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L'enorme fama di cui ha goduto in vita non ha mai abbandonato Leonardo da Vinci, contribuendo ad offuscare una lucida comprensione dell'uomo e dell'artista. Egli viene ricordato da Vasari come un «intelletto tanto divino e maraviglioso», mettendo l'accento su quella componente speculativa che caratterizza le vicende del maestro fiorentino. Il suo repertorio è composto da un esiguo numero di dipinti, ma da una straordinaria quantità di appunti e disegni, inerenti a problemi di anatomia, botanica, arti militari, architettura, ingegneria, geometria, idraulica, e dove la pittura e la scultura sembrano quasi occupare un ruolo marginale.
La sua produzione consta di circa quattromila carte riunite in diversi codici o raccolte, sparsi nelle biblioteche di tutto il mondo. Il principio d'indagine, in queste carte, è tutto giocato a favore dell'immagine, che diventa più esplicativa della parola, contrariamente ai trattati dell'epoca, fatti di lunghe e complicate descrizioni. In qualche modo, un atteggiamento empirico in profonda sintonia con la nuova cultura scientifica che in Italia sarà successivamente impersonata da Galileo.
Nel Trattato della pittura, Leonardo sintetizza principi basilari sui quali fonda il proprio linguaggio figurativo.
I personaggi devono essere assolutamente eloquenti e perciò il pittore deve accentuare la realtà servendosi dei linguaggi non verbali, come quelli utilizzati dai muti. Per Leonardo, la base di ogni conoscenza è sempre la verifica diretta, empirica, compiuta con la propria esperienza. Il dato oggettivo, in quanto sottoposto alle variazioni atmosferiche, è sempre mutevole, da qui lo sfumato, nella definizione delle figure, e la prospettiva dei perdimenti, nella resa dei paesaggi.
Simili procedimenti indicano una concezione della rappresentazione come mimesis. Tanto più la pittura seguirà i principi, non scritti, della natura, tanto più sarà fedele al dato reale, ma tale tipo di rappresentazione pittorica implica un procedimento scientifico di verifica mentale.
Leonardo da Vinci: l'Ultima Cena
Occupa la parete settentrionale del refettorio rinascimentale di Santa Maria delle Grazie. La scena si presenta come un ideale proseguimento dello spazio dell'antica mensa dei domenicani: tre ampie aperture sul fondo immettono verso un paesaggio montuoso; lungo le pareti laterali si trovano quattro arazzi per lato fissati sotto un soffitto cassettonato, completamente ridipinto nel Settecento.
Approntata entro il 1498, la commissione risale al Duca di Milano, a cui si riferiscono gli stemmi sulle tre lunette nella parte superiore.
L'episodio coglie l'attimo in cui Cristo annuncia ai propri discepoli che uno di loro lo tradirà; le reazioni, sottolineate da un'ampia gamma di gesti, sono estremamente eloquenti. Alla destra del Redentore siede Giovanni, che, contrariamente all'iconografia più consueta, non poggia il capo sulla spalla o sul petto di Gesù, ma viene interpellato da Pietro che impugna un coltello, deciso a un gesto di sommaria giustizia. A completare il gruppo, si trova Giuda che, tenendo in mano la sacca dei denari, rovescia con il gomito un recipiente di sale (preannuncio di sventura) mentre ritira la mano sinistra dal piatto nel quale aveva attinto anche Cristo.
L'innovazione di questo dipinto leonardesco si riscontra nell'invenzione iconografica di allineare tutti gli apostoli dietro una grande tavolata, quando solitamente Giuda lo si poneva frontalmente rispetto a Cristo. Ma la straordinarietà di questa immagine deriva dall'estrema eloquenza delle figure, che, per Leonardo, doveva essere rapportata all'età e al sesso delle persone, senza compromettere il decoro della scena.
L'altra novità che caratterizza il Cenacolo è legata alla tecnica sperimentata da Leonardo che, utilizzando della tempera - velata probabilmente in alcuni punti con pittura ad olio - stesa su due strati di preparazione gessosa, gli avrebbe permesso di poter continuamente riprendere quello che era stato dipinto in un arco di tempo piuttosto consistente. Ma la tecnica impiegata da Leonardo crea problemi di conservazione già dopo un ventennio dal suo completamento. Da allora la storia della più celebre Ultima Cena del Rinascimento è una trafila di continui restauri, il più importante dei quali ha messo in luce le parti superstiti di pittura originale, completando le lacune con un sottile tratteggio ad acquarello.
