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La ricerca sulle cellule staminali




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La ricerca sulle cellule staminali


1. Meccanismi riparativi, innesti e trapianti


Come abbiamo già ricordato, le cellule staminali potranno essere impiegate nella cura di tutte quelle malattie che sono associate a una perdita di funzionalità degli organi causata dalla distruzione dei tessuti per morte delle cellule che li compongono. Illustrerò ora l'idea generale che ne sta alla base e che, in sostanza, cercherà di sfruttare i meccanismi rigenerativi che sono presenti, come detto, in alcuni sistemi e organi del nostro corpo.

Questi meccanismi, in realtà, non sono presenti in eguale misura in tutti gli organi e servono soprattutto a mantenere il tessuto in condizioni normali di funzionamento (come nel caso del sistema ematopoietico) o a riparare piccole lesioni, ma non sono in grado di far fronte a lesioni estese, connesse a malattie o a traumi. Per dirla in breve, una piccola ferita alla mano si rimargina rapidamente e naturalmente e non compromette la funzionalità della mano, ma una piccola ferita inferta al cuore da un infarto compromette in modo più o meno grave la funzionalità del cuore. Ma c'è di più: se la ferita alla mano è più estesa, ad esempio a causa di un'ustione grave, non si rimargina da sola ed è necessario ricorrere all'innesto di pelle. Questo è un settore nel quale la ricerca è già molto avanti, grazie alla struttura relativamente semplice della pelle. Nel caso del cuore o di altri organi interni come il rene o il fegato o il pancreas, solo raramente è possibile provvedere a rimpiazzare la parte danneggiata: spesso si deve ricorrere al trapianto dell'intero organo.

Ora, tutti sappiamo che negli ultimi cinquant'anni, dal primo tentativo riuscito di trapianto di rene (1954) fino al recentissimo trapianto di una mano, la tecnica dei trapianti d'organo ha conosciuto un notevolissimo sviluppo. È ben noto, tuttavia, che questa tecnologia salvavita soffre tuttora di due grandi difficoltà: l'insufficiente disponibilità di organi e il problema della compatibilità tra l'organo donato e il ricevente (istocompatibilità).

Nonostante tutte le campagne di sensibilizzazione alla donazione di organi e, in Italia, i recenti provvedimenti legislativi in materia, non ci sono abbastanza organi per tutti coloro che ne avrebbero bisogno. Le liste d'attesa sono ancora molto lunghe e non è detto che quando un paziente riesce ad avere accesso al trapianto i suoi problemi medici siano terminati.

Il corpo umano possiede, infatti, un efficace meccanismo di difesa contro gli assalti esterni: il sistema immunitario, che protegge l'organismo da tutti quegli agenti infettivi e potenzialmente pericolosi come i batteri e i virus che penetrano nel nostro corpo. L'azione dei vaccini si basa appunto su questo meccanismo: viene somministrata una forma indebolita dell' agente dal sistema immunitario svolge anche un' azione di contrasto nel caso del cancro, che oggi è oggetto di importanti ricerche dirette a trovare il modo di rafforzare, per via di ingegneria genetica, quest'azione. Nel caso dei trapianti o degli innesti, bisogna invece fare il contrario, e cioè diminuire la capacità di risposta immunitaria in modo che l'organo trapiantato o i tessuti innestati non vengano riconosciuti come estranei e quindi rigettati. Oggi siamo in grado di controllare questo fenomeno grazie a farmaci chiamati immunosoppressori: come il loro stesso nome dice, questi farmaci spuntano le armi del sistema immunitario e quindi impediscono che l'organismo rigetti l'organo o il tessuto trapiantato. Spesso questi farmaci devono essere assunti per tutta la vita e ciò non è senza conseguenze: in primo luogo, l'organismo resta senza difese e aumenta il rischio di malattie infettive, anche gravi; in secondo luogo, aumenta anche il rischio di tumori, proprio perché l'organismo viene privato di un presidio contro la proliferazione tumorale.        .

La grande speranza suscitata dalla ricerca sulle cellule staminali è appunto di riuscire a sopperire alle due difficoltà che tuttora gravano sul settore dei trapianti d'organo e dell'innesto di tessuti. Vedremo ora come è nata questa speranza e quali sono i problemi che la sua traduzione nella pratica clinica comporta.



