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Teoria della relatività




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Teoria della relatività


La teoria della relatività fu formulata all'inizio del XX secolo a opera di Albert Einstein. Lo scopo originario era di risolvere alcuni aspetti anomali delle leggi fisiche nei sistemi in moto relativo, ma i diversi e vari sviluppi assunti nel seguito hanno condotto alla definizione principi completamente estranei alla fisica classica, come l'equivalenza tra massa ed energia, tra spazio e tempo, tra i concetti di gravitazione e accelerazione, tutti presupposti essenziali per lo sviluppo della fisica moderna.

Le leggi della fisica classica, accettate prima della nascita della teoria della relatività, erano fondate sui principi della meccanica enunciati nel XVII secolo da Isaac Newton. La meccanica newtoniana differisce dalla meccanica relativistica sia nei principi fondamentali sia nella forma matematica, ma giunge a risultati equivalenti se applicata allo studio di processi che coinvolgono velocità piccole rispetto a quella di propagazione della luce. Una descrizione corretta di sistemi in moto con alte velocità richiede invece l'uso della relatività.


La differenza tra la descrizione classica e quella relativistica del comportamento di qualunque oggetto in movimento sta in un fattore introdotto alla fine del XIX secolo da Hendrik Antoon Lorentz e da George Francis Fitzgerald. Questo fattore si rappresenta generalmente con la lettera greca a (beta) e dipende dalla velocità dell'oggetto (v) secondo l'equazione:

dove c è la velocità della luce. Per velocità ordinarie, il valore di beta si discosta dall'unità di quantità infinitesime: di conseguenza, le correzioni relativistiche sono di scarsa importanza per la maggior parte dei fenomeni che hanno luogo sulla Terra, ma diventano significative negli studi astronomici, che riguardano corpi con velocità molto elevate. Analogamente, l'approccio relativistico è dunque fondamentale quando entrano in gioco distanze o masse molto grandi.

Nell'ambito della fisica classica l'analisi dei sistemi inerziali, ossia in moto rettilineo uniforme uno rispetto all'altro, veniva condotta sulla base delle trasformazioni di Galileo, che fornivano le relazioni tra le coordinate e la velocità di un punto in ciascuno dei due sistemi. Come conseguenza di queste trasformazioni – lineari nelle velocità e nella variabile temporale – le leggi della meccanica newtoniana mostrano la medesima struttura in tutti i sistemi di riferimento inerziali: questa proprietà dei sistemi di riferimento inerziali va sotto il nome di principio di relatività galileiano.

Lo spunto alla ricerca di nuove trasformazioni di coordinate per il cambiamento di sistemi di riferimento venne dalla osservazione, maturatasi alla fine dell’Ottocento, che le equazioni di Maxwell, il nucleo dell'elettromagnetismo, non erano invarianti per trasformazioni di Galileo. Questa considerazione mise in dubbio la validità del principio di relatività galileiano e quindi l'equivalenza di tutti i sistemi di riferimento inerziali. Per risolvere l’inconsistenza, venne introdotto il concetto di etere, una sostanza ideale in cui si ipotizzava avvenisse la propagazione delle onde elettromagnetiche, e fu definita l’esistenza di un sistema di riferimento privilegiato, a riposo rispetto all'etere.

Per convalidare questa interpretazione si rendeva necessaria una prova sperimentale all’esistenza dell’etere. Con questo intento, nel 1887, i fisici Albert Michelson ed Edward Williams Morley misero a punto il celebre esperimento, oggi ricordato appunto come 'esperimento di Michelson e Morley', che aveva per obiettivo di mostrare l’evidenza del moto della Terra rispetto all'etere. Secondo l’interpretazione della luce come radiazione elettromagnetica, infatti, l’etere avrebbe dovuto permeare tutto lo spazio per consentire la propagazione della radiazione solare e dunque la Terra eseguiva i suoi moti di rivoluzione e rotazione immersa nell’etere.

L’esperimento si basava sulla considerazione che, se il Sole era fermo nello spazio, e dunque costituiva il sistema di riferimento privilegiato a riposo rispetto all’etere, la Terra avrebbe dovuto avere, a causa del suo moto di rivoluzione, una velocità costante di 29 km/s nell’etere; se viceversa il Sole e l'intero sistema solare erano in moto nello spazio, la variazione della direzione del moto orbitale della Terra avrebbe dovuto modificare la velocità apparente della Terra rispetto al Sole, con un contributo positivo in certe stagioni dell'anno e negativo in altre. Il risultato dell'esperimento di Michelson e Morley fu che la velocità della Terra rispetto all'etere era nulla in qualsiasi periodo dell'anno, confutando l’esistenza del mezzo cosmico ipotizzato.


