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BRESCIA
Una città modello dell'urbanistica fascista
"Pochi centri d'Italia hanno sentito come Brescia la necessità non di un miglioramento, ma di una trasformazione radicale, in armonia col rinnovamento e più intenso ritmo dopo l'avvento del Fascismo al potere".
"Opere pubbliche", gennaio- febbraio 1934
Brescia
L'immagine di Brescia riflessa nel largo pubblico è oggi quella della 'città del tondino': metafora, forse un po' datata ma pur sempre efficace, della sua tradizionale operosità ed intraprendenza. Per chi viceversa ha memoria di più antiche glorie essa è 'la Leonessa d'Italia'. Il riferimento è alle epiche 'dieci giornate' nel corso delle quali la città tenne eroicamente testa - siamo nel marzo del 1849 - alle truppe del comandante austriaco Haynau.
Breve storia della città
Chi siano stati i primi abitatori delle lande bresciane è a noi impossibile dirlo; si trovano alcune tracce d'insediamenti umani solo in quella che oggi è la provincia di Brescia, ma non nel territorio ove oggi sorge la città di Brescia.
Dalla fondazione all'età gallica
Le origini di Brescia sconfinano nella leggenda: vi è chi fa risalire le origini di Brescia a Ercole, chi ne fa risalire la fondazione a Troe che, scappando da Troia in fiamme, giunge presso il luogo ove ora sorge Brescia e lì fonda Altilia, vale a dire l'altra Ilios e quindi l'altra Troia. Ma la leggenda che, secondo la storiografia, più probabilmente contiene un fondo di verità, è quella che si riferisce a Cidno, re dei Liguri, che nella tarda età del bronzo invase la pianura Padana e, giunto presso il colle Cidneo (al centro dell'attuale Brescia), ne fortificò la cima, nel punto in cui oggi sorge il Castello. Altri ancora sostengono che i primi abitanti del territorio bresciano furono gli Etruschi, che si stanziarono nella pianura cispadana.
L'evento di maggior importanza per la storia bresciana fu però l'invasione dei Galli Cenomani (IV secolo a.C.), i quali con l'ausilio degli Insubri stanziatisi in quella che oggi è la Lombardia occidentale, s'insediarono nella regione compresa tra l'Adige e l'Adda, facendo della futura Brixia la loro capitale. A quell'epoca risale la fondazione da parte dei Cenomani delle città vicine a Brescia, tanto che il poeta veronese Catullo definì Brixia 'mater meae Veronae'.
Età romana
Dal 196 a.C. ha inizio per Brescia l'età romana; tuttavia a Brescia non vi fu mai un'occupazione Di Roma, ma ne rimase solamente alleata. La Brixia romana era un importante centro religioso, inserito amministrativamente nella Regio X Venetia et Histria, aveva ben 3 templi di cui uno è parzialmente visibile ai giorni nostri e gli altri 2, di dimensioni molto maggiori, sorgevano ove sorge attualmente il castello. Vennero costruiti l'acquedotto, l'anfiteatro, peraltro utilizzato anche in epoca medievale, le terme dove ora sorge la Rotonda (ovvero il Duomo Vecchio) e nelle vicinanze di quella che oggi è piazza Tebaldo Brusato, e sotto il regno di Vespasiano il 'tempio capitolino' con il Foro ad esso adiacente. Un altro aspetto da considerare è la condizione economica bresciana durante l'epoca imperiale. Se da un lato vi fu un forte sviluppo economico, dall'altro la povertà di certe popolazioni rurali spinse un gran numero di bresciani ad arruolarsi nelle legioni; in particolare molti bresciani vennero arruolati nella Legio VI Ferrata.
Tempio capitolino.
Incursioni barbariche
Nel 402 Brescia venne travolta delle orde gotiche di Alarico, fu saccheggiata dagli Unni di Attila nel 452, nel 476 un guerriero Turclingio di nome Hedacher, detto dai cronisti latini Odoacre alla testa di un esercito di Eruli conquistò dapprima la pianura transpadana portando alla fine dell'Impero e facendo entrare Brescia nel suo dominio. Il Regno di Odoacre finì con l' avanzata dei Goti Gretungi (Ostrogoti) guidati dal loro re Teodorico poi detto il grande, che nel 493 espugnò Brescia facendone uno dei suoi maggiori insediamenti insieme alla vicina Verona. Durante la Guerra Greco-Gotica Brescia, guidata dal conte goto Widim fu, insieme alla vicina Verona, di fatto capitale del regno Ostrogoto, una delle due città a ribellarsi al giogo bizantino.
Età Longobarda e Carolingia
Nel 568 fu tra le prime città conquistate dai Longobardi, diventandone, durante il regno longobardo (568-774), uno dei centri propulsori e sede di un importante ducato; tra i duchi si conta anche Rotari, poi re dei Longobardi e primo legislatore del suo popolo. Oltre a Rotari Brescia diede al regno dei longobardi altri due re: Rodoaldo, figlio di Rotari, e Desiderio. Il regno dei longobardi durò 2 secoli, poi la città venne annessa da Carlo Magno al suo impero germanico, fino all' 888 d.C. Tra l'855 e l'875 Brescia divenne di fatto la capitale dell'Impero Germanico sotto l'imperatore Ludovico II; la sua morte presso Ghedi a 20 km da Brescia privo di eredi che potessero succedergli,determinò la cessazione del periodo Carolingio per la città.
Età comunale
Brescia si affermò come Comune attorno al secondo decennio del XII secolo, comunque in epoca piuttosto tarda rispetto ai primi movimenti comunali dell'Italia padana. Nel XII secolo divenne libero comune, e fu tra i protagonisti della Lega Lombarda.