2. Cellule staminali embrionali e letali


Nel 1981 due scienziati statunitensi riuscirono a isolare dalla massa cellulare interna (blastocisti) di un embrio­ne di topo alcune cellule staminali inducendole poi a proliferare in vitro senza però differenziare. La proliferazione è andata avanti per anni e queste linee cellulari sono state dapprima usate soprattutto per produrre topi «transgenici» al fine di studiare le malattie umane. In seguito si è cominciato anche a sperimentare la possibilità di effettuare innesti di cellule staminali embrionali in topi adulti nei quali, ad esempio, veniva prodotta una lesione cardiaca e i buoni risultati ottenuti hanno evidenziato l'enorme potenziale terapeutico di questa tecnologia, una volta applicata in campo umano.

Bisognava però riuscire ad isolare cellule staminali dall'embrione umano e questo, dopo ripetuti esperimenti sugli animali, è accaduto nel novembre 1998, quando un'équipe guidata da James Thomson ha ottenuto questo risultato utilizzando embrioni formati nel corso di procedure di fecondazione in vitro per scopi riproduttivi e non più destinati all'impianto in utero. La ricerca è stata eseguita nell'Università del Wisconsin, in laboratori e con personale interamente messi a disposizione dalla Geron Corporation, una piccola ditta biotecnologica di Menlo Park (California), fino a quel momento nota soprattutto per le sue ricerche sull'invecchiamento umano. Nello stesso periodo, un secondo gruppo, guidato da John Gearhardt e sempre finanziato dalla Geron, è riuscito a isolare cellule staminali dai tessuti gonadali primordiali di feti precocemente abortiti (quattro settimane circa). Le proprietà di queste ultime cellule (chiamate cellule staminali germinali) sembrano analoghe a quelle delle cellule embrionali e quindi da questo momento in avanti non faremo più distinzione tra questi due tipi.

Ciò che rende queste linee cellulari così interessanti è il fatto che cellule staminali embrionali capaci di proliferare indefinitamente senza, al tempo stesso, differenziare non esistono in natura. Nel processo naturale non c'è proliferazione senza differenziazione, mentre la grande novità è ora che le cellule staminali possono pro­liferare senza differenziare e possono essere mantenute in questo stato indifferenziato per moltissimo tempo senza mostrare alcun segnale di degenerazione. L'ana­logo esperimento compiuto sui topi nel 1981 ha pro­dotto linee cellulari che si sono moltiplicate per circa dieci anni e sono state usate in una grande varietà di esperimenti. Quelle di Thomson, al momento in cui fu dato l'annuncio, erano arrivate a circa sei mesi e i dati mostrano che questa capacità proliferativa è indefinita: nella letteratura scientifica vengono per questo definite «immortali» e qualche studioso ha sostenuto che le cin­que linee cellulari ottenute da Thomson potrebbero di­ventare un serbatoio pressoché inesauribile di nuove li­nee cellulari per qualunque utilizzazione. Una volta stabilita questa straordinaria proprietà, la ricerca si è indirizzata a scoprire il modo in cui le cellu­le potevano essere indotte a differenziare nel modo de­siderato. Si può certo supporre che queste cellule, in quanto derivate dall'embrioblasto, abbiano la capacità di generare cellule di tutti i tessuti, perché questo è ciò che accade in natura; ma, come abbiamo più volte sot­tolineato, nella ricerca scientifica bisogna anche dimo­strare la correttezza delle supposizioni. In effetti, quan­do a queste cellule si permette di proliferare e di diffe­renziare, si formano spontaneamente degli ammassi cel­lulari (chiamati sfere o corpi embrioidi) che contengo­no alla rinfusa cellule di tutti e tre i foglietti germinati­vi. È chiaro che per gli scopi terapeutici questo non è sufficiente. Infatti, è essenziale non solo avere materia prima in abbondanza, ma anche materia prima selezio­nata: sicuramente nessuno vorrebbe ritrovarsi nel fega­to cellule che producono anche ossa o denti!

