esigenza di privilegiare in ogni caso il modello pragmatico, messo a punto negli Stati Uniti, ma ben presto recepito su scala planetaria Il prevalere di questa impostazione ha comportato la perdita di quei tratti di globalità, che, stando ai documenti degli organismi internazionali, avrebbero dovuto caratterizzare la "soluzione educativa", e ha fatto sì che l'educazione ambientale assumesse sempre più una caratterizzazione meramente settoriale e tecnicistica. Con il venire meno della fiducia in tale modello, l'attenzione viene di nuovo focalizzata sulle cause della crisi. Queste vengono individuate proprio nel senso di estraneità e di dominio nei confronti della natura cui ha dato luogo il pensiero occidentale. Viene ammonita la concezione antropocentrica, ma responsabilità ancora maggiori vengono attribuite alla scienza e alla tecnologia moderne, per la visione distorta che del mondo naturale e della collocazione dell'uomo al suo interno è stata prodotta dal dualismo cartesiano. Scienza e tecnica non sono ritenute in grado di offrire soluzioni.
In quanto deputate alla trasmissione del patrimonio culturale e delle idee dominanti nella società, le istituzioni educative hanno anch'esse delle responsabilità piuttosto pesanti. Nella prospettiva ecologica profonda, l'educazione si riduce ad evento "naturale", ad accadimento in prevalenza spontaneo, perché effetto del semplice contatto con la natura allo stato selvaggio. Il solo ingrediente artificiale di cui essa si avvale è rappresentato dalla lettura dei classici del pensiero conservazionista e delle utopie a sfondo ecologico. È appunto questa la ragione per cui si è parlato di non-pedagogia e per cui l'analisi della proposta ecologica profonda si è focalizzata in prevalenza sugli elementi contenutistici. L'ecologia profonda è accusata di avere rinunciato alla propria purezza originaria per aumentare la propria capacità di influenza politica.
Il presupposto di partenza è appunto che le persone siano in grado, se supportate dall'azione formativa, di affrontare in modo libero e responsabile i problemi dell'ambiente, sapendo cogliere i pesanti condizionamenti che su di essi vengono esercitati dal potere politico ed economico.
Prevalente in ogni caso è la tendenza a privilegiare un'impostazione pragmatica ed a concepire l'intervento educativo principalmente come strumento di ingegneria sociale, ammettendone che può consentire la messa in atto di comportamenti compatibili con la salute dell'ambiente. Il che presuppone l'esistenza di un disegno globale e di un soggetto collettivo in grado di assicurarne l'attuazione. Si rischia così di dare per scontato che l'umanità nel suo complesso possa gestire in modo intelligente, intenzionale e razionale le proprie interazioni con l'ambiente, riprendendo il controllo su un potere tecnologico sfuggitevele di mano ed organizzando di conseguenza l'azione educativa.
Si tratta di analizzare approfonditamente come la società reagisca ai problemi ambientali e non come essa dovrebbe o potrebbe reagire se volesse migliorare i propri rapporti ambientali. Si dovrebbe solo esigere che si usassero meno risorse, venissero scaricati nell'aria meno gas di scarico, venissero messi al mondo meno bambini. Solo che chi si pone il problema in questi termini fa i conti senza la società.
Fede nella ragione e nel progresso, da un lato, e ritorno alla natura incontaminata, dall'altro, non sono più riducibili a semplici tendenze letterarie.
Oggi, diversamente da ieri, quello che sembra venir meno è la stessa possibilità di una dialettica tra le opposte posizioni, per la definitiva scomparsa di certe forme di interazione con l'ambiente naturale.