Come tutti i comuni lombardi sorse in dialettica col potere episcopale e con una iniziale connotazione di fondo aristocratica, gravitante intorno alla vassallità capitaneale dei monasteri (S. Giulia e S. Benedetto di Leno su tutti) e dell'episcopato bresciano. Inoltre la crescita del comune fu caratterizzata dalla lotta anche violenta con i grandi comuni confinanti, in particolare Bergamo e Cremona, che sconfisse a Pontoglio due volte consecutive, nelle battaglie delle Grumore (metà XII secolo) e della Malamorte (1191), di cui narra ampiamente il cronista Malvezzi. Partecipò inoltre alla lotta comunale della lega lombarda (seconda metà del XII) a fianco di Milano e Piacenza, storiche alleate del periodo comunale, e le truppe del comune si distinsero nella battaglia di Legnano come secondo contingente più numeroso e agguerrito dopo quello milanese.
La pace di Costanza (1183) segnò la definitiva affermazione del comune sul territorio, ormai controllato in buona parte, ma anche, precocemente rispetto ad altre città lombarde, l'esplodere dei conflitti civili che dai primi del XIII secolo insanguinarono la città. I nobili scacciati dalla città dalla fazione popolare si rifugiarono a Cremona raccogliendo appoggi tali da sconfiggere il comune popolare in battaglia. L'alternanza delle partes in città fu deleteria per la coesione del sistema politico, ormai in netta crisi, che sopravvisse, sotto la forma politica podestarile, sino alla fine del XIII secolo.
Il castello.
Dominazione viscontea
Il 3 luglio 1403 Baroncino II dei Nobili di Lozio, alla guida di 7000 guelfi di Valle Camonica e della Val di Scalve espugna Brescia al seguito di Giovanni Ronzoni, facendo strage di ghibellini e cacciando il vescovo Giacomo Pusterla, che parteggiava per la duchessa Caterina, moglie del defunto Gian Galeazzo Visconti e reggente del figlio Filippo Maria Visconti, lasciandola poi nelle mani di Francesco Novello dei Carrara, signore di Padova. Prima della fine dell'anno Brescia tornerà in mani viscontee.
Età veneta
Il 20 novembre 1426 Brescia si diede alla signoria di Venezia, diventando uno dei domini di Terraferma.
In epoca veneta la Bresciana aveva 21 suddivisioni: quattro podesterie maggiori, Valcamonica, Salò, Asola e Orzinuovi; tre podesterie minori, Chiari, Lonato e Palazzolo, sette vicariati, Iseo, Montichiari, Gottolengo Rovato, Calvisano, Quinzano e Pontevico; sette vicariati minori, Gavardo, Manerbio, Ghedi, Gambara, Pontoglio, Castrezzato e Pompiano. Per le elezioni delle podesterie maggiori serviva che i candidati ottenessero i 2/3 dei voti favorevoli, per gli altri bastava la maggioranza semplice. La carica durava un anno e iniziava ad ottobre.
Venezia accordava ampia autonomia ai sudditi fedeli, compensandoli con privilegi, il più importante dei quali era il distacco del territorio, che diveniva così "corpo o terra separata". Il 1 luglio 1428 fu la volte della Valcamonica; nel 1440 l'ebbero Brescia (9 aprile), Asola (27 luglio), Lonato (17 settembre) e la Riviera (19 dicembre). La Valtrompia dovette attendere il 30 gennaio 1454, la Valsabbia il 19 agosto 1463. Il territorio vero e proprio rimase comprensivo dei comuni del lago d'Iseo, Franciacorta, aree a nord ed est della città e della pianura.
Nel 1512 fu occupata e saccheggiata dal francese Gastone di Foix-Nemours.
Brescia condivise le sorti della Serenissima fino alla 'liberazione', su cui ci sarebbe da dire, del 1792 da parte di francesi e bergamaschi, successivamente divenne territorio cisalpino a seguito del trattato di Campoformio del 1797.
La città nel Settecento.
Succede poi la dominazione austriaca che gela i fervori innovatori dell'insorgente classe dirigente patriottica e liberale costringendo la società locale ad affrontare di petto il problema del suo riscatto, all'interno del quale politica ed economia finiscono per saldarsi insieme. Dominazione austriaca a parte, nel corso della prima metà dell'Ottocento a Brescia, come in tutta la Lombardia, si approfondisce il processo di sviluppo economico avviatosi nel secolo precedente. Anzi è forse proprio questa crescita a stimolare una rivendicazione di ruolo da parte dei ceti - borghesi e nobiliari - emergenti. Sotto la pressione di un'accentuata domanda estera, anche l'agricoltura bresciana risente positivamente di una generale fase espansiva. Nuove energie si mobilitano permettendo all'economia provinciale di ritagliarsi, all'interno di una divisione del lavoro di un'Europa manifatturiera, uno spazio come fornitrice di prodotti agricoli e di semilavorati, della seta in particolare.
E' sullo sfondo di questo processo che va collocato il risveglio di una coscienza nazionale che individua nella creazione di uno Stato libero, indipendente ed unificato, la condizione di un futuro progresso, stabile ed allargato. L'ideale patriottico non si configura come la semplice proiezione politica delle forze economiche interessate alla modernizzazione della società locale. Troppo esigua è la loro base perché possano esercitare un'influenza vasta. Per mobilitare un fronte più ampio capace di incrinare la dominazione austriaca e mettere a frutto le possibilità - e le aspettative - di sviluppo e di progresso, l'idea di patria deve far crescere la sua rappresentatività ed operare sul terreno politico quel che sul solo terreno economico la società locale non ha la forza di fare. In effetti l'aspirazione nazionale alla fine riesce ad affermarsi come il punto di coagulo sia di motivazioni di diversa matrice (economica, fiscale, culturale, morale, politica) sia di forze di diversa provenienza. La alimentano non solo nutrite schiere dell'aristocrazia, il grosso della borghesia imprenditoriale ed intellettuale, rurale ed urbana, ma anche larghe fasce di ceti medi e, in parte almeno, spezzoni dello stesso mondo popolare.