I dodici apostoli, allineati dietro una grande tavolata, vengono radunati a nuclei di tre figure, ognuno dei quali ha una struttura vagamente piramidale, come Cristo. I gesti concentrano l'attenzione sulla figura del Redentore, verso il quale confluisce anche il punto di fuga dell'intera articolazione prospettica.
Le fonti luminose, dall'alto a sinistra e dal fondo, scandiscono le figure con un modellato sfumato; il paesaggio alle spalle dei protagonisti è reso con la prospettiva dei perdimenti per accrescere l'effetto della lontananza diminuendo la definizione dei particolari, contrastando con gli elementi in primo piano, definiti in ogni singolo dettaglio.
Fra le opere che sicuramente accompagnano l'artista nella trasferta oltrealpina si deve annoverare La Gioconda, probabilmente elaborata intorno al 1503-1506, ma condotta a termine in tempi molto lunghi. Questo dipinto si presenta come il compendio di quanto l'artista aveva teorizzato e prodotto fino ad allora. Una giovane donna viene ritratta sullo sfondo di un evanescente paesaggio montuoso, reso in lontananza attraverso dense masse nebbiose. Il suo volto ha un'espressione indefinibile, fra il lieto e il melanconico. Tale ambiguità è stata interpretata nei modi più diversi: si va dall'ipotesi psicoanalitica a quella dissacratoria, che hanno contribuito ad accrescere il valore enigmatico del soggetto e la sua notorietà.
Leonardo libera il ritratto dalla sua veste celebrativa e ufficiale, immergendo l'effigiato in una dimensione naturale.
Leonardo da Vinci: la Gioconda
La Gioconda è uno dei dipinti maggiormente mitizzati della storia dell'arte. Il dipinto, olio su tavola, è stato realizzato probabilmente o tra il 1503 - 1506 oppure tra il 1513 - 1515.
Due sono le probabili attribuzioni riferibili alla protagonista della rappresentazione:
la prima ipotesi afferma che la donna possa essere identificata in Isabella Gualandi, una gentildonna napoletana che era in relazione con Giuliano de'Medici;
la seconda ipotesi afferma che la protagonista possa essere identificata in Lisa Gherardini, moglie di Francesco del Giocondo.
La tavola mostra una giovane donna, presumibilmente tra i ventiquattro e i ventisei anni, forse in probabile stato interessante, in posa al di qua di un parapetto.
Alle sue spalle si colloca un paesaggio geologico, riguardante gli studi che lo stesso Leonardo stava affrontando in relazione alle ere geologiche, tanto che si ritiene che i due laghi sovrapposti alle spalle della protagonista possano rappresentare il fiume Arno prima degli sconvolgimenti geologici. L'aspetto particolarmente importante è che c'è una profonda integrazione tra la donna e il paesaggio: nessuno dei due prevale sull'altro ma insieme convivono in un perfetto equilibrio, in tal modo, sconvolgendo la concezione antropocentrica rinascimentale. Il tenue sorriso e lo sguardo, che sembra seguire lo spettatore comunque esso si sposti, derivano il loro fascino in gran parte dallo sfumato. Lo sfumato leonardesco è una tecnica che inventa ed utilizza l'artista per creare quella integrazione perfetta tra la donna e la natura, sfumando i contorni della stessa protagonista, allontanandosi così dai contorni chiari e definiti della linea fiorentina, così tanto utilizzata dagli artisti rinascimentali. Leonardo ha nascosto i lati della bocca e degli occhi della donna nell'ombra e ciò non permette di afferrarne i contorni precisi, impedendo che si abbia di lei un'immagine sicura e definita.
Il paesaggio roccioso ci presenta oltre ai due laghi sovrapposti anche una stradina tortuosa (simbolo del difficile raggiungimento delle virtù) e un ponticello con arcate a tutto sesto (simbolo del passaggio tra la vita e la morte).