Si potrebbe vedere in tutto questo una condizione ottimale anche sotto il profilo degli apprendimenti conseguiti, muovendo dal presupposto che è nelle situazioni ludiche, negli hobbies e nelle attività del tempo libero che i soggetti imparano davvero. Ma ciò presenta dei rischi notevoli: in primo luogo perché impedisce di cogliere la strutturale ambiguità della condizione umana, occultandone il versante che vede l'uomo come un predatore, ossia come un essere costretto, per vivere, a sfruttare la natura; in secondo luogo per gli effetti che ne possono derivare sul piano politico, non solo come conseguenza del disimpegno, dell'apatia e del ripiegamento sul privato che l'esclusione dai rapporti produttivi con la natura può generare, ma anche per la concentrazione del potere effettivo nelle mani di chi non intende certo rinunciare all'attuazione e al controllo di questo tipo di rapporti.
Se si ritiene che il compito dell'educazione sia quello di concorrere a rendere più umana, intelligente, consapevole, libera, critica e al tempo stesso più sentita e partecipata la risposta ai problemi posti dalle interazioni individuali e collettive con l'ambiente, le cose si complicano. Rischia infatti di prospettarsi davvero, in questa ottica, la fine dell'educazione; una fine i cui segni premonitori sono peraltro già visibili nella nostra società.
Il problema vero sta se mai nel rischio che si tratti, anche per l'educazione, del passaggio ad un processo del tutto artificiale, come appunto sta capitando per le interazioni con l'ambiente; di un processo in cui la realtà con la quale occorre imparare a rapportarsi in modi davvero degni di un essere umano è una realtà soltanto virtuale.
Si è ventilata l'ipotesi che la "fine dell'educazione", la perdita di una visione unitaria e del significato stesso dei processi educativi non sia fenomeno privo di connessioni con la scomparsa della "natura". Quello che è certo è che un determinato tipo di mondo è ormai scomparso e che con esso sono ormai scomparse certe virtù che di questo erano tipiche e certi effetti che dall'apparenza o dal contatto con esso venivano inculcate, in modo automatico.
Una via, certamente difficile ma non impossibile, consiste invece nel ridefinire i bisogni anteponendo "il bisogno del mondo al mondo dei bisogni" e cominciando << a reimparare, un passo dopo l'altro, a fare a meno di quelli che, individualmente e collettivamente, riteniamo di pagare ' troppo cari ' >>. Ciò implica il recupero di quelle forme di attaccamento alla terra e di radicamento che nelle società commerciali e tecnico scientifiche si sono rivelate strutturalmente incompatibili con il progresso, la razionalizzazione e la produttività; in altri termini, il superamento della contrapposizione invalsa fino ad ora tra rurale ed urbano, erroneamente considerati simbolo rispettivamente di tradizione e innovazione, di oscurantismo e di criticità.
Alle radici della "fine" dell'educazione possono esservi anche lo iato incolmabile che si è prodotto, a questo riguardo, tra le vecchie e le nuove generazioni e la conseguente impossibilità, tra di esse, di una comunicazione realmente efficace, perché basata sulla condivisione dei significati.
È tramontata un'epoca durata all'incirca dodici millenni, dal neolitico ad oggi, e ne è iniziata una nuova, i cui sviluppi sono del tutto imprevedibili. E il guaio sta nel fatto che le sole risorse culturali delle quali disponiamo sono il precipitato delle esperienze, delle lotte, delle scoperte, delle sofferenze, delle speranze maturate nel contesto del rapporto con l'ambiente naturale che ha caratterizzato questo arco di tempo e che sembrerebbero non essere di grande utilità in una situazione radicalmente mutata, nella quale in un certo senso non è più la natura a ristabilire gli equilibri sconvolti dall'uomo, ma è piuttosto quest'ultimo che deve farsi carico della salvaguardia di sistemi naturali divenuti sempre più fragili sotto la pressione del fattore antropico.
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La filosofia non offre nozioni scientifiche utili alla sostenibilità ambientale, offre però visioni e pensieri che supportano l'ampliamento degli orizzonti dialettici tra i problemi e le varie visioni.
Rapporto
uomo -natura
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