Il regno d'Italia
Brescia repubblicana
La Brescia Repubblicana, insignita della Medaglia d'Argento per la Resistenza, visse il periodo della ricostruzione godendo dell'operosità tipica della popolazione. L'industria pesante venne riconvertita, la città - martoriata dai bombardamenti bellici - visse gli anni della ricostruzione sotto la guida del sindaco democristiano Bruno Boni, amministratore molto amato dai cittadini, che restò ininterrottamente in carica dal 1948 al 1975. Boni era definito per dileggio 'Ciro l'asfaltatore' (lo slogan delle opposizioni fu 'asfaltar no es gobernar'), ma la sua opera intensa contribuì a creare strutture ed infrastrutture moderne ed efficienti. Alcuni suoi progetti non furono accettati (il tunnel sotto la Maddalena per togliere dalla città il traffico verso la Valtrompia, il canale navigabile di collegamento con Mantova), sebbene venissero presentati come opere di importanza strategica. Grazie ad uno dei vari progetti promossi da Boni, Brescia, prima città in Italia, si dotò del teleriscaldamento, un sistema per produrre energia attraverso la combustione dei rifiuti. Il termoutilizzatore di Brescia è stato considerato dall'Università Harvard il migliore al mondo.
In questo periodo a Brescia non venne meno la tradizione sociale, e alla figura di Boni si affianca quella di padre Ottorino Marcolini, fondatore della Cooperativa 'La Famiglia', che realizzò interi quartieri residenziali alla periferia di Brescia. Anche il mondo della cooperazione sociale, capillare e proficuo, risente dello spirito di 'cattolicesimo progressista' e trova espressione, all'inizio degli anni Ottanta, nel consorzio provinciale Sol.Co.
Il 28 maggio 1974, durante una manifestazione sindacale ed antifascista, ebbe luogo la drammatica Strage di Piazza della Loggia. Otto persone persero la vita e decine furono i feriti. Una stele commemorativa ricorda i caduti, sotto i portici di fronte alla Loggia, nel punto dove deflagrò l'ordigno nascosto in un bidone (una colonna, visibilmente rovinata, testimonia l'intensità dello scoppio). Il 16 dicembre 1976 un altro ordigno scoppiò in Piazzale Arnaldo uccidendo una persona e ferendone altre 11.
Dopo il tracollo della prima Repubblica finì l'egemonia democristiana. La tendenza cattolico democratica dei bresciani trovò però espressione nella guida di giunte di centrosinistra e dall'ultima di centrodestra i progetti più significativi di questi ultimi anni, la riforma del trasporto pubblico urbano (con la creazione delle LAM, linee ad alta mobilità) e soprattutto il discusso progetto per la Metropolitana, che verrà ultimata entro la fine del 2012.
Foto panoramica Brescia ai giorni nostri
Aveva ragione Renzo De Felice, quando disse che per interpretare il fascismo bisogna scriverne la storia. Mariano Comini, già assessore alla Cultura in Loggia, ci prova col caso bresciano, tentando di analizzare, per sommi capi, le vicende amministrative del Comune di Brescia tra il 1926 e il 1945. La «via bresciana» al fascismo ed il suo successivo consolidamento, come tema di ricerca, è un osso duro da spolpare e a Comini va riconosciuto il merito di aver affrontato un vuoto storiografico. Non è facile districarsi tra le delibere podestarili, ampiamente utilizzate, gli atti della Consulta, una sorta di organo informativo di marca corporativista, la stampa quotidiana, le carte del Prefetto, occhio attento del regime mussoliniano. Ciò che emerge, nel complesso, è la conferma di una specificità tutta bresciana della gestione della politica, che anche durante il fascismo non smentisce il suo impianto essenzialmente mediatorio e negoziale del conflitto, costruito tra Otto e Novecento sulla dialettica, a volte cruenta, del confronto tra le due subculture dominanti, quella liberale e quella cattolica. Comini parte dalla Grande Guerra: le antiche fratture, confessionale e di classe, che vedono contrapposti liberali e cattolici, sembrano ricomporsi, sotto la guida di Dominatore Mainetti, per far fronte alla sfida imposta dal conflitto bellico. Le cose, per la classe dirigente, si fanno complicate nel dopoguerra. Riconversione industriale, debito pubblico, disoccupazione, radicalizzazione ideologica. La capacità del sistema politico bresciano di sciogliere i conflitti nell'ampia rete di meccanismi mediatori e consociativi si infrange sulla radicalizzazione degli attori politici, socialisti e popolari. Veti partitici incrociati, vecchie ruggini ideologiche, difficoltà di gestione delle massacrate finanze pubbliche inchiodano l'operatività della Giunta. Sfruttando la paura per il pericolo, per altro reale, del bolscevismo incipiente e l'arroccamento di liberali, popolari e socialisti sulle rispettive posizioni, il fascismo bresciano s'insinua lentamente nel vuoto di potere. Un fascismo peraltro che, una volta insediatosi, recupera esattamente le rodate pratiche mediatorie della vecchia «scuola bresciana», interpretate però in chiave autoritaria. Dietro le camicie nere bresciane c'è il nuovo che avanza. Sono i liberalmassoni di marca zanardelliana: Giarratana, Turati, Calzoni, Lechi, Bersi, e per ultimi Dugnani e Frigeri. È un'affermazione tardiva quella del fascismo bresciano, che segue e non anticipa l'ascesa al potere di Mussolini, e che conosce il suo massimo «splendore» negli anni Trenta, sotto la diretta tutela di Augusto Turati, divenuto esponente di primo piano del fascismo nazionale.
Solo grazie alla protezione di Turati, Pietro Calzoni, primo podestà, riuscirà a far decollare le grandi opere di modernizzazione che Brescia attendeva da tempo: nuovi edifici scolastici, bitumatura delle strade, copertura del Garza, giardini pubblici, la Centrale del Latte, sanatori, le case popolari a Campo Marte, l'apertura della bretella di via Oberdan, il risanamento dei mefitici quartieri popolari al cui posto sorge l'odierna piazza della Vittoria. Opere importanti, ma che lasceranno in eredità a Fausto Lechi un debito finanziario pesantissimo. Malgrado ciò, anche Lechi lascerà la sua impronta: la traversa di Porta Trento e di S. Eufemia, le basi urbanistiche per la costruzione del nuovo ospedale, i nuovi filobus al posto dei vecchi tram, gli scavi del Foro romano e due importanti mostre sulla pittura bresciana. Toccherà a Piero Bersi sobbarcarsi l'onere della gestione cittadina durante il secondo conflitto mondiale. I problemi legati alla guerra (razionamento, costruzione di rifugi antiaerei, assistenza ai profughi e sfollati) ipotecheranno la podesteria e poco di nuovo verrà messo in cantiere (tranne l'incipit per la costruzione del cavalcavia ferroviario e lo scavo della galleria sotto al Cidneo). I fatti del 25 luglio e 8 settembre prenderanno in contropiede tutti, in primis Innocente Dugnani, terzo podestà, che, anche in veste di Capo della Provincia, si troverà a gestire lo stato d'emergenza costante nel quale vive la Repubblica sociale italiana. Fame, borsa nera, bombardamenti, penuria di materie prime. Un gran caos, insomma. Lo scettro del potere passa quindi alla poco nota figura di Ruggero Frigeri, podestà-operaio, secondo le richieste di Mussolini, nel novembre del'44. Siamo agli sgoccioli, si sente già l'odore della sconfitta e la gestione del Comune ne risente in pieno.