Questi manufatti architettonici (il ponte e la stradina tortuosa), suggerendo il superamento degli ostacoli naturali, rendono visibile la fede del rinascimento nella possibilità dell'uomo di trasformare la natura.
L'elemento caratteristico più importante dello stile leonardesco rimane comunque lo sfumato, che consiste nel passaggio impercettibile dell'ombra alla luce e nella perdita graduale della precisione dei contorni che non sono più netti e continui.
Michelangelo Buonarroti: la Pietà
Nel 1498 il cardinale Jean Bilheres, volendo lasciare un ricordo di sé a Roma, incarica il giovane Michelangelo di scolpire un gruppo marmoreo rappresentante la Pietà. Nel 1499, un anno più tardi, l'opera era già conclusa.
Il tema della Pietà, allora molto diffuso nell'Europa centro-settentrionale, ma poco in Italia, consiste nel rappresentare la Vergine Maria che tiene tra le braccia il corpo, senza vita, del figlio deposto dalla croce. Tale composizione ebbe forse origine come riduzione della scena del compianto sul Cristo morto di cui esistono numerosi esempi medioevali sia scolpiti che dipinti.
La Vergine michelangiolesca è una fanciulla dal volto appena velato di tristezza che sorregge amorevolmente il corpo (ugualmente giovane) del figlio, invitando l'osservatore a provare per lui il suo stesso dolore. Molto probabilmente l'artista ha realizzato un volto così giovanile perché riteneva che il suo corpo, non essendo stato toccato dal peccato, mantenesse inalterata la sua purezza e la sua innocenza, così come accade per i giovani. L'ampio panneggio, fittamente drappeggiato è il mezzo di cui l'artista si serve affinché, per contrasto, il corpo nudo, liscio e perfetto del Cristo abbia maggior risalto. È in questo modo che Michelangelo propone di contemplare degli esseri giovani e senza imperfezioni attraverso i quali si riflette la bellezza di Dio.
Secondo Michelangelo (poetica scultorea michelangiolesca) il blocco di marmo informe contiene già, potenzialmente, ciò che poi lo scultore riuscirà a far emergere dalla materia inerte. È per questo che egli ritenne che la scultura debba essere realizzata con la tecnica del metodo sottrattivo, cioè per via di levare, quindi rompendo il masso compatto con lo scalpello battuto dal mazzuolo ed eliminando via, via le schegge, fino ad arrivare alla forma voluta. L'opera è l'unica autografa dell'artista in quanto Michelangelo ha collocato il proprio nome sull'iscrizione incisa sulla fascia che percorre diagonalmente il corpo della Vergine.
Michelangelo Buonarroti: il David
A colpire è proprio la risolutezza dell'eroe biblico, che sembra apprestarsi alla lotta con il gigantesco Golia, forte soltanto della sua abilità nel maneggiare la fionda. David tiene nella mano destra il sasso con il quale colpirà il gigante, mentre con l'altra mano prepara la fionda. Lo sguardo sembra scrutare il lontananza il nemico, senza alcun timore. L'atteggiamento della statua lascia presagire l'esito vittorioso dello scontro, senza rappresentare il momento finale dell'azione, come nell'iconografia più consueta per questo tipo di soggetto, che rappresenta David, trionfante, mentre appoggia il piede sulla testa di Golia, mozza dalla sua stessa spada.
Il David michelangiolesco spicca per la resa anatomica che mette in forte risalto le braccia, decisamente più lunghe rispetto alla norma, quasi a sottolineare la loro funzione determinante nell'azione, e la testa lievemente più grossa rispetto al resto, forse per concentrare maggiormente l'attenzione sullo sguardo, e dando comunque all'insieme un senso di sproporzione adolescenziale ben consona all'età del personaggio. La postura non è statica e allude ad un primo moto nel sollevamento del piede d'appoggio sinistro. Di lato la statua risulta notevolmente appiattita, visto che, probabilmente, l'iniziale destinazione doveva prevedere un'ubicazione all'interno di una nicchia.
La nudità rimanda ovviamente a paragoni con la statuaria classica, all'eroismo titanico di David, che conferisce al messaggio dell'opera un valore senza tempo, universale.