La fase della ricerca diretta a controllare il potenzia­le delle cellule staminali embrionali si è subito prospet­tata molto lunga e costosa e, al fine di velocizzarla e ri­sparmiare sui costi, l'università presso la quale ha lavo­rato Thomson ha creato una società che cura la distri­buzione, anche gratuita, delle linee cellulari ad altri ri­cercatori, a patto che si impegnino a non sfruttarle com­mercialmente o per scopi vietati. I primi risultati di que­sta fase della ricerca di base sono stati incoraggianti: ad esempio, un' équipe operante presso alcune università dello Stato di Israele ha sperimentato otto fattori di cre­scita su cellule staminali embrionali, con un procedi­mento che ha imitato quello di gastrulazione, ottenen­do cellule differenziate di undici diversi tessuti appar­tenenti a tutti e tre i foglietti germinativi. Questi primi risultati (nel frattempo, linee di cellule embrionali sono state ottenute in altri laboratori sparsi in tutto il mon­do) hanno consentito di mettere in piedi ricerche più mirate, dirette a produrre cellule di grande interesse te­rapeutico. Il panorama delle ricerche in corso è vasto e tocca pressoché tutti i tipi di cellule suscettibili di ap­plicazione clinica: si va da alcuni tipi di cellule neurali (in particolare i motoneuroni, e cioè i neuroni coinvol­ti nel controllo dei movimenti dei muscoli), ai cardio­miociti (le cellule che compongono il tessuto del cuore) e infine alle cellule beta producenti insulina: un risulta­to, quest'ultimo, che finora si è riusciti a ottenere solo con cellule staminali embrionali. Va intanto ricordato che, oltre che per la produzione di linee cellulari per la medicina rigenerativa, si prospetta la possibilità di utilizzare le cellule staminali embrionali ancora indifferenziate in applicazioni che potrebbero avere vaste ricadute cliniche. In immunologia, ad esempio, gli scienziati sono da tempo impegnati nella ricerca di strategie alternative ai farmaci immunosoppressori per evitare il fenomeno del rigetto. Una di queste strategie consiste nel creare una condizione chiamata «chimerismo ematopoietico misto». In breve, il paziente candidato a un trapianto d'organo viene sottoposto a una preventiva mieloablazione (distruzione parziale o totale del midollo osseo), seguita dal trapianto del midollo osseo proveniente dal donatore dell' organo da trapiantare. Se la procedura funziona, il paziente sviluppa un sistema immunitario definito «chimerico»perché contiene cellule immunitarie del paziente e del donatore, con la possibilità quindi che l'organo trapiantato non venga identificato come estraneo e rigettato. Si tratta di una procedura di incerta efficacia, molto rischiosa e, comunque, applicabile solo in casi rarissimi (ad esempio, nel corso di trapianti di rene da viventi) in quanto condizionata dalla necessità di avere un donatore vivente che fornisca sia l'organo sia il midollo osseo. Di recente, in uno studio sui topi è stato mostrano che le cellule staminali embrionali inducono una tolleranza a lungo termine nel recipiente, senza il rischio comportato (come accade quando nello stesso esperimento vengono usate cellule staminali ematopoietiche) dalla preventiva mieloablazione dell'ospite. Non è ancora chiarito il meccanismo grazie al quale le cellule staminali embrionali sfuggono alla reazione immunitaria; ma, se i dati saranno confermati, si aprirebbero interessanti possibilità applicative nel settore dei trapianti. Si può, infatti, ipotizzare di ottenere dalla stessa linea di cellule embrionali sia le cellule ematopoietiche necessarie a creare la tolleranza sia i tessuti da trapiantare.

È importante, comunque, sottolineare che tutto quel che ho riportato in questo paragrafo è ancora nella fase della ricerca di base e molti altri esperimenti dovranno essere effettuati prima di poter giungere all'utilizzazione terapeutica: abbiamo, per così dire, la materia prima in quantità pressoché inesauribile, ma dobbiamo imparare a indirizzarla in modo tale da poter prevedere con sufficiente certezza i risultati che intendiamo ottenere in ambito terapeutico e, soprattutto, a controllare la sua potenzialità di indefinita proliferazione. Questa è la proprietà più interessante delle cellule embrionali, ma, al tempo stesso, è fonte di preoccupazione perché, secondo i dati emersi in alcune ricerche, può portare alla formazione di tumori (chiamati teratomi). Questo fenomeno è stato osservato nelle cellule embrionali lasciate differenziare spontaneamente, mentre si riduce, fino a sparire, nelle progenie cellulari ottenute con processi di differenziazione guidata. È chiaro quindi che, prima di pensare all' applicazione clinica, occorrerà approfondire la conoscenza dei meccanismi regolatori della proliferazione al fine di eliminare il rischio tumorale. In ogni caso, il passaggio all' applicazione clinica su esseri umani dovrà essere preceduto da una nutrita serie di esperimenti funzionali su modelli animali delle malattie umane per individuare e padroneggiare i meccanismi grazie ai quali queste cellule si integrano nei tessuti di destinazione.