In vent'anni di dominio fascista, pur con tutti i limiti che sappiamo, Brescia passa da 100mila a quasi 150mila abitanti, si dota di un assetto urbanistico moderno, costruisce case, scuole, getta le basi di un moderno ospedale e, cosa non da poco, affronta, come può, le conseguenze dell'entrata in guerra dell'Italia. Un risultato da non sottovalutare.
Il sogno di una grande Brescia
La vicenda urbanistica bresciana che porta al piano piacentiniano e alla sua parziale realizzazione con la costruzione di piazza della Vittoria s'inserisce, non marginalmente, nel dibattito culturale e storico-architettonico d'oggi come esempio dei modi dell'intervento fascista nelle città di medie dimensioni. L'operazione di piazza della Vittoria, che si collegava alle proposte di alcuni tecnici del periodo tra il 1913 e il 1914, dimostra inoltre la sostanziale continuità d'idee tra anni pre-fascisti e fascisti, ed evidenzia uno stringersi d'interessi economico-commerciali attorno al nuovo regime.
Il "motore" e l'artefice dell'iniziativa per lo studio di un nuovo piano regolatore fu la figura più in vista del fascismo bresciano, Augusto Turati, che sul finire del' 26 poteva contare sull'attenzione favorevole di Giulio Togni. L'appoggio iniziale dell'industriale a Turati era espressione degli interessi del mondo imprenditoriale per lo sviluppo e il potenziamento della rete infrastrutturale, in particolare per lo spostamento della stazione ferroviaria verso sud, e in genere per l'espansione della città. Dopo la bocciatura del progetto di spostamento della ferrovia e il progressivo rallentamento delle ipotesi di crescita territoriale e soprattutto infrastrutturale, si sarebbe assistito infatti al netto disimpegno di Togni e al delinearsi di una opposizione all'interno del mondo finanziario bresciano all'idea di Turati. La dirigenza fascista, prendendo atto della nuova situazione, decise quindi di aprire l'operazione di risanamento del centro urbano a enti statali e assicurativi (Ina, Assicurazioni Venezia, Adriatica di Sicurtà) che divennero i reali beneficiari dell'intervento.
In favore di una realizzazione urbanistica di grandi proporzioni giocavano anche due diversi ordini di considerazioni: da un lato, essa avrebbe risolto, almeno in parte, i gravi problemi di disoccupazione locale; dall'altro, un concorso che vedesse la partecipazione di architetti e urbanisti di levatura nazionale avrebbe costituito uno strumento di forte propaganda per la dirigenza locale del partito.
Augusto Turati.
Giulio Togni.
Primi interventi nell'aera di proprietà di Giulio Togni, quella tratteggiata in verde: lo scalo ferroviario, l'autostrada, il canale navigabile
Il piano regolatore del 1929
Il concorso per il piano regolatore di Brescia venne bandito nel 1927, e i progettisti chiamati in causa in quell'occasione diedero all'amministrazione fascista la possibilità di avviare la stesura di un nuovo piano redatto dall'ufficio tecnico comunale, al quale fu chiamato a collaborare come consulente urbanistico Marcello Piacentini. La dirigenza locale del partito, per non scontentare nessuno dei concorrenti premiati al concorso, gli affiancava, sulla base di una precisa scelta del Piacentini, un membro di ogni gruppo premiato: Mario Dabbeni per gli "urbanisti romani", Pietro Aschieri e Luigi Piccinato e forse su indicazione di Turati l'ingegner Alfredo Giarratana. La collaborazione di quest'ultimo, tuttavia, non durò a lungo, per un dissidio personale con Piacentini e anche per il sostanziale prevalere del gruppo romano e delle linee dell' urbanistica "di regime" rispetto agli indirizzi dei gruppi economici locali rappresentati dal tecnico bresciano.
Ufficialmente, l'iniziativa di affidare l'incarico a Piacentini e all'Ufficio tecnico venne presa dopo la metà del 1928; in realtà a quella data i lavori per il piano erano già ad uno stadio piuttosto avanzato. Il concorso, dunque, non fu altro che un veicolo pubblicitario atto a definire idee e proposte. La figura del Piacentini concluse appunto un'operazione rigidamente orchestrata dalla volontà del vertice politico sia locale che nazionale.
Il piano, siglato dall'ingegner Vittorio Toccolini e dall' architetto Oscar Prati dell'ufficio tecnico comunale, fu terminato il 25 ottobre del 1928, presentato alla consulta municipale due giorni dopo e approvato assieme al piano finanziario il 3 novembre dal podestà Calzoni.
Il progetto dell'ufficio tecnico si ricollegava esplicitamente ad alcune ipotesi avanzate nel lontano 1913 dall'ingegner Dabbeni per quanto riguardava l'idea del collegamento tra le vie per Milano e Venezia attraverso il centro della città, mentre la proposta della cosiddetta "diagonale della Pallata", ossia il collegamento tra l'attuale via Dante e l'inizio di via Garibaldi, era ripreso dagli studi del 1914 dell'ingegner Massarani.