Michelangelo Buonarroti: la decorazione della Cappella Sistina
L'importante commissione di decorare la volta della Cappella Sistina viene accettata con riluttanza da Michelangelo, dopo essersi riconciliato con Giulio II, che vuole accantonare l'impresa della propria sepoltura e impiegare l'artista in questo grande affresco.
Dall'anno della commissione, 1508, al 1512, il Buonarroti lavora quasi ininterrottamente a questa colossale impresa, affrescando da solo una superficie muraria lunga trentasei metri e larga tredici.
Il progetto iniziale prevedeva che sopra questa immensa volta venissero dipinti i Dodici Apostoli entro una ricca cornice architettonica. L'idea è quasi subito abbandonata e il programma iconografico viene notevolmente ampliato.
La complicata struttura architettonica della Sistina viene affrescata dal Buonarroti approntando un ponteggio complementare alla concavità della volta. Su questa struttura l'artista si trovava costretto a dipingere anche da sdraiato, dopo aver trasferito dai cartoni la composizione delle singole scene.
Lo spazio viene organizzato fingendo una partitura architettonica illusionistica, scorciata dal basso, entro la quale sono collocati i sette Profeti e le cinque Sibille, i cosiddetti Veggenti, che danno un valore duplice agli eventi rappresentati: non solo storico, ma anche profetico.
Lungo il perimetro, nelle vele e nelle lunette parietali sono raffigurate le quaranta generazioni degli antenati di Cristo; nelle quattro vele angolari gli episodi miracolosi più importanti per la salvezza d'Israele.
La partitura centrale, entro riquadri di alterna misura, reca nove Storie della Genesi, partendo dal lato dell'entrata con l'Ebbrezza di Noè per arrivare alla zona dell'altare con la Divisione della luce dalle tenebre. L'inversione dell'ordine narrativo, che riflette il percorso che deve seguire lo spettatore leggendo gli episodi, è stato interpretato come un'ascesa dell'animo umano verso Dio.
Esistono diverse letture sul significato dell'intero ciclo, verosimilmente elaborato dall'artista con l'aiuto dei teologi del pontefice.
Nei riquadri più piccoli il singolo episodio tratto dalla Genesi è affiancato da Ignudi, che reggono medaglioni con storie bibliche. Queste figure mostrano una corporatura sapientemente modellata e rimandano da vicino agli esempi antichi noti a Michelangelo.
Il problema delle fonti classiche assume un'importanza di rilievo se si considera che la volta è tutta impostata, anche negli episodi a più figure, sull'individualità di ogni singolo personaggio. Le complicate torsioni muscolari, il titanismo drammatico di questi corpi idealizzati nella loro perfezione, finiscono per dare un significato spirituale universale a tutto il complesso, dove l'uomo è l'esempio più alto della creazione divina.
La lezione antica si combina con toni pittorici cangianti e modernissimi, messi in luce dal recente e dibattuto restauro. La pulitura della volta ha infatti rivelato chiaroscuri, soprattutto negli abiti, caratterizzati passaggi tonali fra tinte apparentemente dissonanti fra loro, secondo un procedimento detto appunto cangiantismo.
Raffaello Sanzio: la Trasfigurazione di Cristo
L'ultima opera del Sanzio è la Trasfigurazione di Cristo che, rimasta incompiuta in alcune parti marginali, viene affiancata, a detta del Vasari, al letto di morte dell'artista.
Nella scena, sono presenti due episodi evangelici: la Trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor nella parte superiore e in quella inferiore la Liberazione dell'ossesso. I due episodi si raccordano fra loro tramite i gesti degli apostoli, che, in una gamma di espressioni variegate, connettono la figura del Redentore all'episodio salvifico dell'ossesso.
In quest'ultima opera, Raffaello propone una nuova interpretazione della poetica leonardesca, esasperando la resa emotiva dei personaggi fino a creare una tensione drammatica, nella parte sottostante della composizione, che si può risolvere soltanto nel centro focale dell'azione, contemplando il Cristo che sale al cielo. È una sorta di concitato rimando gestuale orientato verso la parte superiore della tavola, composta secondo principi di ordine e simmetria. Il tutto studiato calibrando la singola gestualità del modello nudo, e rapportandola poi all'intera composizione, come testimoniano i diversi disegni superstiti.
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