Un ultimo punto da segnalare è che le linee cellulari embrionali finora utilizzate nelle ricerche sono state ottenute con un metodo che ha comportato l'utilizzazione, come «brodo di coltura», di cellule di topo. Questo le rende non adatte all' applicazione terapeutica su esseri umani, poiché non si può escludere la possibilità della trasmissione di agenti infettivi innocui per l'animale ma letali per l'uomo. È lo stesso problema che ha fortemente ostacolato l'uso di animali transgenici (soprattutto maiali) come fonte di organi per trapianti. Nel nostro caso, per fortuna, di recente è stato messo a punto un metodo che evita la commistione con cellule animali e nuove linee cellulari immuni da contaminazione sono state già ottenute in alcuni laboratori negli Stati Uniti.


3. La ricerca sulle cellule staminali adulte


Anche la ricerca sulle cellule staminali adulte ha riservato, soprattutto negli ultimi anni, notevoli sorprese, che permettono di guardare con qualche ottimismo alle future applicazioni terapeutiche. La prima sorpresa è stata quella di rinvenire cellule staminali in tessuti nei quali non si pensava potessero esistere: sono quei tessuti che vengono definiti «a popolazione cellulare stabile» e dove quindi si riteneva che non esistessero meccanismi rigenerativi che hanno appunto bisogno di cellule staminali. L'esempio più noto è il cervello. Secondo un' opinione consolidata, il cervello adulto non possiede la capacità di rimpiazzare le cellule che si perdono per i normali processi fisiologici di invecchiamento, né, ovviamente, di sopperire alla progressiva distruzione del tessuto nervoso provocata dalle malattie.

Tuttavia, gli scienziati si sono chiesti se questo dipende da un'intrinseca incapacità delle cellule neurali oppure da altri fattori di tipo ambientale: nel secondo caso, infatti, si potrebbe pensare di intervenire su questi fattori. Già nei primi decenni del XX secolo Santiago Ramon y Cajal, uno scienziato spagnolo premio Nobel per la medicina nel 1906, aveva mostrato che i neuroni possono ricrescere se posti nell' ambiente adatto. Quelle ricerche sono state replicate negli anni Ottanta, grazie ai nuovi metodi messi a disposizione dai grandi progressi realizzati dalla ricerca neurobiologica a partire dal secondo dopoguerra. Un ruolo di grande rilievo in questi progressi va riconosciuto a Rita Levi-Montalcini, premio Nobel nel 1986 per i suoi studi sul NGF, il fattore di crescita dei nervi che è alla base dei fattori di crescita delle cellule neurali tuttora usati nelle sperimentazioni in vitro.

Nel marzo 2000 un gruppo di ricerca statunitense è riuscito infine a individuare cellule simili a quelle staminali (si chiamano progenitrici) in una regione del cervello adulto chiamata ippocampo. Questi ricercatori hanno potuto prelevare una limitata quantità di tessuto da un cervello umano adulto nel corso di un'operazione chirurgica per trattare una gravissima forma di epilessia. Poi hanno purificato il tessuto e, in vitro, hanno potuto accertare che le cellule neurali, trattate con gli opportuni fattori di crescita, si riproducevano. Naturalmente, è appena il caso di dire che questo procedimento non ha un gran valore come trattamento clinico: non possiamo aprire il cervello dei malati per estrarne tessuti! Ma una volta che abbiamo individuato i giusti fattori di crescita e differenziazione, possiamo però ottenere cellule neurali dalle cellule staminali embrionali, dato che sappiamo che possono diventare qualunque tessuto; e possiamo anche «convincere» cellule staminali adulte, provenienti da altri tessuti, a diventare cellule neurali. Cosa intendiamo dire con «convincere»?