In sintesi il piano era composto da tre idee chiave:
il collegamento tra le vie per Milano e Venezia attraverso l'unione dei tratti viari di corso Garibaldi, diagonale della Pallata, Piazza Vittoria, piazzetta Paganora, via Tosio, porta Venezia;
il collegamento tra porta Trento e porta Cremona attraverso la demolizione degli isolati e degli edifici prospicienti via Fratelli Porcellaga e via Ugo Foscolo( oggi corsetto Sant'Agata);
la formazione di una grande piazza centrale (piazza Vittoria) con funzione di snodo viario e cerniera tra i due assi viari sopra richiamati.
Il piano del 1929 - attuato solo parzialmente con la costruzione di Piazza della Vittoria - assumeva pienamente la cultura del risanamento igienico attraverso interventi di demolizione e di rettifica di edifici e monumenti. In particolare esso prevedeva:
l'isolamento del Duomo Vecchio attraverso la demolizione degli edifici addossati all'antico complesso architettonico prospicienti via Trieste;
l'isolamento del complesso monumentale di porta Bruciata e del tempietto di San Faustino;
la demolizione degli isolati all'angolo nord di piazza Duomo, nel tratto finale dell'attuale via Beccaria;
la demolizione, per la realizzazione dell'asse viario della "diagonale della Pallata", degli edifici di via Giulio Usberti, di via Giovane Italia e quelli del tratto finale di corso Garibaldi prospiciente la torre della Pallata;
la demolizione degli isolati attorno al volto Paganora e delle vie Mazzini e Gabriele Rosa per la realizzazione del collegamento viario diretto tra piazza Vittoria a ovest e via Tosio a est;
l'isolamento del fianco sud della chiesa di Sant'Agata, attraverso la demolizione degli isolati addossati al complesso religioso e prospicienti via Dante;
l'allargamento del tratto settentrionale di via Umberto I attraverso la parziale demolizione degli edifici siti tra via Aurelio Saffi e via Umberto I;
la realizzazione, sull'area prospiciente largo Tommaso Formentone, del nuovo palazzo degli Uffici comunali, che nell'ipotesi di progetto veniva ad affiancare il palazzo della Loggia.
Proposta di piano regolatore dell'ufficio comunale
Gli anni Trenta, nuova edilizia e nuove infrastrutture
Mentre una fetta di città si andava creando, presso Campo Marte, il tema della connessione di Brescia con il territorio si reimponeva annoverando progetti, alcune vistose realizzazioni e qualche delusione. Fra le realizzazioni vanno annoverate le massicce edificazioni che il Comune, e anche alcuni privati, attuarono a cavallo fra secondo e terzo decennio. La formazione di piazza della Vittoria aveva consigliato l'azione di predisposizione di abitazioni di supplenza. Nella ex piazza d'armi l'Amministrazione comunale costruì due vasti blocchi abitativi, nell'ambito della costruzione del quartiere che allora era denominato "Vittorio Veneto". Sul lato sud e nord della nuova via Monte Grappa vennero edificati, fra il 1928 e il 1929 due grandi blocchi di case popolari comunali, per un totale di 258 appartamenti e 860 vani. Successivamente, nel 1930, era stata eretta una grande casa popolare nella zona industriale di via Milano, mentre nella zona dell'attuale via Panoramica, l'ingegner Egidio Dabbeni aveva presentato il progetto di un'ampia lottizzazione voluta da dei privati.
Con l'arrivo dell'autostrada, aperta alla circolazione nel 1931, si veniva a costituire così il primo di quegli elementi forti che sembravano avere innescato il rilancio della pianificazione urbanistica basata sull'espansione verso sud. Il punto di arrivo con l'autostrada era nell'innesto con via Flero e ne fu conseguenza anche in previsione di un più vasto sfruttamento, la costruzione dell'attuale via Dalmazia e del sottopassaggio ferroviario inerente, che denunciava già la convinzione dell'improbabile attuabilità dello spostamento a sud dei binari della linea Brescia - Milano. La realizzazione dell'autostrada costituì tuttavia l'unica concretizzazione, nel quadro delle infrastrutture, fra gli intensi progetti e gli ampi movimenti promozionale dei gruppi economici e politici bresciani. L'impresa del canale navigabile languiva in pastoie arenate nei tempi lunghi, che si sarebbero estesi per i decenni a venire. Più grave era invece la situazione contro cui si scontrò la questione dello spostamento della ferrovia, il cui progetto era stato determinante nel mettere in movimento gran parte del fermento pianificatorio degli anni Venti. Anche il più ovvio trasferimento dello scalo merci, per il quale già si erano operati gli espropri, tardava a divenire operativo. I lavori si svolsero fra il 1929 e il 1930, ma l'apertura dello scalo avvenne solo nel 1932. Soprattutto però vi era molta incertezza circa lo spostamento della ferrovia. Si capiva che il progetto stagnava e ben presto apparve il motivo, che era solamente economico. Sulla spesa di sessanta milioni di lire previsti per lo spostamento a sud della ferrovia e della stazione l'amministrazione ferroviaria,esigeva un contributo da parte del Comune di Brescia di trentacinque milioni, ridotto poi a venti milioni. La cifra risultava comunque esorbitante per le casse del comune, considerati gli ingenti prelievi finanziari richiesti dalla costruzione della fognatura, dallo sventramento del quartiere delle Peschiere, dalla costruzione della caserma "Achille Papa" e dalla costruzione delle case popolari.
La costruzione di una stazione in aperta campagna avrebbe inoltre comportato ulteriori spese per gli allacciamenti viari e la stagnazione edilizia, che di nuovo era ripiombata sull'economia, non lasciava prevedere un rapido fiorire di quell'urbanizzazione in quartieri giardino che i visionari esistenti, avevano già creato con la sola forza del pensiero.
Un altro grosso problema riscontrato a Brescia era causato dall'assenza di magazzini nei quali conservare i generi alimentari e fra di essi il formaggio. La camera di commercio aveva sollevato più volte i problema negli anni Venti, denunciando che le tradizionali e sparse casère non erano più sufficienti e che molti grossisti erano costretti a immagazzinare i prodotti caseari in provincia di Cremona. La Camera aveva promosso quindi l'allestimento di alcuni magazzini lungo via Leonardo da Vinci, ma con la consapevolezza che si trattava di un ripiego. Aveva infine intrapreso, attraverso la costituzione di una propria azienda speciale e dell'"Ente magazzini generali", l'operazione per la costruzione di un grande impianto di magazzini. Anche per sopravvenute prescrizioni sull'inopportunità che i Consigli provinciali dell'economia intraprendessero direttamente azioni costruttive e di gestione di attrezzature come quelle dei magazzini generali, l'iniziativa passò a una società privata.