Nella pratica, la realizzazione dell'esperimento consisteva nella rilevazione di una differenza di velocità di propagazione della luce fra due raggi raggi luminosi perpendicolari. Infatti, secondo la legge di composizione delle velocità, se un raggio di luce e un osservatore si muovono nello spazio nella stessa direzione, in particolare rispettivamente alle velocità di 300.000 km/s e 29 km/s, la luce dovrebbe superare l'osservatore con una velocità apparente data dalla differenza fra le due; viceversa, se l'osservatore si muove in direzione opposta, la velocità apparente della luce dovrebbe essere la somma delle due velocità (analogamente si può dire se il moto relativo dell'osservatore e del raggio di luce sono perpendicolari). L'esperimento di Michelson e Morley, pur utilizzando un sofisticato strumento di misura – un interferometro – sensibile a differenze di velocità piccolissime, non riuscì a misurare alcuna discrepanza fra le velocità dei due raggi di luce.

L'esperimento dimostrò così l'indipendenza della velocità della luce dalla direzione di propagazione e il risultato, interpretato come prova dell'inesistenza dell'etere, fu una conferma del principio di relatività galileiano ed escluse la possibilità di un sistema di riferimento privilegiato.

Nel 1904 Lorentz modificò le trasformazioni di Galileo per ottenere un insieme di equazioni, note oggi come trasformazioni di Lorentz, rispetto alle quali fossero invarianti le leggi dell'elettromagnetismo.

Questo esperimento fu ideato nel 1887 per misurare la velocità della Terra rispetto all’etere. Esso consisteva nel dividere, mediante uno specchio semiriflettente, un raggio luminoso in due raggi distinti a cui far compiere cammini uguali ma perpendicolari. Nell'ipotesi che la velocità di moto della Terra influenzasse la propagazione della luce, si sarebbe dovuto osservare una figura di interferenza nel rivelatore. L’esito negativo dell’esperimento aprì la strada alla formulazione della teoria della relatività di Einstein.

Nel 1905 Einstein pubblicò il primo di due importanti studi sulla teoria della relatività, in cui negava l'esistenza del moto assoluto. Egli sosteneva infatti che nessun oggetto dell'universo potesse rappresentare un sistema di riferimento assoluto e universale, fisso rispetto al resto dello spazio. Al contrario, qualsiasi corpo (ad esempio, il centro del sistema solare) poteva costituire un buon sistema di riferimento, per lo studio delle leggi che regolano il moto dei corpi.

Secondo Einstein, dunque, il movimento è un concetto relativo, che può essere descritto in qualsiasi sistema di riferimento inerziale, e tutti gli osservatori che descrivono i fenomeni fisici in tali sistemi di riferimento pervengono alle medesime leggi di natura. È questa l'ipotesi fondamentale, nota come principio di relatività einsteniana, su cui poggia tutta la teoria di Einstein: per due osservatori in moto relativo uno rispetto all'altro a velocità costante valgono le medesime leggi della natura. Le osservazioni di Einstein erano già state in qualche modo stabilite da Newton, il quale affermava che 'il riposo assoluto non può essere determinato dall'osservazione della posizione dei corpi nella nostra regione di spazio'. Ma la novità geniale introdotta da Einstein consiste nell’aver stabilito che la velocità di propagazione della luce rispetto a un qualsiasi osservatore è sempre la stessa, ed è pari a 300.000 km/s. Il concetto di invarianza della velocità della luce veniva mutuato dalle equazioni di Maxwell, nelle quali la velocità di propagazione delle onde elettromagnetiche – dunque anche della radiazione luminosa – è una 'costante naturale', che non varia se i fenomeni sono descritti in sistemi di riferimento diversi.

Secondo Einstein, dunque, due osservatori in moto uno rispetto all'altro, misurano la medesima velocità della luce, come dimostrato dall'esperimento di Michelson e Morley. L’ipotesi è in netto contrasto con la fisica classica, secondo la quale solo uno di essi si sarebbe potuto considerare a riposo, mentre l'altro compirebbe un errore di misura dovuto alla contrazione di Lorentz-Fitzgerald. Per Einstein, invece, entrambi gli osservatori possono essere considerati a riposo, e ciascuno esegue correttamente la propria misura, assumendo il proprio sistema di coordinate come riferimento: queste coordinate però sono collegate le une alle altre mediante appropriate equazioni matematiche, le trasformazioni di Lorentz, già introdotte per rendere invarianti le leggi dell'elettromagnetismo.

Come conseguenza dell’impossibilità di definire un moto assoluto, Einstein mise anche in dubbio la possibilità di definire un tempo e una massa assoluti.