Questa è stata la seconda importante sorpresa generata dalle ricerche più recenti, che ha prodotto lo sconvolgimento di uno dei «dogmi» (ma nella scienza non si dovrebbe mai usare questo termine!) della biologia dello sviluppo. Finora si pensava, infatti, che una volta generatisi i tre foglietti germinativi (endoderma, mesoderma e ectoderma), le cellule appartenenti a un foglietto potessero dare origine solo ed esclusivamente a tessuti dello stesso foglietto, fino a specializzarsi in un solo tipo di tessuto. Una volta intrapreso un certo cammino di differenziazione, questo cammino, almeno da un certo stadio di sviluppo in poi, è irreversibile e immodificabile. Questo non vale più: anche se già all'inizio degli anni Ottanta uno scienziato australiano aveva pubblicato un lavoro in cui sosteneva questa tesi, sono state le ricerche degli ultimi quattro o cinque anni a mostrare definitivamente che alcuni tipi di cellule staminali adulte sono capaci non solo di dar luogo al tipo cellulare del tessuto di residenza, ma anche a tessuti di altri organi derivanti dallo stesso foglietto germinativo (capacità differenziativa intergerminale) e addirittura a tessuti di organi di altri foglietti germinativi (capacità differenziativa transgerminale). Le ricerche proseguono a ritmi incalzanti e trova sempre più conferma la tesi che il sistema di cellule staminali o progenitrici all' opera durante l'embriogenesi conserva, almeno in parte, la propria plasticità e versatilità lungo il corso dell'intera vita dell' organismo. Tra le numerosissime ricerche in corso, mi limito qui a un solo esempio.

Nel gennaio del 2002 alcune riviste scientifiche hanno annunciato i risultati di una ricerca (pubblicata, per ragioni di procedure brevettuali, solo a giugno) portata a termine da un gruppo guidato da una scienziata di origine belga operante presso lo Stem Cell lnstitute dell'Università del Minnesota. La scienziata si chiama Catherine Verfaillie e l'entusiasmo generato dalla sua ricerca (si è persino titolato: «Scoperta la cellula stami­nale ultima») è facilmente spiegabile: questa scienziata è riuscita a isolare nel midollo osseo una rara cellula sta­minale di origine mesenchimale (chiamata MAPC: mul­tipotent adult progenitor cell) e, per mezzo di una serie di esperimenti in vitro e in vivo (tra cui quello cruciale dell'inserimento di una singola MAPC in un embrione di topo), è riuscita a dimostrare che questa cellula è capace di colonizzare tessuti di vari organi del corpo: mi­dollo osseo, sangue, intestino, milza, fegato, polmoni (ma non cervello). Per quanto ancora bisognosa di ul­teriori conferme e sviluppi, si tratta indubbiamente di una ricerca di enorme interesse, sia sul piano scientifi­co, sia sul piano delle future applicazioni terapeutiche. Le cellule staminali del midollo osseo sono facilmente reperibili e, se ne venisse confermata la plasticità (come altre ricerche stanno tentando di fare), le loro applica­zioni terapeutiche sarebbero di enorme rilevanza. Non c'è però accordo tra gli scienziati sui tempi del passag­gio alla sperimentazione clinica sui pazienti: mentre al­cuni, anche in Italia, hanno già cominciato a mettere in atto protocolli di sperimentazione con cellule staminali del midollo osseo, altri scienziati, invece, sono più pru­denti, perché ritengono che le evidenze sperimentali fi­nora acquisite non siano sufficienti per passare alla cli­nica con ragionevoli speranze di successo. Sono state messe a punto regole molto dettagliate e severe per la ricerca biomedica sugli esseri umani e oggi possediamo le tecnologie per studiare e ridurre al minimo possibile i rischi comportati da ogni sperimentazione, che deve iniziare solo quando i dati preclinici (ottenuti con esperimenti in vitro e su modelli animali) sono giudicati sufficientemente univoci dalla comunità scientifica.

C'è, in effetti, da sottolineare che, man mano che le ricerche proseguono, il quadro dei risultati presenta dati contraddittori, che hanno un po' raffreddato l'entusiasmo e hanno indotto le grandi riviste scientifiche ad invitare gli scienziati a una grande cautela in relazione all'uso clinico di alcuni tipi di cellule staminali adulte (ad esempio, quelle mesenchimali). Vediamo in sintesi alcuni dati. C'è, in primo luogo, da notare che non è stato possibile replicare alcuni dei più noti esperimenti di plasticità e la riproducibilità è - come s'è accennato - il centro del metodo sperimentale: ad esempio, in alcuni esperimenti è stata realizzata la transdifferenziazione delle cellule staminali del midollo osseo in cellule di tipo neurale, mentre in altre non è stato possibile ottenere questo risultato. Non è chiaro da cosa dipenda il fallimento di questi esperimenti di conferma; è chiaro però che la contraddittorietà dei dati richiede ulteriori ricerche, anche per accertare se la «plasticità» è una proprietà intrinseca delle cellule o è indotta dalle manipolazioni a cui vengono sottoposte in vitro. E, di recente, qualche scienziato ha messo in dubbio la nozione stessa di plasticità, anche in relazione alle cellule staminali del midollo osseo, le più interessanti dal punto di vista clinico.