L'area destinata a questo intervento fu scelta lungo via Dalmazia, nei pressi dell'antico "borghetto S. Nazaro", borgo cresciuto anticamente all'esterno dell'omonima porta cittadina. La società incaricata di realizzare l'opera lavorò con efficienza, giungendo a realizzare, su un'area di trenata duemila metri quadri, il grande complesso strutturale tuttora esistente. I magazzini vennero inaugurati nel 1932 e quel giorno uno dei più grossi servizi urbani poté divenire operativo.
Planimetria dell'area dei magazzini generali.
I magazzini generali.
Il piano urbanistico generale degli anni Trenta
Prima di vedere sfumato il grande piano dello spostamento della ferrovia, Marcello Piacentini e l'ufficio tecnico comunale avevano steso quel piano regolatore per l'espansione della città che è generalmente ignorato e che ha accreditato la versione storiografica di un'amministrazione solo tesa alla riconversione del centro storico. Fra il 1929 e il 1930 furono disegnate delle accurate mappe dell'ampliamento pianificato a Brescia, sino ai limiti già individuati per il concorso del 1927 e cioè sino a via Oberdan, a nord, al Mella, a ovest, sino alla nuova linea ferroviaria a sud e lungo il piede collinare e alla Bornata a est. Gli elaborati, corredati di una dettagliata relazione, includevano la zonizzazione secondo i più moderni criteri. Nella periferia si distinguevano quattro zone, in base a una identificazione di importanza e qualità. La zona sud era definita la più ricca di potenzialità e anche di destino prestigioso. In essa la mancanza di elementi condizionanti preesistenti consentiva di spaziare in soluzioni libere, orientate alla creazione di quartieri adatti a un centro cittadino. La zona a sud-est assumeva caratteri misti dove le residenze sfumavano dalla compattezza urbana a quella diradata, che prevaleva nella zona pedecollinare e orientale, da destinare ala "costruzione prevalente di ville : quartiere giardino". Una zona sportiva era prevista nel territorio del già esistente "stadium". La zona occidentale, separata da quella meridionale da un piccolo cuscinetto a destinazione residenziale rada , si confermava nella sua destinazione industriale, nelle cui adiacenze si ponevano i quartieri operai. Nella zona a nord della città, tralasciando il quartiere di Campo Marte, si constatava che le disseminate preesistenze non avrebbero consentito di costruire dei comparti urbani di reale importanza. Per i Ronchi si prevedeva un piano speciale. Tutte le zone erano organizzate secondo tre livelli di zonizzazione edificatoria, che pure senza precisare veri e propri indici di fabbricabilità, prevedevano la fascia intensiva, con grandi fabbricati, la semintensiva, con palazzine e l'estensiva, basata su quartieri giardino. Erano inoltre collocate varie e significative strutture pubbliche come i mercati, il maggiore dei quali si trovava a sud-est della città antica, le scuole e le chiese. Ampi parchi erano poi previsti, come affermava la relazione, presso lo stadio, a nord della città, attorno al manicomio e a barriera fra un quartiere operaio e la zona industriale. Il piano non faceva alcun riferimento alle grandi strutture che erano alla ribalta nei progetti del concorso e anche nei programmi amministrativi. Non si faceva neppure cenno a nuove zone ospedaliere, al nuovo macello o al foro boario, né alle nuove officine del gas.
Il cavalcavia ferroviario
Nell'aprile del 1933 era nominato a capo dell'amministrazione fascista di Brescia, alla carica di podestà, il già vice presidente del Consiglio provinciale dell'economia, dal 1929, nonché presidente dell'Ateneo, il conte e avvocato Fausto Lechi. La sua nomina rientrava in una normalizzazione politica che poneva in disparte i personaggi più gagliardi e battaglieri della prima ora, quelli che diedero, in sostanza, l'immagine più energetica ed entusiastica del fascismo, anche nell'impegno operativo applicato alla città, alle opere pubbliche e alle innovazioni.
La città, fra i problemi dell'economia nazionale e il massiccio salasso finanziario subito dall'operazione di piazza della Vittoria, procedeva con una gestione assai guardinga delle opere pubbliche e anche le celebrazioni della ricorrenza della marcia su Roma risultavano sempre povere di inaugurazioni. Il debito con la città di Genova era ancora di quaranta milioni di lire e i problemi fra cui quello abitativo, si andavano ripresentando. Tuttavia maturavano per la città alcuni eventi che avrebbero caratterizzato la sua espansione in modo molto importante, anche nel secondo dopoguerra e per un aspetto, sino ai giorni nostri.
Il cadere di ogni credibilità dell'attuazione dello spostamento della ferrovia verso sud, nel 1933-34, indusse una rapida conversione dei programmi urbanistici. L'attenzione per lo sviluppo della città a sud dei binari rimaneva tuttavia fra i punti ineludibili dell'urbanistica bresciana e il venire meno della soluzione radicale poneva in campo le più normali soluzioni di attraversamento dei binari.
Nell'estate del 1934 venne presentato il progetto di un grande cavalcavia che avrebbe permesso di scavalcare il fascio di binari. L'idea del cavalcavia era davvero innovativa,infatti, prima di allora erano sempre stati realizzati passaggi a livello o sottopassaggi che però bloccavano il traffico, in quanto non erano praticabili da tutti i veicoli.
Il progetto , già topograficamente elaborato, individuava nell'asse di corso Umberto I, oggi via Gramsci, il canale di collegamento con il nocciolo urbano, ormai individuato in piazza della Vittoria, alla quale il corso era stato ampiamente collegato. Un grande cavalcavia venne quindi ipotizzato in prosecuzione del corso, verso lo scavalcamento del vasto fascio ferroviario, fino a sfociare a sud dello stesso, nella zona della piccola strada suburbana, via Saffi, in un piazzale dal quale si sarebbero irradiate quattro nuove strade. La disponibilità dell'amministrazione ferroviaria a sostenere le spese per la realizzazione dell'opera, incoraggiò il Comune a procedere in quella direzione.