Le trasformazioni di Lorentz infatti prevedono che un orologio in moto relativo rispetto a un osservatore appaia più lento, mentre gli oggetti materiali sembrino avere massa più grande, modificando entrambi il loro valore di una quantità pari al fattore a. Il principio di tempo assoluto della meccanica newtoniana fu dunque sostituito dal principio di invarianza della velocità della luce dallo stato di moto dell'osservatore.

L'elettrone, scoperto pochi anni prima, fornì la possibilità di verificare la correttezza delle trasformazioni di Lorentz; gli elettroni emessi dalle sostanze radioattive, infatti, hanno velocità prossime a quella della luce, tali cioè da far assumere al fattore a valori apprezzabili. Gli esperimenti confermarono le predizioni di Einstein; la massa di un elettrone dotato di velocità prossime a quelle della luce risulta maggiore della massa a riposo, esattamente nella misura prevista. L'incremento della massa dell'elettrone era dovuto alla conversione dell'energia cinetica in massa, secondo la formula E=mc2 . La teoria di Einstein fu confermata anche mediante esperimenti sulla velocità della luce in corpi d'acqua in movimento e sulle forze magnetiche in sostanze in moto.

L'abbandono del concetto di simultaneità comporta che due eventi registrati come simultanei da un osservatore non risultino tali a un secondo osservatore in moto rispetto al primo. In altre parole, non ha senso assegnare l'istante in cui avviene un evento senza definire un riferimento spaziale.

L'evoluzione di ogni particella o oggetto nell'universo viene perciò descritta da una cosiddetta linea universale in uno spazio a quattro dimensioni (tre per lo spazio e una per il tempo), detto spazio-tempo. La 'distanza' o 'intervallo' tra due eventi qualsiasi può essere accuratamente descritta per mezzo di una combinazione di intervalli di spazio e di tempo.


Nel 1915 Einstein formulò la teoria della relatività generale, valida anche per sistemi in moto accelerato uno rispetto all'altro. La necessità di una simile teoria era data dall'apparente contrasto esistente tra le leggi della relatività e la legge della gravitazione. Per risolvere questi conflitti, egli sviluppò un approccio completamente nuovo al concetto di gravità, basato sul cosiddetto principio di equivalenza.

Nella nuova formulazione, le forze associate alla gravità sono del tutto equivalenti a quelle prodotte da un'accelerazione, per cui risulta teoricamente impossibile distinguere per via sperimentale i due tipi di forze.

L’analogia fra le due relatività è evidente: mentre la teoria della relatività ristretta stabilisce che una persona, all'interno di una macchina che viaggi a velocità costante su una strada liscia, non può in alcun modo sapere se si trova in quiete o in moto rettilineo uniforme, la teoria della relatività generale afferma che una persona, all'interno della macchina in moto accelerato, decelerato o curvilineo, non può dire in alcun modo se le forze che determinano il moto siano di origine gravitazionale o se si tratti di forze di accelerazione attivate da altri meccanismi.

Come esempio si consideri un astronauta in piedi in una navetta ferma sulla Terra. A causa della gravità i suoi piedi aderiscono al pavimento della navicella con una forza pari al peso della persona, w. Se si considera la stessa navicella nello spazio, lontana da qualunque oggetto e non soggetta in alcun modo alla gravità, l'astronauta aderisce ancora al pavimento, se la navicella accelera. Se l'accelerazione è pari a 9,8 m/sec2 (il valore di accelerazione di gravità sulla superficie della Terra), la forza con cui l'astronauta rimane ancorato al pavimento della navicella è ancora uguale a w. Senza guardare fuori dal finestrino, l'astronauta non è in grado di capire se la navicella si trovi ferma sulla Terra o in accelerazione nello spazio.

Secondo la teoria di Einstein, la legge di gravitazione di Newton è un'ipotesi non necessaria; Einstein considera infatti tutte le forze, sia quelle gravitazionali che quelle convenzionalmente associate all'accelerazione, come effetti di un'accelerazione. Così anche la forza gravitazionale, che tiene saldamente la navicella ferma sulla terra, tirandola verso il basso, è attribuibile a un'accelerazione della navicella: infatti, nello spazio tridimensionale la navicella appare ferma, ma nello spazio-tempo a quattro dimensioni, essa è in moto lungo la sua linea universale.

L'ipotesi di Newton, secondo cui due oggetti si attraggono con una forza di entità proporzionale alle loro masse, viene sostituita in relatività generale dall'ipotesi che lo spazio-tempo sia curvato nelle vicinanze dei corpi massivi. La legge della gravitazione di Einstein consiste semplicemente nell'affermazione che la linea universale di un corpo è una geodetica nello spazio-tempo, ossia una curva che congiunge i vari punti dello spazio secondo il percorso più breve.