In secondo luogo, i meccanismi molecolari della transdifferenziazione sono ancora in larga parte sconosciuti e quindi non padroneggiabili, soprattutto in vista dell' applicazione clinica: anzi, due ricerche hanno mostrato che, almeno in alcuni casi, avviene non una transdifferenziazione, ma una fusione cellula re e non è chiaro se cellule risultanti da fusione siano utili e sicure in sede di applicazione clinica. Inoltre, c'è ancora molto lavoro da fare in termini di caratterizzazione delle popolazioni cellulari staminali, per stabilire esattamente quale tipo di cellula ha transdifferenziato (ad esempio, nel midollo osseo esistono almeno quattro popolazioni cellulari), con quale grado di purezza e in quale percentuale. Quando uno scienziato pubblica uno studio in cui dimostra l'avvenuta transdifferenziazione del 10 per cento di una data popolazione cellulare, si può certamente parlare di successo in termini scientifici, ma il dato ha scarso significato per applicazioni terapeutiche. Nei tessuti adulti, in effetti, le cellule staminali si trovano in quantità molto limitate, sono difficili da isolare e le procedure di laboratorio per farle proliferare in vitro sono ancora inefficienti nel generare cellule nella quantità necessaria per gli scopi terapeutici. Infine, non è sufficiente, sempre ai fini applicativi, che le cellule transdifferenziate esibiscano in vitro i marcatori genetici e talora persino la forma delle cellule dei tessuti di destinazione: occorre anche dimostrare, dapprima con esperimenti su modelli animali, che le cellule si integrano anatomicamente e funzionalmente nel tessuto di destinazione, cioè vi espletino la funzione desiderata. Gli studi funzionali, in questo settore come anche nel settore delle cellule staminali embrionali, sono ancora insufficienti, soprattutto in relazione alla valutazione della funzionalità nel tempo (idealmente, per l'intera vita del ricevente), e presentano differenti difficoltà: mentre, ad esempio, nel caso del diabete è sufficiente ammassare la giusta quantità di cellule beta, persino in un organo diverso dal pancreas (il fegato, ad esempio), nel caso del cervello o del cuore l'integrazione e la funzionalità sono molto più complicate da ottenere.

C'è poi un ultimo problema che va segnalato: se - come tutti dobbiamo augurarci - le ricerche sulle cellule staminali adulte risolveranno i problemi tecnici sopra rilevati, non è detto che saranno in grado di soddisfare tutti i bisogni terapeutici. È vero che, qualora vengano prelevate dallo stesso paziente che le riceverà, presentano il vantaggio della compatibilità (cellule autologhe), ma hanno anche un grosso limite. Noi sappiamo che molte delle malattie che intendiamo curare con la terapia cellulare hanno una più o meno pronunciata componente genetica, che talora (nel caso delle malattie monogeniche) è la causa diretta della malattia, ma che in ogni caso contribuisce al suo sviluppo. Per esempio, è noto che una delle caratteristiche del morbo di Parkinson è l'aggregarsi nei neuroni morenti di una proteina chiamata Alfa-sinucleina, codificata da un gene di cui si conoscono due mutazioni che accelerano il processo di aggregazione. Gli individui che hanno queste mutazioni sviluppano il Parkinson in età più giovane e più rapidamente degli altri. Questo limita notevolmente il futuro uso delle cellule staminali autologhe in medicina rigenerativa, secondo alcuni solo alle condizioni derivanti da traumi o nel caso di malattie a scarsa componente genetica. Infatti - si sono chiesti due scienziati, Evan Snyder e Angelo Vescovi, in un articolo intitolato Possibilità/perplessità circa le cellule staminali, apparso su «Nature Biotechnology» nell'agosto 2000 -, che senso avrebbe reimpiantare cellule che contengono lo stesso difetto genetico che predispone o addirittura causa direttamente o accelera la malattia che vogliamo curare?