La questione del cavalcavia si sarebbe protratta a lungo. Nel 1939 il tema era nuovamente affrontato e il progetto rilanciato. Solo nel 1940 il Comune riuscì però a sottoscrivere una convenzione con l'amministrazione ferroviaria, ma la guerra bloccò sul nascere i primi interventi costruttivi. Vennero solo gettate le fondazioni delle pile e costruiti i primi due portali. Se ne sarebbe parlato solo dopo il conflitto mondale e l'attuazione si sarebbe conclusa nei primi anni Sessanta. Tuttavia la prospettiva del cavalcavia a sud della città, con le potenzialità che essa conteneva riguardo all'espansione urbana in quella zona, si imponeva come fondamentale nel ripensamento sugli sviluppi della città.
Il cavalcavia.
Particolare variante.
La nascita del nuovo ospedale e la galleria del Cidneo
A questo nuovo panorama si associava, in modo da un lato inscindibile e dall'altro quasi alternativo, il progetto, anche più realistico e imminente, di costruzione di un nuovo ospedale. La vicenda che portò a questo effetto aveva le sue radici in almeno un trentennio di crescente insoddisfazione per le ristrettezze, le disfunzioni e la collocazione del vecchio nosocomio, alloggiato, sia pure con progressivi aggiustamenti, in un convento cinquecentesco e in strutture coeve di origine ospedaliera. Almeno dal 1902 i progetti di un ampliamento prima e di uno spostamento poi si erano avvicendati. Nel 1906 il piano sembrava essere vicino all'attuazione e si erano già individuate delle aree su cui fare sorgere la nuova struttura, in S. Eustachio, oltre porta Milano o nella Piazza d'Armi, che, per tale impiego, venne richiesta alle Forze armate. In seguito le energie operative si affievolirono, ripiegando su adattamenti e ampliamenti della sede cittadina, ma ripresero vigore con la nuova amministrazione fascista della città. Fu nel 1929 che l'Amministratore commissariale dell'ospedale, Guido Amadoni, costituì un comitato per il nuovo ospedale. Trascurando, per esplicita volontà, le incertezze e inconcludenti vie di un concorso, l'amministratore affidò gli studi del nuovo ospedale al giovane ingegnere Angelo Bordoni, che in quegli anni dava prova di competenza nella progettazione di strutture sanitarie, grazie al disegno del tubercolosario di S. Antonio. Già nel 1929 era pronto un primo progetto, che intendeva utilizzare l'area dell'antico monastero, di proprietà dell'ospedale , in S. Eufemia. A questo seguì, nel 1931, una proposta di ricostruzione sull'area del vecchio ospedale, nel centro cittadino. Infine, scartata quest'ultima proposta, anche per i grossissimi problemi che avrebbe comportato il trasloco per molti mesi, se non per anni, delle strutture ospedaliere durante le fasi ricostruttive, venne individuato come ottimale un vasto appezzamento di terreno presso Mompiano, a monte della città, dove caratteristiche climatiche e disponibilità di vasti spazi avevano già favorito i primi insediamenti sanitari, come l'ospedale per gli infettivi e il tubercolosario S. Antonio. Alla fine però, una vasta area di centocinquantamila metri quadrati, di proprietà dell'ingegner Pietro Calzoni, ex podestà di Brescia, sembrava la più opportuna, ben servita da vie di comunicazione esistenti, facilmente allacciabile con altre strade da progettare e contemporaneamente libera da fabbricati ingombranti.
Nell'ottobre del 1933 il Comune, avendo avuto a conoscenza dell'avvenuto acquisto dell'area, chiedeva all'Amministrazione degli Spedali Civili di essere informato sulle intenzioni di quell'ente, al fine di potere tenere conto dell'importante opera nella elaborazione del piano regolatore, L'iniziativa degli Spedali Civili fu quindi del tutto autonoma e precedette qualunque pianificazione urbanistica della zona. La realtà economica e la dinamica funzionale scavalcavano quindi ogni velleità pianificatoria, come è peraltro nella realtà delle cose, indipendentemente dagli astratti paraventi che hanno caratterizzato la cultura urbanistica dominante del dopoguerra in Italia.
Nel dicembre del 1933 già erano iniziati vari lavori per la sistemazione dell'area su cui sarebbe sorto il nuovo ospedale, un enorme complesso per millecinquecento letti, mentre il comune predisponeva l'assetto delle strade di accesso, essendo inaccettabile che l'unica via di diretto collegamento con la città giacesse nella strozzatura di via Trento, nell'omonimo borgo. Già il 7 febbraio del 1934 l'ufficio tecnico municipale trasmetteva all'amministrazione ospedaliera un disegno per l'assetto stradale; due nuove vie erano fatte convergere verso l'ingresso al nuovo ospedale, che era previsto nell'area dell'attuale piazzale Francesco Roncalli.
La realizzazione dell'ospedale avrebbe rialzato l'interesse immobiliare della zona, che fino a quel momento era stata trascurata dall'urbanizzazione, anche perché giacente in una sorta di cono d'ombra della viabilità, bloccata dal colle Cidneo, che consentiva solo due linee di scorrimento verso sud, tangenti i lati est e ovest della piccola altura. Proprio questa zona isolata dal raccordo con la città suggerì la rievocazione di un vecchio progetto, già avanzato nella stesura del piano regolatore del 1921 e ripreso da alcuni partecipanti al concorso del 1927: la perforazione di una galleria sotto il Cidneo che collegasse direttamente il nuovo ospedale con il cuore della città, in prosecuzione di via Mazzini. L'idea parve ottima, sia all'Amministrazione degli Spedali Civili che al Comune, per la funzionalità del rapido collegamento con il nosocomio, di interesse generale e anche per altri fattori.