Per quanto riguarda la relatività generale, la descrizione classica e quella relativistica giungono generalmente a risultati identici, sebbene quest'ultima abbia una formulazione matematica assai complessa, basata sull'applicazione dell'algebra tensoriale e della geometria di Riemann. La famosa affermazione secondo cui solo dieci persone al mondo avrebbero capito la relatività generale di Einstein allude proprio alla difficoltà dei concetti matematici che costituiscono l'ossatura del formalismo della teoria; viceversa la relatività ristretta si basa su calcoli semplici, comprensibili da tutti.

Da quando è stata introdotta, la relatività ha trovato un gran numero di conferme sperimentali. Ad esempio, la teoria predice che la traiettoria di un raggio luminoso sia curvata dalla presenza di un corpo molto massivo: durante l'eclisse del 1919, infatti, gli scienziati sono riusciti a verificare la deflessione di un raggio di luce nelle immediate vicinanze del Sole. Recentemente sono stati effettuati test analoghi per misurare la deflessione delle onde radio emesse da quasar lontani, mediante l'uso di interferometri a radiotelescopio. I risultati di questi test concordano entro un margine di errore dell'1% con le previsioni della relatività generale.

Un'altra conferma sperimentale viene dal moto del perielio (il punto in cui un pianeta passa più vicino al Sole) dell'orbita di Mercurio, che si sposta intorno al Sole con un periodo di 3 milioni di anni. Tale moto, che non trova spiegazione nell'ambito della fisica classica, è invece previsto dalla relatività generale, e le recenti misure radar effettuate hanno confermato le previsioni della teoria con un’incertezza solo del 5‰.

Un altro fenomeno che rientra nelle conclusioni della relatività generale è lo spostamento verso il rosso della lunghezza d'onda della radiazione emessa da oggetti posti in intensi campi gravitazionali, più volte osservato mediante misurazioni astronomiche.

Dopo il 1915 la teoria della relatività generale venne ampliata da Einstein stesso, e ulteriormente sviluppata da scienziati come James Jeans, Arthur Eddington, Edward Arthur Milne, Willem de Sitter e Hermann Weyl. Gran parte del loro lavoro fu volto a estendere la teoria in modo da includere i fenomeni elettromagnetici. Più di recente, numerosi scienziati hanno tentato di unificare la teoria gravitazionale con le altre tre interazioni fondamentali (elettromagnetismo, interazione debole e forte), finora con poco successo: comunque, lo scopo continua a essere perseguito da una vasta comunità di fisici, che studia le teorie di stringhe e superstringhe (Vedi Teoria del Tutto).

Molti degli studi immediatamente successivi alla formulazione della teoria della relatività furono anche dedicati alla creazione di una meccanica quantistica relativistica. Una teoria relativistica per l'elettrone fu sviluppata nel 1928 dal matematico e fisico britannico Paul Dirac; in seguito venne avanzata una teoria quantistica dei campi, chiamata elettrodinamica quantistica, che sintetizza i concetti della relatività ristretta e della teoria quantistica per quanto riguarda le interazioni tra gli elettroni, i positroni e il campo elettromagnetico.

I fisici hanno indagato anche le conseguenze cosmologiche della teoria della relatività generale: entro lo schema degli assiomi posti da Einstein, sono possibili molte linee di sviluppo. Ad esempio, si sa che lo spazio è curvo e si conosce l'esatto grado di curvatura nelle vicinanze dei corpi pesanti, ma non nello spazio vuoto, pure incurvato, per effetto della materia e della radiazione contenuta nell'intero universo. Inoltre, gli scienziati non si trovano in accordo nello stabilire se lo spazio sia chiuso (come una sfera) o aperto (come un cilindro con le basi poste all'infinito). La teoria della relatività implica inoltre la possibilità che l'universo sia in espansione, ipotesi che sembra confermata anche dai risultati sperimentali: ad esempio, l’osservazione che le linee spettrali delle galassie, dei quasar e di altri oggetti distanti risultano spostate verso il rosso, proprio come ci si aspetterebbe da sorgenti di radiazione che si stanno allontanando. La teoria dell'universo in espansione lascia pensare che la storia passata dell'universo abbia un inizio, ma non esclude altre alternative possibili.

Einstein avanzò inoltre l'ipotesi che grossi fenomeni perturbativi di natura gravitazionale, quali l'oscillazione o il collasso di stelle massive, generino onde gravitazionali, che si propagherebbero nello spazio-tempo alla velocità della luce. I tentativi di rivelare simili perturbazioni non hanno avuto fino a oggi i risultati sperati, ma sono attualmente in corso numerosi progetti di ricerca.


Negli ultimi anni, il fisico britannico Stephen Hawking ha dedicato i suoi studi ai tentativi di formulazione di una teoria completa, che unisca relatività generale e meccanica quantistica.


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