4. Speranze e limiti attuali dell'uso terapeutico delle cellule staminali


Abbiamo finora esposto lo stato delle ricerche sulle cellule staminali embrionali e adulte sotto 1'aspetto dei dati scientifici disponibili, indicandone i rispettivi vantaggi e svantaggi in relazione alla soluzione delle difficoltà nel campo dei trapianti d'organo. Dobbiamo ora introdurre un ulteriore elemento di valutazione, che è oggetto della «ricerca traslazionale», un tipo di ricerca che indaga le strategie migliori per trasferire le nuove conoscenze acquisite dalla ricerca biomedica nella pratica clinica, cioè a vantaggio del maggior numero possibile di pazienti e a costi sostenibili.

Le normative internazionali in materia di trattamenti terapeutici prevedono che ogni nuovo trattamento, dopo aver superato varie fasi sperimentali in vitro e poi su modelli animali, deve essere applicato in studi-pilota su un ristretto numero di pazienti. Lo scopo è quello di poter scrivere, per dir così, il foglio di istruzioni che poi consentirà ad ogni medico, su scala più larga, di poter usare questo trattamento per i propri pazienti in forma sufficientemente standardizzata e con risultati terapeutici statisticamente certi e prevedibili. Ora, i trattamenti di cui qui parliamo sono ad alta tecnologia e ad alti costi e quindi è prevedibile che in una prima fase saranno disponibili solo per pochi fortunati e solo nei centri ad alta specializzazione. Ma lo scopo finale dovrà essere quello di passare anche in questo caso alla fase dell' applicazione clinica quanto più possibile generalizzata: non stiamo parlando di malattie rare, stiamo parlando di malattie che colpiscono milioni di persone. Questo pone dei vincoli al tipo di tecnologia utilizzabile: dovrà essere, infatti, sufficientemente standardizzata, perché non possiamo aspettarci che in ogni ospedale sia disponibile un' équipe di ricerca in grado di effettuare in loco tutto il complesso lavoro di preparazione delle cellule staminali occorrenti per ogni singolo paziente. Sarebbe come se un medico che dovesse somministrare a un paziente una terapia farmacologica dovesse aspettare che la farmacia dell' ospedale prepari in loco i medicinali occorrenti.

Una simile procedura personalizzata può essere ipotizzabile nella prima fase di applicazione, a vantaggio di pochi pazienti e, comunque, limitatamente al caso delle malattie croniche, nelle quali il tempo necessario per la preparazione dei trattamenti non costituisce un problema. È però assai difficile pensare che un trattamento personalizzato di questo genere possa essere generalizzato a tutti i pazienti e per tutte le patologie: i costi sarebbero proibitivi per qualunque sistema sanitario (o accessibili solo ai pazienti ricchi).

Secondo un Rapporto pubblicato alla fine del 2003 negli Stati Uniti da un gruppo di scienziati della Johns Hopkins University, sotto questo aspetto sembra che le cellule staminali embrionali siano più promettenti ai fini dell'impiego terapeutico estensivo, e non solo grazie al fatto che possono essere disponibili in quantità illimitate, ma soprattutto grazie al fatto che si prestano meglio, almeno in prospettiva, ad un uso standardizzato quale dovrebbe essere quello clinico-terapeutico.

Resta però da risolvere il problema della compatibilità. Naturalmente, se l'alternativa è la perdita della vita, vale sempre la pena di affrontare, come avviene nel caso dei trapianti, le conseguenze dell' assunzione dei farmaci immunosoppressori. Ma nella letteratura scientifica vengono proposte alcune strategie alternative ed innovative per evitare il problema del rigetto. La prima intenderebbe sfruttare la circostanza che le cellule staminali embrionali tollerano meglio di qualunque altra cellula le operazioni di ingegneria genetica. Si pensa quindi che potrebbe essere possibile intervenire per modificare le molecole responsabili della istocompatibilità, creando così una sorta di linea cellulare universale. È la strategia usata nel caso dei «maiali transgenici» come fonte di organi, ma le difficoltà tecniche da superare sono enormi e la fattibilità resta ancora tutta da dimostrare. Più promettente e fattibile è una seconda strategia, quella di creare «banche di cellule staminali embrionali» comprendenti una significativa percentuale dei tipi di istocompatibilità esistenti, cosicché si possa scegliere la linea cellulare più adatta al sistema immunitario del ricevente. L'idea è stata lanciata in Gran Bretagna da una commissione della Camera dei Lord, è stata ufficializzata nel settembre 2002 ed è diventata operativa nel corso del 2003. Questa è anche la strategia raccomandata dagli scienziati della Johns Hopkins University, che ne hanno fatto oggetto di un accurato studio mirante ad identificare i requisiti che una banca di tal genere deve possedere per assicurare l'equità nell'accesso a questi trattamenti, anche dal punto di vista delle differenze etniche.