L'accordo fra Comune e Amministrazione degli Spedali Civili decollò nell'aprile del 1935 e nello stesso periodo venne pubblicata la prima planimetria dell'area settentrionale, con il posizionamento della galleria. Nell'aprile dell'anno successivo era già messa a punto la soluzione definitiva dell'opera con le nuove vie di accesso all'ospedale. Il tunnel, lungo quattrocentotrenta metri e largo quattordici, sarebbe sfociato a nord del colle in un piazzale dal quale si sarebbero irradiate cinque strade. Il progetto venne messo a punto nel 1938 e venne ultimato nel 1942. La galleria del Cidneo venne utilizzata durante la guerra come rifugio antiaereo.
Progetto per collegare l'ospedale alla città.
Sviluppo del progetto dell'ospedale.
Esecuzione del traforo del Cidneo
Un piano regolatore organico e moderno vanificato dall'evoluzione nazionale
Il nuovo piano regolatore di Brescia venne approvato il 22 marzo del 1941. Le prime elaborazioni tangibili, cartografiche e di illustrazione dei contenuti, vennero pubblicate sul quotidiano locale nel maggio del 1941 con articoli che sarebbero proseguiti sino al luglio del 1942. La relazione fu stesa con data 28 febbraio 1941, accompagnata da curatissime e gradevolissime tavole disegnate a pastello da Oscar Prati.
Il territorio interessato dal piano aveva per confini, da nord a sud, le vie Guglielmo Oberdan, Fura e Alessandro Lamarmora e da est ad ovest, il fiume Mella e l'inizio di viale Bornata. Il limite meridionale andava ben oltre quello del piano del 1922 e superava anche il confine del piano del 1929. Altra significativa estensione era prevista, oltre che alla zona del nuovo ospedale, anche a un'ampia fascia collinare che, dal nosocomio, correva sui Ronchi sino a includere i culmini dei colli di S. Croce e S. Gottardo, rimanendo in quota e giungendo a inglobare un'appendice orientale, con l'abitato di S. Eufemia.
Mentre il programma urbanistico bresciano superava le approvazioni municipali e riceveva i visti degli uffici statali periferici, la vicenda legislativa della prima e fondamentale legge urbanistica italiana volgeva verso la sua faticosa conclusione. Il ministro Giuseppe Gorla era stato direttore dell'importante istituto per le case popolari di Milano e apparteneva alla cerchia dei precursori e animatori lombardi del dibattito urbanistico nazionale. La scuola milanese giungeva così al suo esito più prestigioso e vi apportava la fermezza di un'elaborata convinzione. La concretezza della riforma si rifletté anche nell'atteggiamento dell'istituto nazionale di urbanistica, che nel 1941, istituì una commissione di studio sul tema legislativo, comprendente lo stesso Gorla, oltre ai migliori teorici di un'intera epoca: Gustavo Giovannoni, Virgilio Testa, Luigi Piccinato e Vincenzo Civico. Le conclusioni della commissione si posero come qualificanti della legge approvata nel 1942: obbligatorietà dei piani regolatori e loro estensione a tutto il territorio nazionale. Gorla, per elaborare il testo definitivo della legge, nominò un'autorevole commissione di oltre settanta giuristi ed esperti in urbanistica. La prima bozza della legge fu stesa nel febbraio del 1942. Dura fu subito l'opposizione dei vari ministeri, guidati da quello delle corporazioni, diretto da Renato Ricci e da Dino Grandi, ministro di Grazia e giustizia, fieramente contrario a ogni vincolo posto alla proprietà privata. A maggiore ragione risultava insopportabile la proposta di mitigare gli incrementi di valore fondiario derivanti dai piani regolatori, nonché la costituzione di "demani comunali", sui quali si era già sacrificato un certo dibattito. Renato Ricci sollevava invece obiezioni globali, ritenendo inaccettabile la funzione di guida generale che avrebbe assunto, a suo giudizio, l'imposizione urbanistica delle infrastrutture, determinanti sugli orientamenti di ogni attività economica, da quella immobiliare a quelle commerciali e industriali. Altrettanto improponibile era ritenuto, particolarmente in quella fase storica, l'impegno finanziario che la concreta attuazione del progetto avrebbe comportato per le casse statali. La somma delle obiezioni spinse Mussolini a chiedere il ritiro della proposta di legge, ma dopo un tesissimo attrito, molte concessioni ed interferenze dei Ministeri delle corporazioni e dell'interno e dopo un ultimo scontro con il rappresentante della proprietà fondiaria Thodoli di Sambuchi, la legge fondamentale dell'urbanistica italiana fu approvata nell'agosto del 1942.
La coincidenza con le elaborazioni urbanistiche bresciane fu fatale per il buon esito di queste ultime. Il piano regolatore, dopo l'approvazione comunale, del marzo del 1941, fu infatti inviato al ministero dei lavori pubblici, ma fu subito respinto, perché incoerente con i principi della legge urbanistica in corso di stesura. La guerra travolse infine ogni attualità delle prospettive di sviluppo. A conflitto terminato non restava che contare i morti e pesare le macerie dei pesanti bombardamenti effettuati in Brescia fra il febbraio del 1944 e l'aprile del 1945. La città fu inclusa fra quelle che dovevano dotarsi di piani di ricostruzione con decreto ministeriale del 22 marzo del 1946. Il piano redatto fu approvato per la sola porzione del centro storico, con il decreto n. 2160 del 18 novembre 1950, con validità e limiti di attuazione fissati al 1954. Contemporaneamente si riaffacciava l'esigenza del piano regolatore, che venne elaborato nel 1953 dall'architetto comunale Oscar Prati, che impersonava la continuità tecnica e culturale con gli anni del fascismo.
Un unico filo legava gli orientamenti urbanistici degli anni Venti a quelli degli anni Cinquanta. Mentre le formule della pianificazione venivano arrestate da una pressione culturale di nuovo stampo, la prassi edificatoria, nonché la logica della struttura espansiva e funzionale della città, si sarebbero continuate a sviluppare, per almeno vent'anni, nel solco impostato e nelle coordinate tracciate dalle analisi e dalle realizzazioni del ventennio fascista.
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