Infine, è stata prospettata un'ultima possibilità, che richiede un discorso più articolato: si tratterebbe, infatti, di derivare cellule staminali da embrioni formati non con l'usuale tecnica della fecondazione in vitro di un uovo da parte di uno spermatozoo, ma con la tecnica del trasferimento del nucleo di una cellula adulta in un uovo privato del suo nucleo. Per intenderci, è la tecnica di base della clonazione, grazie alla quale un gruppo di ricerca guidato da Jan Wilmut presso il Roslin Institute di Edimburgo ha fatto nascere nel 19971'ormai fa¬mosa pecora Dolly. Si è trattato di un avvenimento cui i giornali hanno dato ampio risalto e che ha suscitato, e tuttora suscita, forti polemiche. Per chiarire come mai alcuni scienziati hanno preso in considerazione questa così controversa tecnica in relazione alle cellule staminali, bisogna quindi spiegare, prima di tutto, che cosa è la clonazione.


Possibili applicazioni di prodotti per terapia cellulare e genica


Negli ultimi anni lo sviluppo delle tecnologie ha portato ad un fiorire di sperimentazioni cliniche che hanno come oggetto preparazioni di cellule normali o geneticamente modificate. Una breve, e lontana dall'essere completa, panoramica può aiutare a comprendere la vastità delle applicazioni che questi nuovi medicinali possono raggiungere.


Riparazione di danni del sistema nervoso

Recentemente è stato riconosciuto anche al sistema nervoso la capacità di ripararsi e proliferare in età adulta. Questo ha aperto la possibilità di avere terapie alternative a quelle chimiche per il recupero delle funzioni sia del sistema nervoso centrale che periferico. L'uso delle cellule endoteliali o di cellule staminali in grado di secernere NGF o altri fattori di crescita dopo la terapia genica per indurre la proliferazione neuronale è una delle tante possibili alternative. Il trapianto di cellule di origine fetale o amplificate in vitro ha dato risultati incoraggianti per fermare se non riparare i danni in malattie degenerative come il Parkinson.

I traumi alla spina dorsale ed al midollo spinale spesso comportano la perdita sia dei segnali dalla periferia che quelli dal cervello senza una prospettiva di recupero funzionale. Ulteriormente, la formazione di tessuto cicatriziale impedisce la riparazione del danno e la ricostruzione delle connessioni nervose. Il possibile trapianto nel punto del trauma di cellule staminali transfettate o meno con i geni di fattori di crescita neurotrofici potrebbero essere un approccio efficace.


Riparazione del miocardio dopo infarto

Dopo un infarto del miocardio, la zona in cui viene a mancare l'irrorazione sanguigna da parte dei capillari ostruiti va incontro ad un rapido processo degenerativo ed il miocardio viene sostituito da tessuto cicatriziale. Per evitare la formazione del tessuto cicatriziale è essenziale una rapida rivascolarizzazione del tessuto e la proliferazione dei precursori per la ricostruzione del miocardio. Per questo scopo sono necessari l'espressione di fattori angiogenici e proliferativi che potrebbero essere ottenuti sia da geni transfettati che dalla diretta inoculazione di cellule. Una delle terapie proposte consiste nell'inserzione di nuovo tessuto muscolare prodotto in vitro a partire dalle cellule staminali o cellule coltivate in vitro del paziente. In seguito ai risultati in un modello animale, sono in corso molti protocolli clinici che prevedono il trapianto di cellule derivate dal midollo osseo sia in toto che purificate come staminali emopoietiche e mesenchimali per indurre la riparazione del miocardio infartuato. Sebbene vi siano dei risultati incoraggianti in termini di sopravvivenza e recupero della funzionalità non vi sono ancora delle spiegazioni sul meccanismo di azione o su quali siano le cellule con maggiore efficacia terapeutica.


Riparazione di epitelio distrutto in seguito a trauma (ferite, bruciature)

La produzione di tessuti sostitutivi dell'autotrapianto di pelle ha permesso di trattare soggetti che l'estensione delle ferite o delle bruciature sarebbero deceduti. In particolare la disponibilità di tessuto epiteliale derivato dai frammenti di pelle scartati durante la circoncisione permette di avere sempre disponibile una "pelle artificiale" che viene sostituita successivamente con un tessuto autologo.




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